A-b-i-g-a-i-l
Alla cannella
perchè è un modo originale di dirti grazie;
Alle cadute libere
perchè ti sorprendono;
Alla grafomania
perchè è un modo tutto personale di capire se stessi;
Ai gufi sul libro di storia
perchè sapevo che prima o poi mi sarebbero stati utili;
Alle onde di un oceano che non ho ancora visto,
alla Kostova che non sa che cosa mi combina,
alle esperienze di un'estate passata dietro un obbiettivo,
a Vitaris e che i suoi capelli bianchi restino sempre incollati a quella capoccia quadra;
E alla musica;
perchè è quello che è e non serve dire altro.
I giorni passati, come cambiano velocemente
Sei perduta e andata da lungo tempo ormai
Voglio ricordare qualunque cosa
Muovendomi alla velocità del suono
Alla velocità del suono
Sono Abigail, Abigail e basta. Non ho cognome, non ora.
L’uomo a cui appartenevo, l’uomo che mi ha cresciuta, l’uomo che tiene ancora
stretta in pugno la mia infanzia e il mio cavallo a dondolo insieme alle
costruzioni, è morto sul ciglio della strada, quella sera, al posto mio, nella
mente e forse anche nel corpo.
Sono Abigail senza cognome, Abigail senza casa, Abigail
senza famiglia. Sono Abigail e questa consapevolezza non è mai stata così
rassicurante. Avere un nome è essere qualcuno per questo buco di mondo; avere
un nome permette alle persone di fermarti per strada, farti girare verso di
loro e concedergli attenzione. Avere un nome significa poter essere trovati,
ovunque, nel mondo, da chiunque, al mondo.
Il mio è Abigail e non è il mio vero nome. E’ il nome della
consapevolezza di essere qualcosa, di essere qualcuno. E’ la consapevolezza di
un corpo che cerca la sua anima e che poi ad un certo punto, sul ciglio della
strada, sotto un sole che picchia ma con il gelo nelle ossa, la ritrova. La
ritrova nell’esatto istante in cui non la cerca più ed Abigail è il nome della
consapevolezza di non aver mai cercato nel posto giusto, seguendo il silenzio e
non il rumore, seguendo la voglia di svuotarsi che si coniuga con la voglia
della sua anima persa di riempirsi.
Abigail è quella storia dei vasi comunicanti, riempio e mi
svuoto nel mio simile che a sua volta si riempie e si svuota in quel vaso che è
il mio corpo, che cerca un’anima e poi la trova. Ci ho versato un po’ di tutto
in quei vasi, sperando di riuscire a colmare in breve tempo la distanza che mi
separa dal tunnel che li collega, goccia dopo goccia, sasso dopo sasso,
sensazioni che si arrampicano e stringono i denti fino a consumarsi anche le
gengive. Persevera, dico a quella
sensazione che scivola sulla parete liscia del vaso, persevera, le ripeto. E lei persevera, si arrampica sull’odore del
tabacco e affonda le mani nel battito di un cuore. Persevera, arrampicati, aggrappati e scavalca.
Abigail è quel controsenso della sensazione che non è
sufficiente per arrivare a quel gradino poco prima del ponte, per svuotarsi in
quel vaso diventato ormai pura ed effimera ambizione. E’ la contraddizione di
vuotare il vuoto nel vuoto. Un gioco di parole cacofonico che fa eco e si
rispecchia contro il vetro. Abigail è il desiderio puro e semplice di volersi
condividere. Non ho nulla, non ho che me stessa e anche in quel caso ho poco e
niente, posso offrire un iride di colore intorno ad una pupilla ampia, nera e
profonda. Ed è la condivisione di se stessi che fa paura, è quel guardarsi, ma
guardarsi per davvero, negli occhi e nell’anima in un modo da poter persino
vedere il colore delle mutande, fino in fondo ai calzini, senza davvero che tu
sia nudo davanti a me. Abigail è pisciare a porte aperte.
Abigail è la sincera paura di restare a secco, senza nemmeno
la riserva, al centro perfetto di una strada senza luci, di una strada senza
insegne. Di una strada senza neanche una strada. Priva di un luogo, priva di un
suono, priva di sensazioni a cui aggrapparsi. Priva di ricordi da dimenticare ed
errori da perdonare.
Posso perdonare quello che
non posso dimenticare e vivere una bugia?
Abigail è nulla da giustificare, nulla da dimenticare né da
perdonare. Abigail è una fotografia di cui si son persi i negativi. E’ un
positivo fragile, cenere tra le ceneri, fuoco al fuoco, patina opaca che
sbiadisce anno per anno. Abigail è “e
ancora mi sto aggrappando forte a questo sogno di una luce lontana”. C’è
ancora quella sensazione che scava il vetro, c’è ancora quel persevera rotto dal pianto, rotto dalla
stanchezza, come una puntina che indugia sul graffio petrolio di un vinile
impolverato al centro di una stanza che aspetta immobile di essere scoperta e
svuotata. Di fianco al giradischi, sopra al cartone di un disco del ’77 degli
allora Warsaw, appeso tra il nulla e la curvatura perfetta dell’emulsione secca
e dura, un negativo. Sei scatti: il primo a metà, come se la tendina si fosse
piantata al centro, incapace di andare avanti, troppo lenta, troppo stanca,
troppo rotta; l’ultimo troppo
contrastato, troppo denso, troppo bianco e troppo nero da far male agli occhi e
al cuore.
Un sussurro nell'oscurità,
sei tu o sono solo i miei pensieri?
Sono completamente sveglia e sto cercando di afferrare qualcosa
Abigail non è più qualcosa, Abigail improvvisamente… è.
E’ un ricordo, un suono al centro di una canzone. Nella
penultima strofa, seconda parola del primo verso, allitterazione e sibilo.
Sensazione che scavalca e si svuota e si consuma ed esplode e schiuma in un
infinito finito. Finito con lei, finito in lei. E la seconda parola, primo
verso, penultima strofa, lentamente si scolora come mascara dopo un pianto
lungo anni, che cola sulle guance e macchia di nero ciò che è pallido. E il
suono diventa essenza e da essenza diventa totalità.
Una totalità che inizia nel silenzio della gola e si
conclude nel silenzio di uno sguardo.
E' diventato tutto così silenzioso ora,
può essere che sono andata ancora più avanti
muovendomi alla velocità del suono
Non così veloce. Un suono non è abbastanza veloce. Il
silenzio sorprende le parole e le frantuma e le consuma.
Sono nata da un impatto, sono scivolata nel mio stesso
sangue e mi sono fatta allattare dal calore e dal leggero ruggito di un
sussurro. Il primo vagito è stato un gemito e i miei primi passi sono stati
quelli verso un pick-up ribaltato al centro della strada. Non conosco il mondo
ma lo avverto, non conosco il mio corpo ma lo sostengo, perdo e ritrovo l’anima
passo dopo passo, rigettando respiri in mancanza di bile.
Mi muovo nei miei sussurri verso il suono ritmico di un
battito. E in un attimo, più veloce del suono, più veloce del silenzio, più
veloce dei ricordi, raggiungo il cielo buio in cui decido di perdere la mia
anima per forse non ritrovarla mai più.
Abigail sono io, nuda, davanti a te, nudo. E tu, quel buio
pesto, tu sei il mio primo ricordo prima che la pioggia cancellasse il dolore,
i lividi, il biondo dai miei capelli e le stelle dai tuoi occhi. Prima che
tutto si trasformasse in rumore, prima che tutto si trasformasse in un buco nero,
così diverso dal tuo, di nero; tu, Imre, eri e sei il mio primo ricordo.
Quando i segnali si
incrociano, voglio metterli in ordine
se non c'è amore, voglio provare ad amare nuovamente
dirò le tue preghiere, starò al tuo
fianco
brucerò, in modo da illuminare tutto
quanto
scaverò la tua tomba
balleremo e canteremo
ciò che è rimasto potrebbe essere
un'ultima possibilità di avere una vita
Fine
***
Non finirà mai questa cosa qui, è sempre in quella parte di cervello che partorisce immagini e sensazioni, martella puntuale e non manca mai un appuntamento. Ho così ben stampati i loro visi sulla retina che nemmeno strappandomi gli occhi riuscirei a schiodarli di lì. E non sono solo i loro visi, sono le loro storie che mi hanno rapita. Non credo abbandonerò mai Imre, nè Emike, nè Aàron che cerca ancora un suo spazio, e tantomeno non abbandonerò Abi, lei è più di quello che uno immagina leggendo queste pagine. Alla fine sono sempre i soliti stronzi di cui si legge da queste parti, non 'è nulla di diverso e ogni autore a fine storia attacca questa stessa pippa su quanto sia legato ai propri personaggi, è sempre così ma averne la consapevolezza non cambia di molto le cose. E' inevitabile.
Comunque le dediche a inizio capitolo sono tutte studiate e chi di dovuto si sentirà ringraziato, intanto dico a Fal che è invitata a pranzo o cena quando vuole, zuppa di patate e delirio sul menù, dico a Chara che ti aspetto qui e ti dico quello che devo a voce, e dico a chiunque si sia avvicinato anche solo per sbaglio a questa storia che anche se non siete comparsi non importa, grazie per aver letto e grazie per aver continuato questo delirio.
Il delirio, nasce tutto da una manifestazione assurda di tradizione dalle mie parti, mi hanno chiamato a far foto e ho avuto modo di conoscere dall'interno un mondo che da piccola avevo modo di osservare solo dall'esterno, ne ero innamorata e le cose non sono cambiate, si sono amplificate. I personaggi sono tipi che per me hanno volti ben diversi da quelli che ho messo lì nel banner, son volti che esistono come anche il loro essere fin nel midollo ungheresi ed il fatto che io abbia fatto sbarcare la mia esperienza in Ungheria è dovuto unicamente alla proposta di riandare nuovamente a fare quelle stesse foto nel paese a noi gemellato, ovvero il gufo sul libro di storia. Quindi la malattia mentale, la terra rossa, l'armeria, l'arco e tutto quel delirio è nato da un pick-up e si è concluso al centro del bersaglio impagliato.
Ed Imre, ovviamente, è il ragazzo di cui mi ero follemente innamorata a quella manifestazione e di cui per assurdo ho solo una foto, anche sfocata.
Le parole in grassetto, alla fine el capitolo, nella parte in corsivo, rimandano ognuno a quei quattro pazzi bruciati, sarebbe bello se qualcuno tentasse d' indovinare quale parola corrisponde a chi.
E quindi basta, le note più lunghe della storia non si possono vedere. Come sempre, tante coccole a tutti voi e ad un futuro prossimo, forse.
Lis
Ps: spesso sotto il grassetto e sotto le parole velocità del suono ci sarà sempre qualcosa da scoprire, basta cliccarci su!