Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Flaren_    16/03/2013    3 recensioni
« Smettila di sfottermi o ti ammazzo, capito? »
« Sì, con i tuoi enormi bicipiti che crescono ogni giorno... »
« Sei proprio ’na stronza oh! Vuoi sentire i miei bicipiti?! »
« No, grazie, tanto saranno uguali a ieri e a l'altro ieri e al giorno prima ancora... »
« Non c'è bisogno che urli, cazzo.»
« Non sto urlando! »
« Sì, invece, mi stai fracassando i timpani con la tua vocetta irritante. »
« Io non ho la vocetta irritante! »
Lui scoppiò a ridere. « Si invece! Hai la voce stridula. »
« Parla quello con la voce così profonda che tra un po' gli esce dal culo! »
« Per i primi cinque secondi pensavo che avresti usato un'elegante metafora, ma quel "culo" mi ha fatto cambiare idea. »
« Era una similitudine, non una metafora, tra parentesi. » lo corressi, sbuffando.
« Secchiona. »
« Caprone. »
« Ti odio. »
« Non è vero. »
« Ma tu devi sempre avere ragione?! »
« Sì. »
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

In memoria di E.M.


A chi è andato via prima del tempo,
e a chi rimane a colmare il vuoto della sua assenza.

 

« Vai, Edoà! » esclamai, ridendo, e gli tirai una botta sulla schiena.
« Se non la pianti non ti porto più in motorino! » replicò lui sbuffando.
« Ma se sei lento come una lumaca! Ci metteremo ere a tornare a casa! »
« Tu pensa a startene buona e zitta, che a guidare ci penso io. Anzi, è l'ultima volta che scrocchi un passaggio da me! »
Risi di nuovo e mi aggrappai meglio a lui. « Dici sempre così. »
« Forse lo dico sempre perché sei una scassapalle. Ci hai mai pensato? »
« Macché, tu mi adori. Anche il tuo motorino mi adora! » gongolai.
Il suo sospiro si trasformò in una nuvoletta bianca di condensa, che salì verso l'alto per poi sparire.
« Tu sei pazza. »
« É uno dei motivi per cui mi ami. »
« Sesese, contaci. Pensa piuttosto che domani mi tocca stare con te tutto il giorno! Chissà in che stato tornerò a casa... » declamò, in tono teatrale.
« Se sei un sega in chimica che vuoi da me?! Ringrazia piuttosto che ti aiuto a gratis! » 
Scattò il semaforo rosso, così si girò per lanciarmi una lunga occhiata sardonica. « Ah, pure soldi volevi?! Ma se hai la pazienza di un rinoceronte incazzato... »
« Sei tu che ci metti quaranta milioni di anni per capire le cose! »
« E mo’ non esageriamo eh! Ho i miei tempi, cazzo. »
« Sei lento! »
« Sono diversamente veloce, ok?! » sbottò, incenerendomi con gli occhi.
Il suo tono offeso mi fece scoppiare a ridere. « Ok, ok, come vuoooi... »
« Smettila di sfottermi o ti ammazzo, capito? »
« Sì, con i tuoi enormi bicipiti che crescono ogni giorno... »
« Sei proprio ’na stronza oh! Vuoi sentire i miei bicipiti?! »
« No grazie, tanto saranno uguali a ieri e a l'altro ieri e al giorno prima ancora... »
« Non c'è bisogno che urli, cazzo.»
« Non sto urlando! »
« Sì, invece, mi stai fracassando i timpani con la tua vocetta irritante. »
« Io non ho la vocetta irritante! »
Lui scoppiò a ridere. « Si invece! Hai la voce stridula. »
« Parla quello con la voce così profonda che tra un po' gli esce dal culo! »
« Per i primi cinque secondi pensavo che avresti usato un'elegante metafora, ma quel "culo" mi ha fatto cambiare idea. »
« Era una similitudine, non una metafora, tra parentesi. » lo corressi, sbuffando.
« Secchiona. »
« Caprone. »
«Ti odio. »
«Non è vero. »
« Ma tu devi sempre avere ragione?! »
«Sì. »
Lui sbuffò. «Io invece sono bello. »
« Bellissimo, guarda. » risi io, sia per il suo repentino cambio di argomento, sia per il suo tono di voce.
« Eheh, lo so. Dillo che sono stupendo. E ho pure dei pettorali stupendi. »
« E niente tartaruga... » gli feci notare, tossicchiando, strascicando la ‘a’.
« Oh ma sei proprio ciecata eh, domani te la faccio vedere cosi la smetti di dire che non ce l'ho! »
« Va bene, basta che non t'incazzi! » risi, lanciando indietro la testa.
« E chi s'incazza, che se ti tiro un pugno rischia che ti ammazzo. »
« No, va beh, spiegami che c'entra »
« Centra centra... Se mi incazzavo davvero ti avevo già ammazzata. »
« Mhh, come facevi ad ammazzarmi dal motorino? »
« Cristo, quanto parli! Se ti volevo ammazzare ti ammazzavo e basta! Vuoi che ti ammazzi?! »
« No, dai. Però i tuoi discorsi non hanno senso. »
« Ecco appunto, allora accanna. I miei discorsi hanno senso, solo che tu non ci capisci un cazzo. »
« Va bene, basta che non fai diventare rosso pure il prossimo semaforo! Voglio vedere, è l’una di notte... grazie al cazzo che non ci capisco una mazza! Mia mamma mi ammazza, cristo. »
Lui controllò l’ora e sbuffò. «Mezzanotte e cinquanta. Ci parlo io con Raffa, tanto mi adora. »
«Vero. »bofonchiai, contrariata. Mia madre quasi quasi voleva più bene a lui che a me! «Ora muoviti, però. »
Edo scoppiò a ridere talmente forte che io, che ero aggrappata alla sua schiena, mi ritrovai a sobbalzare con lui.
«E smettila di ridere, che mi fai cadere! »
«E che ci fa, se cadi ti rialzi. »
«Bastardone! »risi, tirandogli pugni affettuosi sulla schiena. «Edoooo, sta diventando rosso quest’altro semaforo! Arriveremo tardissimo! »mi lamentai.
«Non diventerà rosso, fidati. »
Detto ciò, accelerò all’improvviso, cogliendomi talmente di sorpresa che iniziai ad urlare eccitata. «Edo, ma sei matt... FRENA, FRENA! »
« Cazzo! »
Da quel momento, mi sembrò che il tempo si fosse fermato. Vidi chiaramente il semaforo che diventava rosso, e Edo che frenava. Superammo il semaforo, mentre uno stridio terrificante accompagnato da un odore di plastica bruciata mi graffò le orecchie. Invece di fermarsi, il motorino scivolò in avanti... e una luce accecante mi costrinse a chiudere gli occhi. Percepii però lo schianto, il rumore assordante di lamiera che si accartocciava, e venni sbalzata via, nonostante fossi aggrappata alla schiena ampia di Edo con tutte le forze e la paura che avevo.
Atterrai in una posizione strana, ma sbattei violentemente la testa a terra. L’urto mi fece esplodere migliaia di puntini colorati davanti agli occhi, e sbattere i denti. Immediatamente sentii dolore ovunque: mi sembrava che la testa stesse per esplodermi, ogni respiro mi faceva male e non c’era un centimetro del mio corpo che non urlasse per l’impatto.
Edo.
Il pensiero di lui mi fece alzare in piedi nonostante la testa mi girasse da morire, nonostante ogni respiro fosse un dolore lancinante al petto, nonostante tutto il mio corpo si rifiutasse di camminare, ignorai il dolore e barcollai in avanti, guardandomi intorno per cercarlo.
Vidi la macchina che ci era venuta addosso, ferma in mezzo alla strada, con ancora i fari accesi, e lo sportello aperto, e poi a qualche metro di distanza il motorino, ridotto a pezzi.
E poi, dall’altra parte della strada, c’era Edo, sdraiato a terra, con due persone attorno. Corsi verso di lui, con il terrore che mi attanagliava le viscere, e urlai.
Lui era lì, con un taglio sulla fronte che gocciolava sangue sui suoi occhi azzurri pieni di lacrime. Scoppiai a piangere anche io, e mi coprii la bocca con le mani.
« Edo... Edo... Mio Dio... Non può essere.... » singhiozzai, senza riuscire a mettere insieme una frase di senso compiuto.
Lui cercò di rispondere, ma del sangue gorgogliò fuori dalla sua bocca e tossì, sputando altro sangue sulla sua maglietta bianca, e sporcandosi le labbra e i denti. Ero terrorizzata, gli presi una mano e continuai a piangere, mentre da qualche parte qualcuno disse che stavano arrivando i soccorsi.
« Non dire niente Edo... sono qui con te... andrà tutto bene, vedrai... »
Pregai Dio e tutti i santi che conoscevo che non morisse, che non mi lasciasse sola, che non finisse tutto in quel modo. Dovevo ancora dirgli tante cose, forse troppe. C’erano ancora milioni di cose che dovevamo fare, non poteva finire tutto così!
Ricordo quei minuti interminabili in cui l’ambulanza non arrivava mai, in cui il suo bel viso diventava sempre più pallido. Ricordo che gli strinsi la mano fin quasi a stritolargliela, perché non sapevo dove altro toccarlo senza fargli male. Ricordo che a volte gli urlavo per costringerlo a rimanere sveglio, perché sapevo che se si fosse addormentato non avrebbe mai più aperto gli occhi.
Ricordo tutto questo, ricordo il sangue sulle mie mani, le mie e le sue stesse lacrime che gli bagnavano il volto e le labbra rosse, ricordo i suoi respiri che più che respiri erano rantoli, ricordo la paura che leggevo nei suoi occhi, e che si rifletteva nei miei.
Quando finalmente l’ambulanza arrivò, un infermiere fu costretto a sollevarmi di peso e a portarmi dentro l’ambulanza, perché mi rifiutavo di lasciare Edo anche solo per un istante.
Per un paio di minuti mi costrinsero a rimanere dentro l’ambulanza, mentre cercavano di capire quanto fosse grave.
Il viaggio in ambulanza fu un calvario. Andavamo veloci perché ogni secondo era prezioso, ogni secondo che passava Edo si avvicinava di più al luogo da cui non si ritorna, ma ogni più piccola imperfezione dell’asfalto lo faceva sobbalzare e gemere di dolore. Per fortuna, lo riempirono immediatamente di morfina, così che non sentisse dolore.
Però, quando la morfina fece effetto, la paura nei suoi occhi si fece più evidente: le pupille erano dilatate al massimo, e cercava continuamente di parlare, ma senza riuscirci, a causa del tubo in gola.
« Edo... non dire niente... sono qui con te... non ti lascio andare... » singhiozzai, accarezzandogli una mano.
Lui continuò ad agitarsi, ma improvvisamente il suo respiro si fece più tranquillo, meno affannoso, e il suo viso si distese.  In quell’attimo, capii.
Balzai in piedi e iniziai a gridare: « Edo, Edo, non farmi questo! Non ti arrendere! Non lasciarmi sola, ti prego... ti prego, non andartene... ti prego... ti prego... »
Le mie urla scemarono in sussurri, e poi in singhiozzi. Una lacrima, una sola, scese lungo la sua guancia, e da sotto il respiratore vidi le sue labbra incresparsi leggermente in un sorriso.
« Sono qui con te, Edo, non aver paura. » sussurrai, appoggiando la testa accanto alla sua.
Quando, poco dopo, mi voltai a guardarlo, i suoi occhi erano fissi su di me. Sorrise di nuovo, e allungò una mano per sfiorarmi una guancia con un dito. Prima  che potessi trattenere la sua mano sul mio viso, la sua mano cadde, priva di vita, e venni immediatamente spinta via, mentre i medici si affollavano intorno a lui.
« È in arresto! »
« Presto, il defibrillatore! »
« Eccolo! »
« Carica... Libera! »
I minuti passavano, e Edo continuava a rimanere lì, fermo, immobile. Nonostante sperassi con tutto il mio cuore, nonostante stessi pregando che tornasse da me, sapevo che era andato via. Quando se ne andò, si aprì un grande buco dentro di me, un buco che non sarei mai riuscita a colmare. Avevo appena perso il mio migliore amico, il mio confidente, il mio compagno di giochi, l’altra metà di me, la migliore.
« Ora del decesso: l’una e ventinove. »

 




Sai, Edo, da quando te ne sei andato, qui niente è più lo stesso. In classe, il posto accanto al mio rimane costantemente vuoto, eppure a volte ci giriamo tutti, perché siamo convinti di vederti lì.
Lunedì ero convinta che ti avrei visto appoggiato al cancello, come ogni mattina, o sotto casa mia, con un casco in più in mano, perché sai che odio prendere l’autobus. Prima di chiudere la porta, la Bartolucci ha aspettato le 8.30, e sai quanto sia dannatamente puntuale. Continuavamo tutti a guardare verso la porta, sperando di vederti entrare in classe con la giacca a vento spiegazzata e lo zaino su una spalla, come tutte le mattine.
Durante l’appello, quando i professori arrivano al tuo nome, c’è sempre un grande silenzio, e nessuno ha mai il coraggio di dire che sei assente.
Invece di pulire il nostro banco, i bidelli hanno lasciato tutto com’era, con tutta la tua roba ammucchiata là sotto, e le tue scritte e i disegni stupidi. L’altro giorno cercavo la mia penna, e invece ho pescato una pacchetto vuoto di Cipster, con dentro il bracciale che cercavi due mesi fa, ecco dov’era! Lo abbiamo cercato per tutta casa tua, e anche per la mia, senza mai trovarlo.
Delle tue cose, a scuola, non ho toccato nulla, ho lasciato tutto com’era, ho solo fatto una cosa: ho inciso le tue e le mie scritte e i nostri disegni con un paio di forbici, perché non voglio che il tempo cancelli anche quelle.
Stamattina, sull’autobus, mi sono ritrovata a ridere e a piangere leggendo le nostre conversazioni su Whatsapp, e non riesco a credere che non ci sei. Avevo addosso la tua felpa grigia della Everlast, quella che ho sempre adorato, e mi sono accorta che quelle erano le prime lacrime che ci piangevo sopra, senza di te. A volte mi capita di indossare le tue felpe, o le tue magliette – quasi tutti i giorni -, perché mi sembra di portare con me qualcosa di te. Ogni singolo indumento ha il tuo profumo, e ogni volta che mi vesto scoppio a piangere come una bambina.
Un paio di giorni fa, mi sono accorta che i polsini della felpa blu della Abercrombie odoravano del profumo che ti ho regalato io mille anni fa, e ho capito che da allora, non l’hai mai più cambiato.
Quasi tutte le tue cose ce le ho io: il tuo iPhone con lo schermo rotto – che ironia, si è salvato dall’incidente senza un graffio, quando per una caduta leggera si è frantumato lo schermo -, i tuoi vestiti, i tuoi libri di scuola, anche i cd e qualche fumetto. Tua madre ha voluto che li avessi io, e li tengo tutti in un’anta dell’armadio, che è diventato una sorta di tuo santuario.
Girando per la tua stanza, poi, ho scoperto delle cose che non pensavo di trovare. Le immancabili riviste porno sotto il letto – hai sempre negato di averle, ma ho sempre saputo che tu ce le avessi, quando avevamo tredici anni le ho trovate per sbaglio -, diverse paia di scarpe infilate alla bell’e meglio dietro la porta, sotto il letto e sotto la scrivania, e poi tutti i biglietti che ti ho scritto per il tuo compleanno: diciassette biglietti, i primi cinque scritti da mia madre, gli altri dodici scritti da me, prima con una grafia goffa e tremolante, e poi via via più sicura ed elegante; li hai tenuti in un cassetto per tutti questi anni... anche io ho tenuto i tuoi, e ora sono tutti insieme. Nella parte interna di un’anta dell’armadio, poi, hai incollato tante nostre foto: in una delle più vecchie abbiamo entrambi due o tre anni, io tento di darti un bacio e tu mi tieni lontana con un’aria disgustata che è terribilmente comica. Poi ci sono le gite, i viaggi all’estero, i pomeriggi in cui ti obbligavo a studiare per gli esami, le estati passate tra Mykonos, Ibiza e la Costa Azzurra.
Dopo aver visto quelle foto, sono tornata a casa e ho tirato fuori quei giganteschi album che mio padre ha sempre aggiornato minuziosamente, scrivendo persino data e luogo in cui è stata scattata una foto. Ci sono undici album, due solo per i miei genitori, tra il matrimonio, i viaggi di nozze e i primi anni di matrimonio, dal terzo in poi arrivano le mie foto, e fino all’ultimo album, tu ci sei quasi in tutte. Sei riuscito, non so come, a infilarti anche in qualche foto con i miei nonni o mia sorella.
Gli anni passeranno, gli album si arricchiranno e aumenteranno di numero, ma tu non sarai con me. Io darò gli esami della maturità senza di te, e non dovrò scriverti la tesi perché tu te ne sei dimenticato, o cose simili. Andrò a vedere i quadri finali, quest’anno, senza doverti trascinare, perché hai paura di essere stato rimandato. Andrò all’università e tu non ci sarai, mi laureerò e tu non ci sarai, mi sposerò e tu non potrai farmi da testimone.
Ho sempre pensato che saresti stato con me sempre, fino alla fine, ho sempre immaginato la mia vita con te accanto, perché ho sempre saputo che non avrei potuto vivere senza di te. E ora che non ci sei, non so più che farmene di questa vita. Ovunque guardi, c’è qualcosa che mi fa pensare a te, non riesco ancora a rassegnarmi al fatto che non tornerai mai più.
Quando passo al bar, non prendo il cornetto alla marmellata perché non ti piace, e tanto alla fine finisce sempre che te ne do metà; quando preparo il pranzo, non preparo mai il pesce, perché a te non piace; quando mia madre prepara le lasagne, sono contenta, perché so che tu sarai felicissimo e ne mangerai da solo almeno mezza teglia. Poi mi ricordo che tu non sei qui con me, e tutto mi sembra grigio. Non ci sono colori nella mia vita, se tu non ci sei.
Ti sei portato via metà di me, metà del mio cuore, metà di ogni cosa che abbia mai avuto. Sei sempre stato la parte migliore di me, anche se non te l’ho mai detto.
Ai tuoi funerali c’era tantissima gente, avresti dovuto vedere quante persone sono venute, solo per te. E ognuno di loro ha portato un fiore sul luogo dell’incidente, che ora è un tappeto di mille colori. Penso che non ci sia mai stata cerimonia più bella... i tuoi compagni di squadra ti hanno portato la maglia numero 15 da titolare, quella che hai sempre sognato, e l’hanno messa sopra la tua bara, perché la portassi via con te. Hanno pianto tutti, dal primo all’ultimo, non c’è stato nessuno che non abbia pianto per te.
E poi, quando suonava l’organo, dalla vetrata accanto a me ho visto comparire il sole. Anche il cielo ha pianto la tua scomparsa, per quattro giorni, e poi è comparso il sole. Forse penserai che sono pazza – e inizio a crederlo anche io -, ma sono sicura che quel raggio di sole fossi tu. Il sole è arrivato e ha spazzato via tutta la mia disperazione, la mia tristezza, il vuoto incolmabile che da giorni mi impediva quasi di respirare. Proprio come hai sempre fatto, anche da dove sei ora sei riuscito a consolarmi, con quel tuo modo gentile e pacato. Mi è sembrato quasi di sentire di nuovo la tua ultima carezza, e ho sorriso, nonostante le lacrime.
In quel momento, ho capito che non saresti mai andato via davvero, che non mi avresti mai lasciata sola. Quando cammino per la città, mi capita di vederti seduto su un muretto, appoggiato a un lampione, a cavallo di quel maledetto motorino, o anche semplicemente in piedi. Ogni volta, ti volti a guardarmi, e sorridi, con quel sorriso che è sempre stato solo per me, e allora sorrido anche io.
 
Mi mancherà la tua voce,
mi mancherà la tua risata,
mi mancherà il tuo sorriso,
mi mancherà la tua allegria,
mi mancherà il tuo accento da romanaccio,
mi mancherà ascoltare le tue seghe mentali,
mi mancherà sentire i tuoi discorsi sconclusionati,
mi mancherà costringerti a studiare quando non ti va,
mi mancherà averti accanto a me.
Mi mancherai tu.
Ti voglio bene, Edo.





Gli avvenimenti narrati in questa storia sono in parte reali, in parte inventati. I nomi dei protagonisti sono stati cambiati, e ogni riferimento a persone e avvenimenti reali è puramente casuale.
I discorsi diretti possono contenere qualche errore e qualche parola in dialetto romano, che ho scritto così per dare più versimilità ai discorsi riportati.
Grazie a tutti per aver letto questa one-shot, dedicata a E.M., un caro amico che mi ha lasciato qualche tempo fa.
Grazie, davvero.
   
 
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Flaren_