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Autore: e m m e    13/03/2013    7 recensioni
In un mondo dove l’amore è sempre più spesso una condanna, due persone, per uno strano e ironico intreccio di momenti sbagliati, si trovano, si perdono e sono costrette a cercarsi nello sguardo alieno di perfetti estranei.
[Johnlock Soulbond!AU]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Autore: emme

Fandom: Sherlock BBC

Titolo: Una porta di vetro e notte

Personaggi: John, Sherlock

Riassunto: In un mondo dove l’amore è sempre più spesso una condanna, due persone, per uno strano e ironico intreccio di momenti sbagliati, si trovano, si perdono e sono costrette a cercarsi nello sguardo alieno di perfetti estranei.

Rating: Pg13

Word: circa 17.000 (Word)

Generi: Introspettivo, Romantico, Drammatico.

Avvisi: AU, Slash, Angst, Fluff

 

Note: La storia prende spunto da un prompt lasciato sulla community SherlockFest_ita per il “Be Alternative Fest”, ovvero il festival dell’AU. Prompt by Dio_niso: In questo universo è possibile trovare la propria anima gemella con un semplice sguardo. Quando gli occhi di due anime destinate a state insieme si incontrano, un legame indissolubile si crea fra loro ed essi non potranno fare altro che cercare di stare insieme ad ogni costo.

NB: è bene tenere a mente che nella mia interpretazione del prompt le anime gemelle si possono riconoscere solo ed esclusivamente guardandosi negli occhi.

 

Beta: Geilie, che questa volta ha dovuto fare fronte a accenti mancanti, virgole disperse e una trama che è un casino.

 

 

 

 

 

  

Una porta di vetro e notte

 

 

Parte I  - Lovers’ eyes

Well love was kind, for a time
But now it just aches and it makes me blind
This mirror holds my eyes too bright
That I can’t see the others in my life

Were we too young, our heads too strong
To bare the weight of these lovers’ eyes
'Cause I feel numb beneath her tongue
Beneath the curse of these lovers’ eyes.

Lovers’ eyes – Mumford & Sons

 

I

 

John aveva sette anni quando una mattina, scendendo le scale per fare colazione, aveva trovato sua madre seduta al tavolo della cucina con una tazza di tè ormai freddo stretto tra le dita tremanti. Era solo un bambino, ma aveva subito intuito che qualcosa non andava, un po’ perché raramente sua madre trovava il tempo di sedersi a non fare niente e un po’ perché sulle sue guance scendevano lacrime.

John avrebbe per sempre ricordato lo sguardo orgoglioso e fiero che gli occhi di sua madre gli dedicarono quella mattina di novembre.

« Tuo padre ha trovato il suo Soulmate » aveva detto con un sorriso triste.

Le sue lacrime non si erano fermate per giorni.

 

***

 

Soulmate /ˈsəʊlmeɪt/  nome.

Persona che, tramite incontro casuale o fortuito, viene riconosciuta come compagna assoluta della propria anima, con la quale si è disposti a dividere il resto della vita e a costruire un futuro: ha incontrato il suo Soulmate al parco; Julie e il suo Soulmate si sono sposati lo scorso week-end. Esiste uno ed un solo Soulmate per ogni persona vivente.

 

La fai sin troppo facile, caro vocabolario, pensò John richiudendo il pesante tomo con uno scatto del polso.

Aveva appena compiuto undici anni e i suoi genitori si erano separati senza conseguenze legali da ormai sei mesi.

In effetti non aveva tutti i torti: il vocabolario – e il sentire comune – la faceva un po’ troppo facile.

Ci pensò a lungo, osservando la parete della sua stanza con occhi spenti, ci pensò a lungo e giunse ad un’inevitabile conclusione: il vocabolario aveva ragione e la sua definizione era quanto di più perfetto e di più curato potesse esistere, ma c’erano così tante altre cose da dire sui Soulmates che a John girava la testa.
Se al mondo siamo più di sette miliardi di persone quante probabilità ci sono che si incontri proprio quella singola, unica persona che è il proprio Soulmate?

Perché inoltre non viene menzionato il fatto che – poniamo questo esempio – Sarah (e John con una matita azzurra scrisse “Sarah” sul foglio che stava davanti a lui) incontra Eric, che per un caso fortuito è il suo Soulmate, ma – guarda un po’ che sfiga – Sarah non è affatto la Soulmate di Eric ed Eric ha già trovato il suo Soulmate in Julia?

Sul foglio allora comparve:

 

Sarah --------> Eric  --------> Julia --------> ?

 

John guardò sconsolato un grafico che avrebbe potuto andare avanti in eterno. Sin dai tempi più antichi i poeti parlavano con dolore di questa catena impossibile da spezzare.

Il rapporto non è necessariamente biunivoco, gli aveva spiegato la mamma e John era andato a cercare anche quella parola sul vocabolario.

Il ragazzino allungò una mano e sfogliò a caso il libro di Orazio che teneva sempre a portata di mano; la pagina su cui si aprì era la più consunta, la più letta. John scorse con gli occhi le parole che sapeva a memoria: Licoride dalla fronte sottile / arde d’amore per quel Ciro che invece / propende per la dura Foloe; / ma prima che lei ceda al turpe amante // vedrai le capre unirsi ai lupi apuli.

Certo, c’era sempre la possibilità che Julia non trovasse mai il proprio Soulmate e che accettasse l’amore senza riserve di Eric, ma sarebbe mai stata in grado di amarlo davvero?

E Sarah?

A Sarah sarebbe accaduta la stessa cosa che era accaduta a sua madre: una sofferenza eterna che niente, nemmeno l’amore dei suoi figli, avrebbe mai potuto mitigare.

Perché se disgraziatamente trovi il tuo Soulmate sarai costretto ad essere fedele a lui o a lei per il resto dei tuoi giorni: che egli sia un serial killer, uno psicopatico, un pazzo, un vecchio di cent’anni o un bambino di due, non potrai fare altro che struggerti per lui per il resto della tua vita.

John si portò una mano al volto, accartocciò il foglio di carta con quei tre nomi di persone sconosciute vergati in azzurro e tentò di fare canestro nel cestino, al di là della stanza. Lo mancò e la palla di carta rotolò sotto il letto.

Il mondo sarebbe andato avanti anche senza i Soulmates, questo pensava John. La gente si sarebbe comunque sposata, avrebbe fatto dei figli e sarebbe morta senza quelle conseguenze atroci che la condizione umana si portava dietro da millenni.

Il suono del pianoforte di sua madre invase brevemente la casa e John fu cullato dalle note amare di una canzone triste. Posò la testa sulla scrivania e pensò senza convinzione che avrebbe davvero dovuto iniziare a fare i compiti.

A undici anni, quando la paura più grande di un bambino avrebbe dovuto essere il mostro nell’armadio, o la mummia sotto il letto, John era terrorizzato da una e una sola cosa: che alzando gli occhi dal proprio banco di scuola, dal gelato che stava mangiando, dal libro che stava leggendo, incontrasse all’improvviso lo sguardo di quell’anima alla quale la sua era destinata a legarsi per sempre.

 

II

 

Aveva ventitré anni, le vacanze di Pasqua erano iniziate da tre giorni e sua sorella Harry lo aveva supplicato di accompagnarla all’aeroporto al posto della loro madre, che alla vigilia di una partenza rischiava sempre di diventare isterica.

« Ti prego, Johnny! Mamma non mi lascerà andare da sola e se non verrai tu ad accompagnarmi verrà lei di sicuro! »

« Che cosa ci vorrà mai a salire su un taxi e dare il nome dell’aeroporto... D’accordo. Vengo vengo, smettila di giocare con il mio maglione! »

Fu ricompensato da un bacio zuccheroso da parte di Harry, che allora era piccola, dolce e sempre sobria.
Avrebbe potuto dirle di no. Avrebbe potuto accampare una scusa. Avrebbe potuto decidere di guardare a destra invece che a sinistra. Avrebbe potuto fare un milione di cose, ma quello che John fece il quarto giorno delle vacanze di Pasqua dei suoi ventitré anni fu incontrare gli occhi del suo Soulmate proprio qualche millesimo di secondo prima che le porte del gate si chiudessero davanti a lui.

Non fece in tempo a vedere niente, nient’altro che occhi azzurri e acquosi ombreggiati da una cascata di capelli scuri e ricci. Non vide se era un uomo o una donna, un bambino o un adulto, non capì di che nazionalità era, non seppe mai dove era diretto né, ovviamente, quale fosse il suo nome.

La sensazione che si prova davanti al proprio Soulmate la conosceva: l’aveva letta e ascoltata sotto decine e centinaia di forme diverse, su anonimi blog, durante film romantici, in libri di poesie, su trattati scientifici, su articoli mondani, in decine di canzoni ascoltate alla radio, ma nessuna di quelle mere rappresentazioni si poteva avvicinare allo sconquasso emotivo che lo colse all’improvviso, rivoltandolo come un guanto e facendogli desiderare contro ogni logica di gettarsi a peso morto contro il vetro scuro del gate, romperlo a suon di pugni e raggiungere quella persona dentro ai cui occhi aveva letto la beatitudine.

Invece non fece assolutamente niente tranne rimanere immobile a bocca aperta, con le braccia abbandonate lungo il corpo e il respiro corto di un asmatico che gli impediva il normale afflusso di sangue al cervello.
Credette di sentire qualcuno che lo afferrava per un braccio e con estremo fastidio si voltò alla sua sinistra, per incontrare lo sguardo preoccupato di sua sorella.

« John! » uscì dalla sua bocca così vicina e così lontana, così inutile da guardare. John riportò gli occhi verso il gate nella speranza che si aprisse di nuovo solo per lui, ma le dita di sua sorella trovarono un varco attraverso i suoi vestiti e gli assestarono un sonoro pizzicotto.

Il giovane sobbalzò, sbattendo le palpebre, e gli sembrò di svegliarsi da un incubo molto vivido.

« Merda » disse molto piano, flebilmente.

Harry gli afferrò la mano e la strinse tra le sue piccole dita curate. « Oddio John… non me lo dire. »

« Non te lo dirò » confermò lui deglutendo. Aveva la bocca secca, inaridita.

« Chi? » chiese allora lei con voce disperata. « Chi è? »

Gli occhi di Harry comunicavano un terrore senza fine, perché se il Soulmate di John ancora non lo aveva raggiunto, se non si erano buttati l’uno nelle braccia dell’altro come un classico, stupido, vecchio film hollywoodiano, allora voleva dire che l’altro, il Soulmate di John, non aveva riconosciuto John come suo Soulmate.

Ma non era così semplice.

« Non lo so » rispose John, scuotendo debolmente la testa, mentre una vaga consapevolezza di quello che era appena accaduto lo coglieva, terrorizzandolo fino al midollo. « Non ne ho la più pallida idea ».

 

III

 

Sherlock aveva il naso appiccicato al vetro e neppure la minima possibilità che i suoi occhi all’improvviso acquisissero la capacità di vedere al di là di esso. Tentò di fare un buchetto nella plastica appannata che gli impediva di guardare ancora il giovane uomo biondo che gli aveva appena sottratto ogni capacità di pensiero razionale.

« Sherlock! Che stai combinando? » sua madre lo afferrò per una spalla e lo obbligò con forza a voltarsi verso di lei. « Non puoi sapere quante persone si sono appoggiate lì. Hai diciassette anni, comportati da adulto! »

Sherlock impiegò solo un attimo per divincolarsi e fare un salto sulla destra, dove l’adesivo aveva perso aderenza, e appoggiò con foga la guancia al vetro allargando quanto più possibile l’occhio destro fino a che non riuscì di nuovo a individuare il giovane. Era rimasto in piedi, nella stessa identica posizione rilassata in cui era stato colto pochi attimi prima; aveva la bocca aperta e guardava nell’esatta direzione in cui Sherlock si era trovato quando le porte si erano chiuse.

Non si accorse nemmeno di star trattenendo il fiato mentre lo passava in rassegna, ma evidentemente il suo cervello si era spento, perché non riuscì a dedurre assolutamente niente di niente da quel ragazzo biondo, non troppo alto, normalissimi jeans, normalissime scarpe, normalissimo – e di cattivo gusto – maglione azzurro, normalissimi, profondi, struggenti occhi marroni.

Una ragazza che gli stava accanto si aggrappò al suo braccio, richiamando la sua attenzione quasi con disperazione, lui si voltò verso di lei e lei lo chiamò, Sherlock le lesse le labbra: John.

Normalissimo nome per uno che era evidentemente il suo...

« Che cosa stai facendo, Sherlock? »

Sollevò gli occhi sulla figura slanciata e autoritaria di suo fratello maggiore. Aprì la bocca e poi la richiuse, non sapendo come rispondere forse per la prima volta nella sua vita.

« Niente » decise di dire infine. « Stavo solo dando un’occhiata alla gente... »

Ma le dita gli tremarono mentre le stringeva a pugno per trattenersi dallo sfondare a calci quella porta di vetro.

 

IV

 

« La mia psicanalista » sussurrò molto, molto piano John al suo caffè, « non ha assolutamente idea che la mia intera esistenza è votata alla ricerca di un'unica persona tra tutta la gente che popola il pianeta » poi fece una risatina leggera e sorseggiò la bevanda calda che stringeva in mano.

« John! » disse una voce, « John Watson! »

John sollevò gli occhi di scatto, come se fosse stato colto a rubare della cioccolata dal vassoio per gli ospiti, e riconobbe con stupore, misto alla noia che lo accompagnava spesso, Mike Stanford, un compagno dell’università.
Parlarono un po’, lui e Mike; o meglio, Mike parlò parecchio e John rispose a monosillabi.

« Hai deciso di rimanere a Londra? »

« Sì » rispose lui, devo rimanere qui, non posso andarmene, non ancora.

« Senza un lavoro? »

John si strinse nelle spalle. « Troverò un posto economico. E un lavoro » spiegò senza convinzione né vero interesse.

« Potresti dividere l’alloggio con qualcuno e nel frattempo guadagnarci anche qualcosa... ho un amico al governo alla ricerca di un bravo medico che possa occuparsi del fratello ventiquattrore su ventiquattro. »

John, che non aveva intenzione di dividere l’alloggio con chicchessia, domandò suo malgrado: « Qual è il problema? »

« Il fratello è un chimico, parecchio brillante a quanto mi dicono, ma un paio di settimane fa c’è stato un incidente nel laboratorio dove lavorava ed è rimasto parzialmente cieco. Niente di irreparabile, a quanto sembra, ma dovrà evitare di esporre gli occhi alla luce per due mesi. Ti pagherebbero bene e se- »

« Non sono una maledetta infermiera! » si alterò John.

Mike lo guardò, stranito da quell’improvviso scatto d’ira, e sbatté le palpebre.

Dopo un attimo di silenzio, John si passò le dita sugli occhi e disse: « Scusa Mike... è un periodo un po’- suppongo di poter parlare con il tuo amico, e comunque sarebbe solo per poco tempo, vero? »

Mike ritrovò immediatamente il sorriso e rispose: « Certo! E nel frattempo potresti iniziare a cercare un altro lavoro. »

« Be’, d’accordo... per me va bene. »

« Allora ti lascio il suo numero di telefono. È un tipo un po’ particolare, e... cerca di essere paziente con suo fratello. »

E quell’ultimo avvertimento non gli preannunciò proprio niente di buono.

 

V

 

John parlò per una mezz’ora con il dottore che aveva avuto in cura Sherlock Holmes all’ospedale, scoprendo nei dettagli in che condizioni vertesse il paziente e in che modo lui avrebbe potuto aiutarlo. Le ustioni che aveva riportato nell’incidente erano di leggera entità e praticamente in via di guarigione, il problema agli occhi era sì temporaneo, ma nessuno sapeva se, una volta guariti, Sherlock sarebbe stato in grado di vederci esattamente come prima. Le possibilità che rimanesse cieco per tutta la vita erano remote, ma comunque presenti, e il diretto interessato, come si può intuire, non aveva preso la notizia con la dovuta calma.
Tuttavia, quando John lo incontrò per la prima volta, sembrava perfettamente tranquillo e a suo agio nel grande letto d’ospedale in cui era stato sistemato. Una benda bianca gli circondava la testa coprendogli parte della fronte e del naso.

« Il dottor Watson, suppongo. »

John sollevò le sopracciglia, sorpreso. « Come ha fatto a- »

« Il rumore dei suoi passi, e il suo odore. Ha bevuto un cappuccino e non ha fumato la prima sigaretta della giornata come avrebbe invece fatto il dottor Jones. »

« Ah, certo... in ogni caso, pare che saremo coinquilini. »

« Non addolcisca la pillola, dottore lei è qui per farmi da balia » la sua voce era fredda, asettica, eppure con una strana nota dolorosa di fondo, come se trovare la parole per dialogare con lui fosse una perdita di tempo e per giunta una sofferenza.

John spostò il suo sguardo sul resto della figura: due belle mani, rovinate dagli acidi e dagli agenti chimici, posavano tranquille sulle lenzuola bianche; le labbra, disegnate a cuore, erano tuttavia pressate l’una contro l’altra come se si stesse trattenendo dal dire troppo, o troppo poco; La pelle del volto era chiara, quasi pallida, e se John si fosse avvicinato e avesse liberato la sua testa dalle bende avrebbe potuto notare il labirinto scuro delle vene che la trasparenza dell’epidermide lasciava intravedere sulle sue tempie; i capelli erano neri e spessi, disposti in ciocche scomposte sulla fronte e attorno alle orecchie semi bendate.

« In realtà sono qui per aiutarla quando lei deciderà di averne bisogno. Non ho alcuna intenzione di farle da balia, non si preoccupi. »

« Sappia comunque che io non l’ho voluta qui e che meno si rivolgerà a me meglio sarà per entrambi. »

John si sedette su di una poltrona, all’improvviso rilassato.

« Mi sembra più che perfetto » disse.

 

 

VI

 

La prima settimana filò assolutamente liscia, soprattutto perché Sherlock era costretto a letto a causa delle bruciature. Il suo paziente non ebbe quasi il tempo di annoiarsi, dato che ogni dieci minuti circa riceveva una telefonata dal laboratorio che – come John aveva scoperto – dirigeva lui stesso, e per tre ore ogni sera passava a trovarlo una giovane chimica – Molly – che lo intratteneva parlandogli del lavoro e ricevendo dettagliate istruzioni su come procedere senza di lui.

Era un venerdì pomeriggio quando John, passando vicino alla sua stanza, lo sentì dire chiaramente alla giovane donna: « E per l’altra questione? »

« Ho telefonato io stessa a Lestrade per comunicargli i risultati del test. Non era molto contento che non fossi stato tu a lavorarci... »

« Dovevi dirgli che è un idiota. »

« È strano comunque... » sussurrò Molly a quel punto e John si rese conto che si era avvicinato così tanto alla porta da posare la guancia sul legno. Riusciva a vedere la schiena della ragazza, seduta composta su di una sedia vicina al bordo del letto.

« Cosa? » domandò Sherlock.

« Il fatto che non riceva più sms da parte tua. »

Ci fu un attimo di silenzio poi il paziente rispose: « Questa è una delle cose più idiote che tu abbia mai detto. E adesso, visto che sembra che tu abbia tempo da perdere, manda un sms a Lestrade e digli che, come di sicuro gli sarà sfuggito, il ladro è il carpentiere che abita a Soho. »

« Come lo sai? »

« Chi ci ha lavorato su quel campione di terra, io oppure tu? » replicò Sherlock con voce annoiata. « Scrivilo e basta. »

Incerto su come interpretare quello scambio di informazioni, John tornò al piano terra e si dedicò a preparare la cena. La signora Hudson salì proprio mentre Molly aveva finito di indossare il cappotto e si era decisa a salutare.

« Le ho portato una torta fatta in casa, caro... dica a Sherlock che deve mettere su un po’ di peso su quelle ossa! »

Molly sorrise alla vecchia signora con gentilezza e si congedò da entrambi, mentre John accettava il dolce ringraziando.
« Non gli piace mangiare e ha superato da un pezzo l’età dell’innocenza: non credo di essere in grado di forzarlo a fare qualsiasi cosa. »

« Deve provarci, dottor Watson, dopotutto è qui per questo, no? »

John la osservò mentre usciva, sentendosi come sull’orlo di un baratro e al contempo senza riuscire a capire perché. « Non ho idea del perché sono qui » disse alla porta chiusa. « Non ne ho davvero idea ».

 

VII

 

Sherlock rimaneva disteso a letto dalla mattina alla sera e aveva già capito che quella forzata immobilità lo avrebbe portato presto al suicidio.

Odiava con tutto il suo essere non poter osservare il mondo che lo circondava e doversi basare solo sugli altri sensi era assolutamente inconsistente. Perdeva almeno l’ottanta per cento delle sue facoltà e si sentiva come un bambino bisognoso di attenzioni.

Il dottor John Watson si occupava di lui senza quasi farsi notare, il che era quanto di meglio Sherlock avrebbe mai potuto chiedere, ma le continue telefonate che riceveva dal Barts non erano sufficienti a tenere la sua mente adeguatamente impegnata.

Voleva indietro i propri occhi. Voleva indietro il proprio lavoro e voleva indietro il proprio hobby.

Lestrade aveva chiesto la sua consulenza un paio di volte, tramite Molly, ma lui aveva sempre declinato, il primo caso perché era pateticamente semplice e il secondo perché... che cosa mai avrebbe potuto fare senza i propri occhi?

Una mattina, era un lunedì, la mente di Sherlock registrò vagamente l’entrata del dottor Watson nella stanza, ma era quasi tutta concentrata nel risolvere una complicata equazione che aveva provveduto lui stesso a creare per distrarsi. Il dottore dovette forse porre la domanda una seconda volta prima che Sherlock si rendesse conto che stava parlando con lui.

« Come sapeva che il ladro era il carpentiere di Soho? »

Alla sua voce fece eco il suono di un giornale arrotolato. Il quotidiano evidentemente riportava la notizia dell’avvenuto arresto del suo sospettato.

« La terra che abbiamo trovato sotto la finestra conteneva particelle di un tipo di terriccio riscontrabile solo in quella zona, e visto che l’uomo era l’unico tra tutti i sospettati a provenire da lì- ma a lei che cosa importa?! » spiegò Sherlock automaticamente, per poi interrompersi e voltare la testa nella direzione della voce.
« E a lei che cosa importa? Credevo che fosse un semplice chimico. »

« La polizia mi consulta quando non sa dove sbattere la testa, quindi praticamente sempre. »

Non ci fu risposta e Sherlock non sentì alcun suono particolare provenire dal suo interlocutore.

« Allora immagino di aver fatto bene a far entrare in casa un certo ispettore Lestrade che chiede di lei, Sherlock. Ma se preferisce che lo mandi via... »

« No! » esclamò lui saltando sul letto. « No! Lo faccia salire! »

Il dottor John Watson uscì allora dalla stanza, lasciandolo di nuovo solo ad ascoltare il proprio respiro.

Il suo coinquilino aveva iniziato a chiamarlo con il nome di battesimo un paio di giorni prima, senza mai chiedergli il permesso, come se gli fosse diventato naturale pensare a lui come a “Sherlock”.

Sherlock invece non lo chiamava mai con il suo nome di battesimo.

“John” era un nome prezioso, un nome che teneva riservato ad un’occasione importante, un’occasione alla quale non si permetteva di pensare mai, ma che a volte lo teneva sveglio e gli toglieva il respiro.

Lestrade salì, guidato dal dottore silenzioso. Sherlock ci pensò solo per un attimo, poi con la rapidità di mente che lo contraddistingueva disse: « Resti anche lei, dottor Watson ».

 

VIII

 

E il dottor Watson non solo restò, ma accompagnò anche entrambi quando Sherlock insistette per uscire di casa e seguire l’ispettore Lestrade verso quello che doveva essere il luogo del delitto.

In realtà non si trattava di vedere cadaveri o altre simili violenze, quanto piuttosto di andare a interrogare la moglie di una vittima di rapimento e i genitori di un’altra vittima di rapimento.

Il rapimento va bene, pensò John, niente morti violente. Non che non avesse visto la sua parte di cadaveri ai tempi dell’università, ma sezionare un corpo che era stato donato alla scienza era qualcosa di molto diverso rispetto al trovarsi davanti ad una vittima di assassinio.

Sherlock sembrava elettrizzato: John lo osservava con assoluta tranquillità, dato che sapeva di non poter essere colto in flagrante, e poteva vedere come le sue labbra tremassero nel tentativo di trattenere l’emozione.

Non aveva ancora ben chiaro dove si stessero dirigendo, perché lo stessero facendo e soprattutto come un chimico cieco potesse essere di qualche aiuto alla polizia. Ma era sempre meglio che stare chiuso in casa a cucinare cibo che nessuno avrebbe mangiato e ad aspettare qualcosa che mai sarebbe arrivato.

« Prima parleremo con i genitori della bambina » spiegò Lestrade mentre la macchina della polizia li accompagnava sul posto. Sherlock sembrava stranamente a disagio, seduto composto sul sedile di dietro, e John si chiese se forse non avrebbe preferito prendere un taxi.

« La bambina? » domandò, distogliendo lo sguardo dal suo paziente e portandolo a fissare gli occhi dell’ispettore che si riflettevano nello specchietto.

« Naturalmente. Non li legge i giornali, dottore? » si intromise Sherlock a quel punto, voltando rapido la testa nella direzione in cui sapeva di poterlo trovare.

« Questa domanda è abbastanza strana, detta da lei » replicò John stizzito.

« Io me li faccio leggere da Molly. Due settimane fa: caso di rapimento Mallory, la piccola Louise Mallory, di quattordici anni, sparisce alle cinque del pomeriggio, orario in cui solitamente tornava a casa da scuola. I compagni di classe affermano di averla vista salire sul solito autobus che la portava a casa e scendere alla stessa fermata di tutti i giorni. Da lì scompaiono le tracce.

Caso di rapimento Amberley, Eric Amberley, trentasette anni, sparisce lo stesso giorno dall’ufficio contabile in cui lavora, dopo aver fatto gli straordinari fino alle otto. La moglie ne segnala la scomparsa la sera verso le nove e trenta. »

John lo fissò a bocca aperta, incredulo che avesse potuto mandare a mente tutti i particolari.

« Non essere precipitoso, Sherlock, ancora non sappiamo se si tratta davvero di rapimenti, o se sono collegati in qualche modo. A quattordici anni una ragazzina che scappa di casa è la norma. »

« E a trentasette? Avete bisogno di me perché non ci sono prove né in un senso, né in un altro, perché nessuno ha ancora contattato le famiglie e perché due casi di sparizione nello stesso giorno e nello stesso quartiere non fanno certo pensare ad una coincidenza. »

« Nello stesso quartiere? » domandò John a quel punto, suo malgrado ipnotizzato dalla voce autorevole dell’uomo seduto accanto a lui.

« Nello stesso quartiere » confermò Sherlock. E nessuno aggiunse nient’altro.

 

***

 

Quando arrivarono a casa della famiglia Stanford John avrebbe quasi preferito avere a che fare con un cadavere smembrato. La madre della ragazzina era prostrata dall’angoscia e il padre parlava balbettando, come se non avesse la benché minima idea di quello che gli stava succedendo attorno.

Le domande di Sherlock furono professionali e asettiche. John vide in lui l’ombra dello scienziato più nel momento in cui domandava ai genitori di una bambina scomparsa se fossero a conoscenza di una sua eventuale vita sessuale attiva che nei momenti in cui analizzava il lavoro compiuto nel laboratorio del Barts.

Lestrade sobbalzò più volte sulla sedia, me nessuno fece il minimo gesto per fermarlo.

Soltanto John, dopo aver sentito porre tre domande imbarazzanti l’una di seguito all’altra, decise di mettere una mano sulla spalla di Sherlock e di stringere forte.

Lo sentì irrigidirsi di scatto, ma le domande tornarono ad essere meno invasive e più sopportabili.

Chiesero di vedere la stanza della ragazza e Lestrade aspettò fuori, mentre John conduceva il giovane chimico su per le scale fino ad una porta dipinta di rosa.

« Come pensa di poter scoprire qualcosa se non è in grado di vedere niente? Questa è un’assoluta perdita di tempo. »

« È per questo che ho portato lei, dottore. Adesso sia gentile e mi descriva l’ambiente senza toccare nulla. »

John sbatté le palpebre, colto alla sprovvista. « Ma non saprei proprio... »

« Si affidi solo al suo istinto, sarà in ogni caso una soluzione migliore rispetto al lasciarmi da solo qui dentro senza che abbia la minima idea di come muovermi. »

John fece un rapido calcolo di quello che era successo quel giorno per portarlo nella stanza di una ragazzina di quattordici anni insieme al suo paziente-coinquilino nel tentativo di risolvere un caso di possibile rapimento. Non trovò risposta, così smise di porsi inutili domande e passò a descrivere minuziosamente tutto quello che c’era nella stanza.

Uscirono venti minuti dopo con la sensazione di non aver trovato assolutamente niente di rilevante.

 

***

 

La seconda tappa fu a cinque case di distanza, vicino all’entrata della metropolitana – vi giunsero a piedi, con Sherlock che iniziava a destreggiarsi quasi senza problemi con il suo bastone bianco – dove si trovava l’abitazione dei signori Amberley. Catherine Amberley li accolse con una matassa di capelli sporchi appuntati in alto con scarsa cura, il volto grigio cenere e le mani tremanti.

« Descrivimela » ordinò Sherlock, passando improvvisamente a dargli del “tu”, mentre avanzavano sul vialetto d’ingresso. John lo fece con rapidità e a voce bassissima, adattandosi rapido alla novità, mentre Lestrade si portava avanti per fare le presentazioni.

Non appena entrarono in casa li accolse un intenso odore di bruciato.

« Dovete scusarmi. Ho... ho dimenticato la torta nel forno » spiegò la signora con voce rotta, e poi si accasciò su una poltrona, invitandoli a sedersi a loro volta.

« Ci descriva suo marito, signora » esordì Lestrade, visto che Sherlock sembrava aver perso tutto d’un tratto il dono della parola. John lo sentì però annusare a fondo l’aria satura di farina bruciata.

Catherine Amberley fece una descrizione perfetta e accurata di un marito modello, dalla quale traspariva tutto l’amore, l’affetto e la stima che provava per lui. Parlò per dieci minuti interi, senza che nessuno tentasse di interromperla, e avrebbe forse continuato a lungo se Sherlock, dopo essere rimasto in silenzio tutto il tempo, non avesse sbottato all’improvviso: « Era il suo Soulmate » e non era affatto una domanda.

Ci fu un attimo di pausa, poi la donna disse: « Lo era, sì. Lo era » e con questa affermazione scoppiò in lacrime.

Sherlock si alzò in piedi e inciampò nel tavolino di vetro che si trovava tra loro e la signora. John si affrettò a raddrizzarlo prima che cadesse e le dita lunghe dell’uomo si strinsero per un attimo sul suo avambraccio nel tentativo di ritrovare l’equilibrio.

John immaginò che stesse per chiedere di vedere la loro camera da letto o facesse qualche altra domanda, ma l’altro, stupendo sia lui sia Lestrade, disse soltanto: « Ci è stata molto utile, signora. Vedrà che lo troveremo al più presto. »

Lei si profuse in ringraziamenti e, con una rapidità che John trovò disarmante, si scoprirono tutti e tre per strada trascinati da Sherlock stesso. Prima che l’ispettore potesse anche solo fare una domanda, l’altro se ne uscì con: « Prenderemo un taxi per tornare a casa » e con questo si concluse la più assurda mattina che John avesse mai vissuto.

 

***

 

John mantenne la calma per qualche minuto mentre il taxi li riportava dritti a Baker Street, ma alla fine trovò le proprie domande troppo pressanti per attendere un solo secondo di più. Stava per aprire bocca e sfogare la sua frustrazione quando Sherlock lo precedette: « Hai delle domande e mi sembra il momento meno opportuno, quindi- » si bloccò all’improvviso, poi continuò: « quindi parla. »

John rimase un attimo perplesso, cercando di venire a capo di quell’ossimoro vivente che si stava rivelando accanto a lui, poi decise – di nuovo – di mandare al diavolo tutto e di sputare fuori le domande che gli affollavano la mente.

« Il modo in cui hai interrogato i genitori della bambina e poi la giovane donna. »

« Sì? »

« Era molto diverso. »

« Sì. »

« Perché era molto diverso? »

« Perché, caro dottor Watson, la signora ha trovato necessario preparare una torta e bruciarla. »

John lo trovò assolutamente incomprensibile. « Ma non le hai chiesto niente sulla sparizione di suo marito, se trovasse plausibile una sua fuga, se avesse qualche nemico, le hai solo chiesto se era il suo Soulmate. »

« Appunto. E lei che cosa ha risposto? »

John aggrottò le sopracciglia, sempre più confuso: « Che lo era. »

« Esatto » rispose Sherlock Holmes. « Eric Amberley era il suo Soulmate » e per tutto il resto della mattinata non volle aggiungere una sola parola.

 

 

 

Note finali:

Prima di tutto l’aggiornamento avverrà tra una settimana, la storia è già conclusa e conta di tre capitoli.

Poi, molto più importante, questa storia è OOC in modo violento. Ma proprio tanto violento.

Spero tuttavia che sia un OOC giustificato (per me lo è), ma ne parleremo meglio alla fine del mese, dopo l’ultimo capitolo.

Spero comunque che possa piacere. Io ho trovato il prompt di una rara bellezza.

Ah, e i Mumford hanno fatto da colonna sonora dall'inizio alla fine.

  
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