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Autore: Lady Vibeke    07/10/2007    5 recensioni
Bill e Tom Kaulitz, i gemelli più amati ed uniti dell'universo, celeberrime rockstar e nuovi sex symbol del panorama musicale internazionale. I Tokio Hotel, la fama, i fans, i viaggi, i soldi, il successo, e poi... E poi lei. Leni.
Tom la odiava, Bill non sapeva cosa pensare di lei, ma per entrambi la sua presenza aveva portato non poco scompiglio. Nessuna ragazza era mai riuscita a dividerli, e di certo non ci sarebbe riuscita una semplice stylist neoassunta senza un briciolo di attrattiva.
Questo, almeno, era quello che tutti avevano creduto.
Genere: Romantico, Commedia, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell'Autrice: Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, nè offenderla in alcun modo.

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Leni non era del tutto entusiasta del suo nuovo lavoro.
Per essere il suo primo impiego, per la verità, le sembrava un po’ troppo impegnativo, nonché necessitante di una certa quantità di responsabilità. A dirla tutta, finire a fare la costumista per un gruppo di bizzarri rockettari tedeschi non era esattamente quello che si era immaginata quando la sua mentore Kyla Devore, una famosa stilista scozzese, le aveva detto che le avrebbe procurato un biglietto di sola andata per il successo.

Tant’è, pensò Leni, gettando uno sguardo sconfortato alla minuscola stanza d’albergo che le era stata assegnata. Era certa che i quattro piccoli prodigi, al momento, si stessero accomodando nelle loro principesche supersuite extralusso, con tanto di idromassaggio, bar e chissà che altro.

La vita era veramente ingiusta.

Non aveva avuto ancora modo di incontrare i ragazzi, ma da quel che le era stato detto erano giovani: un paio appena maggiorenni (gemelli, a quanto pareva), uno sui diciannove anni, e uno doveva avere la sua età.

Con un sospiro, lasciò cadere il borsone a terra e buttò la borsa sul divano senza nemmeno accertarsi di aver chiuso la porta. Il viaggio da New York l’aveva stremata, e tornare in Europa dopo sei anni era una dura sfida di riadattamento. I continenti Vecchio e Nuovo avevano ritmi di vita completamente diversi, e ora avrebbe dovuto dimenticare le sue tranquille giornate a fare la commessa di boutique e entrare nell’ottica priva di criteri e orari del mondo dello spettacolo. Senza contare che il viaggio l’aveva distrutta.
Si trascinò fino al bagno (un buco pulito ed elegante, ma praticamente inagibile) e si chinò sul lavandino, lasciando scorrere l’acqua finché non divenne gelida. Ne raccolse un po’ con le mani e se la spruzzò sul viso stanco e tirato, cosciente che la sua speranza che l’acqua avrebbe cancellato le occhiaie scure era pressoché vana. Quando sollevò lo sguardo sul piccolo specchio, infatti, ciò che vide non le piacque: il viso, già di per sé pallido, sembrava particolarmente esangue alla luce azzurrognola del neon, e l’azzurro degli occhi a stento si intravedeva da sotto le palpebre gonfie e livide per il sonno e il brusco cambio di ambiente, e le ciglia bionde non aiutavano certo a far sembrare il suo sguardo più vivace.

Si passò una mano tra i flosci capelli corvini, tentando disperatamente di dar loro una qualche remota parvenza di piega, ma quelli le ricaddero imperterriti lungo la schiena, più lisci e statici di prima. Maledisse il giorno in cui aveva deciso ti tingere il suo biondo cenere naturale di quel maledettissimo nero, che la faceva assomigliare ad un vampiro trasandato.

Gran bel modo per presentarsi ai nuovi datori di lavoro, davvero. Senza contare che il suo tedesco era molto più che arrugginito.

Si sfilò di tasca il tesserino di riconoscimento dello staff del gruppo: Tokio Hotel, Alhena Regan, Stylist, lesse. Accanto ai dati ed al timbro, la sua foto non suggeriva nulla di meglio dello specchio. Le era stata scattata appena venti minuti prima, perché il tesserino le serviva per avere libero accesso alle aree riservate, ma avrebbe di gran lunga preferito fare colazione al bar come i comuni mortali ed avere una foto decente, piuttosto che mangiare nel salone privato con il gruppo ed il resto della crew e sembrare un cadavere su un documento ufficiale.

Compiangendosi, si asciugò in fretta la faccia e si rassettò brevemente la maglia nera, domandandosi se il suo stile non fosse un po’ troppo sul gotico estremo per una band di livelli internazionale, ma, al diavolo, il suo abbigliamento era quello che era, non avrebbe influenzato le sue scelte per il look dei ragazzi.

Quando, due minuti più tardi, mise al collo il tesserino ed uscì dalla stanza, occhiali da sole sul naso, non poté fare a meno di domandarsi se Kyla non avesse un po’ esagerato a raccomandarla per quel posto di stylist.

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Bill era seduto scompostamente sul divano della sua suite, la testa abbandonata all’indietro, un braccio a corprirgli gli occhi e le gambe divaricate in modo ben poco fine.

Il tragitto in pullman da Malpensa (o come diavolo si chiamava quel maledetto aeroporto) all’hotel era stato a dir poco massacrante e gli aveva sottratto tutto quel poco di energia fisica e psichica rimastagli dopo l’aereo.

“Dove hai detto che hai messo il cioccolato?” mugugnò Tom, immerso in una ricerca assennata all’interno di una delle valigie sparse per la stanza.

Bill sospirò. Invidiava suo fratello per la sua immunità assoluta da ogni sorta di stress da viaggio.

“Nella mia borsa,” mormorò, muovendo a stento le labbra. “Sul letto.”

“Grazie!”

Sentì Tom precipitarsi verso il letto a due piazze e cominciare a frugare nella sua borsa. Quando il fruscio cessò e fu sostituito da un secco rumore di carta, seppe che Tom aveva trovato la tavoletta di cioccolato.

“E’ l’ultima?” domandò Tom, andandosi a sedere accanto a Bill sul divano, accavallando le gambe sul tavolino lustro.

“Mmm,” confermò Bill. “Ora te ne torni nella tua stanza, per favore?”

Tom emise una risatina sommessa, leccandosi la bocca con gusto.

“Dobbiamo scendere per colazione tra cinque minuti, non vale la pena che mi prenda il disturbo di arrivare fino alla mia stanza.”

Bill lasciò che il suo braccio scivolasse via dal proprio viso in modo molto eloquente e sollevò un sopracciglio in direzione del fratello.

“Tom, la tua stanza è qui accanto.” Puntualizzò. Tom annuì saccente.

“Appunto.”

“Non ho voglia di scendere, comunque,” proseguì Bill stancamente. “Fammi mandare su un piatto di spaghetti o qualunque cosa si mangi in questo posto a colazione.”

Tom rise di gusto.

“Ho sentito dire che le colazioni italiane consistono in latte e biscotti, sai?” ghignò. “Ma se vuoi ti faccio preparare un bel mix internazionale…”

“Tom, abbi pietà,” lo supplicò Bill, massaggiandosi le tempie. I suoi livelli di esaurimento erano tali che non ricordava di aver mai sperimentato qualcosa di peggiore. “Sono sull’orlo dell’autodistruzione, perché non vai a tormentare qualche bella italiana?”

Tom rimase in silenzio per un istante scarso, poi scattò in piedi tutto pimpante e sorrise ampiamente.

“La sai una cosa? Credo proprio che lo farò.”

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A Tom l’Italia piaceva, tutto sommato. Il cibo era ottimo, gli hotel grandiosi e il clima mite, il che implicava orde di fan psicotiche in mise succinte che non attendevano altro che vederlo affacciarsi ad una delle finestre dell’albergo.

Assolutamente una pacchia.

Scese le scale snobbando l’ascensore. Il brutto di stare ad uno dei piani più alti di un hotel a Milano non era solo l’inconveniente del panorama tutt’altro che accattivante, ma anche l’impressionante quantità di tempo che occorreva per arrivare al piano terra, perciò lui e i ragazzi preferivano farsi le scale a piedi, unendo l’utile della discesa al dilettevole di un po’ di attività fisica tra un’intervista e l’altra.

Svoltando l’angolo del secondo piano, andò a sbattere contro qualcosa, e la collisione non fu quel che si dice un dolce impatto.

“Ouch!”

La sua esclamazione di dolore andò a confondersi con una seconda, mentre Tom si portava una mano alla fronte dolente.

“Mi dispiace!” disse subito una voce in inglese. Tom scosse la testa e aprì gli occhi: la prima cosa che incontrò fu un paio di occhiali da sole griffati ed un volto cereo.

“Non – non fa niente.” Borbottò lui in tedesco, massaggiandosi il punto in cui sentiva sorgere un intenso calore.

La ragazza davanti a lui tentennò un istante, come se stesse cercando di ricordare qualcosa, poi si morse il labbro inferiore incerta. Era alta e piuttosto magra, o forse era solo l’impressione che dava la maglietta extralarge firmata The Cure che portava. Lo sguardo di Tom cadde verso il basso e lui sentì il proprio naso arricciarsi in disappunto quanto notò i fuseaux neri e gli anfibi semidistrutti.
Non gli piacevano le ragazze poco femminili.

Quando guardò nuovamente in su, si accorse che la ragazza aveva un piccolo livido vicino all’attaccatura dei capelli.
Evidentemente lei si accorse di essere studiata, perché si affrettò a congedarsi:

“Non ti preoccupare, non è niente.” Disse sbrigativa, in un tedesco perfetto ma esitante, sfornando un sorriso di gelida professionalità che impressionò Tom non poco. “Ora scusami, ma è il mio primo giorno di lavoro e sono in ritardo.”

E ciò detto gli sgusciò accanto e si precipitò giù per le scale, lasciandolo al centro del pianerottolo con le braccia penzoloni e le dita che premevano contro la fronte che ancora pulsava per la botta.

Si rallegrò del fatto che quella ragazza non fosse italiana, perché se le italiane fossero state tutte così, allora i Tokio Hotel potevano tranquillamente fare marcia indietro verso casa.
   
 
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