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Autore: Trick    20/03/2013    14 recensioni
"«Dimmi qualcosa in gaelico» propose improvvisamente lei.
Remus arrangiò un mezzo sorriso imbarazzato e ci pensò su qualche secondo. Quando parlò, la sua voce era poco più alta di un sussurro.
«Tá brón orm».
«Cosa significa?».
«Perdonami».
"
Prima classificata al contest Paddy's Day indetto da Ferao.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alastor Moody, Fenrir Greyback, Nimphadora Tonks, Nuovo personaggio, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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Note di Trick - nessun bla-bla, questa volta. Soltanto un grazie di cuore a tutti quelli che hanno letto e apprezzato questa mini-long.
1) Credevate che riuscissi a evitare i bla-bla? Siete troppo ottimisti. I tre capitoli che hanno composto questa storia prendono nome da tre santi (ma dai?) e io suppongo che voi sappiate chi siano (poi non so) perché non sono proprio San Teocrazio o Santa Ermenegilda, insomma, qua si parla di gente famosa. Sono San Tommaso, quello che ha infilato il dito nel costato di Gesù perché "se non vedo, non credo"; San Pietro, il furbastro che ha rinnegato Gesù subito dopo il suo arresto; infine, ecco San Giovanni, e adesso il bla-bla ve lo faccio sul serio, così non si può dire che non abbia studiato l'argomento. Secondo non troppo accertati studi cristiani, San Giovanni è l'ultimo degli Apostoli a morire - anzi, sembra addirittura l'unico a non subire alcun martirio e a raggiungere una veneranda età. San Giovanni Fortunello, in pratica.

*
Santi di cartastraccia

Capitolo Tre
San Giovanni – Fui l'unico a sopravvivere



«Scrivo a voi, giovani, perché avete vinto il maligno».
Atti di Giovanni, 2, 13


Sapeva che svuotare la stanza che aveva occupato al numero dodici di Grimmauld Place sarebbe stato difficile, ma aveva dovuto varcare la soglia dell'ingresso per rendersi conto di quanto lo sarebbe stato davvero.
Era sempre stato un posto tetro, Grimmauld Place. Lo era perfino nei racconti di Sirius, quando tutti loro frequentavano Hogwarts e c'era ancora il tempo e la voglia di ridere delle teste mozzate degli elfi e delle smanie di grandezza dei Black.
Attraversando con passo felpato lo stretto androne principale, Remus si rese conto che la breve permanenza dell'Ordine della Fenice non era stata in grado di rendere quel posto meno lugubre. Perfino la cenciosa carta da parati sembrava odorare di cose morte e cose dimenticate. E quella volta, quella dannata volta, c'era perfino l'eco della risata canina di Sirius a rimbombare fra la polvere.
Remus cercò di raggiungere le scale senza fermarsi davanti al grande soggiorno.
Quante sere aveva trascorso seduto davanti al camino in compagnia di Sirius e di una delle bottiglie della nobile riserva di suo padre? Centinaia, forse – a pensarci meglio, si disse, forse avevano trascorso insieme ognuna di quelle sere. Forse avevano preferito non lasciarsene sfuggire nemmeno una perché avevano capito quanto potesse essere facile perderle tutte in un colpo solo.
Remus iniziò a risalire i gradini di legno. Perfino il loro lamentoso scricchiolare suonava come un elogio funebre.
«Avrei potuto pensarci io» lo raggiunse la voce flebile di Tonks.
«Hai lasciato il San Mungo contro il parere dei Guaritori» la ammonì lui. “E contro il mio” aggiunse mentalmente. «Non dovresti nemmeno pensare di sottoporti a simili sforzi».
Lei lo seguì in silenzio fino al primo piano. Remus rimase qualche istante in mezzo al corridoio e si voltò per lanciarle un'occhiata inquisitoria. Tonks recava ancora tutti i segni della battaglia nell'Ufficio dei Misteri. Pesanti ombre scure si allargavano sul suo viso pallido e per quanto cercasse di nasconderlo, zoppicava ancora vistosamente. Non aveva ancora beneficiato del tutto dell'effetto delle Pozioni Cura-Ferite con cui l'avevano rimesta in sesto al San Mungo e il suo sopracciglio sinistro era diviso in due da un taglio che aveva appena iniziato a cicatrizzarsi.
«Da solo non ce l'avresti fatta» esordì lei con franchezza, trattenendo a stento una smorfia nell'appoggiare la gamba dolorante sull'ultimo gradino.
«Ho fatto più cose da solo di quante tu non possa immaginare».
«E ne è valsa la pena?» replicò lei con un sorriso triste. «Io direi di no».
Rimase a guardarla mentre gli voltava le spalle e si dirigeva con cautela verso la sua stanza. Paragonata agli altri Auror che aveva avuto modo di conoscere nel corso degli anni, Tonks era davvero una cosetta minuscola. Le punte dei suoi capelli colorati raggiungevano appena l'altezza delle spalle di Remus. E poi aveva i polsi sottili, i fianchi stretti, le gambe magre come quelle di una cavalletta e le mani piccole e lisce come quelle di una ragazzina... la veste da Auror che sfoggiava con tanto orgoglio la faceva apparire molto più simile a un soldatino giocattolo.
Il ricordo del sapore delle sue labbra appoggiate contro le proprie lo metteva ancora a disagio. Aveva sperato di trovare il momento giusto per parlare con lei di quella sconveniente situazione, ma il mondo era cascato addosso a entrambi e non gli era rimasto nemmeno il fiato nel petto.
Quando l'aveva vista soccombere ai colpi di Bellatrix Lestrange aveva provato la più lancinante paura della sua vita – non se ne era accorto fino a quel momento, fino a quando non l'aveva immaginata perduta, e poi ogni cosa era esplosa, Sirius era morto e si era trascinato all'inferno un pezzo di ognuno di loro.
Si era fatto tutto un po' troppo difficile.
Aveva creduto che il tempo dei baci e dei sorrisi rubati potesse arrivare anche per lui. Se ne era quasi illuso, e quando aveva sfiorato la guancia arrossata di Tonks era arrivato a sfiorare la vera felicità per la prima volta in vent'anni... ma tutto gli scivolava sempre fra le dita. Era stato uno sciocco a scordarsene.
«Oh, Tosca... il pavimento è sotto a tutti questi libri?» fu il drammatico brontolio della ragazza davanti alla porta della sua stanza.
Remus si appoggiò allo stipite e si guardò intorno. Alte pile di libri ingombravano gli angoli della stanza, circondavano la scarpiera, ricoprivano la consolle accanto alla finestra e si impennavano pericolosamente ai piedi del letto. A qualche passo dalla porta c'era un grande acquario vuoto e impolverato, e c'erano dei libri allineati perfino al suo interno. Tonks si voltò per rivolgergli un'occhiata sconcertata e lui fece le spallucce con aria rassegnata.
«Mi piace leggere».
«Questo lo so... ma perché non ti sei preso una libreria?».
«Mancanza di abitudine, presumo».
«Abitudine?» ripeté lei con la fonte aggrottata.
«Le librerie costano, Ninfadora.
Tonks fece un sospiro rassegnato, ma nei suoi occhi balenò un guizzo affettuoso. Si avvicinò al letto, spalancò le braccia come un angelo e vi si lasciò cadere sopra a peso morto. Rimase ferma a osservare il soffitto per qualche secondo. Remus provò l'impulso di sedersi accanto a lei, ma fu lesto a metterlo a tacere. La sua vicinanza lo stordiva, lo rendeva inerme, istintivo... e lui odiava essere istintivo.
«So che è un momento di merda per te, per me e per tutto il resto del globo... ma se non parliamo di quello che è successo, mi esploderà la testa. Ripulire i resti del mio cervello da tutti questi libri potrebbe essere un compito noiosissimo per te».
Remus socchiuse le palpebre con aria stremata. Avrebbe dovuto immaginare che lei non sarebbe stata disposta a gettare alla spalle quel dannato bacio. Tacevano entrambi, ma condividevano la stessa sconcertante sensazione di aver mosso le pedine troppo in fretta. C'era un intero burrone di paure e incertezze a un centimetro dalle punte dei loro piedi, una guerra fuori dalla finestra e un intero esercito di psicopatici in attesa di strappare le viscere di entrambi.
«Non credo sia il momento migliore per parlarne».
Tonks emise un verso sarcastico e intrecciò le mani dietro la nuca.
«Oh, beh... vorrà dire che ci metteremo comodi e aspetteremo che questo schifo finisca. Ma ho come l'impressione che questa guerra ci mangerà uno alla volta, sai?».
«Questa volta non è come l'ultima volta. Siamo più--».
«--preparati, attrezzati, addestrati...» gli fece il verso lei. Il tono cinico che vibrava nella sua voce lo fece rabbrividire. «Lo siamo davvero, Remus?».
Non ebbe più la forza di mentire nemmeno a se stesso. Si avvicinò al letto, si sedette sul bordo opposto al lato sul quale lei giaceva supina e si coricò al suo fianco. Scrutò le chiazze umide del soffitto per qualche secondo e negò con un sospiro rassegnato.
«Siamo fottuti».
Tonks voltò il capo verso di lui e fece una smorfia beffarda.
«È la prima volta in cui ti sento dire una parolaccia e tu la sprechi articolando la risposta più schifosa e apocalittica che potessi darmi... buon Dio, Remus, ogni tanto dovresti mentire».
Lui si passò una mano fra i capelli e arricciò le labbra in un vago sogghigno.
«Non tirare in mezzo Dio e i suoi santi... si arrabbiano facilmente».
«Come fai a saperlo?».
«“Colpì ogni primogenito della terra d'Egitto”» citò lentamente. «Una creatura piuttosto rancorosa, Dio».
«Però ha liberato il popolo d'Israele dopo secoli di schiavitù».
«Per poi farli sterminare per tutto il resto del tempo libero che aveva gentilmente donato loro».
Tonks si sollevò appena, appoggiò il volto al palmo della mano e si mordicchiò confusa l'interno della guancia. I suoi occhi scuri divennero due sottili linee inquisitorie.
«Mi avevi detto di essere stato battezzato in una chiesa cattolica».
«Un battesimo irlandese farebbe barcollare perfino la fede di Gesù Cristo».
«Questa è blasfemia».
«No, questa è una constatazione. Avrebbero dovuto aggiungerla al Vangelo».
Tonks soffiò divertita.
«Dal Vangelo secondo Remus Lupin: “Non battezzate i vostri figli in Irlanda o cresceranno come dei buddisti con la sindrome d'abbandono”».
«Io non sono buddista» replicò con voce neutra. «E non ho la sindrome d'abbandono». “Eppure sei solo” aggiunse mentalmente.
Ed ecco che il passato tornava a inondargli con prepotenza la mente. Era sempre così, rapido e doloroso. James sghignazzava nei suoi ricordi come un eterno adolescente e scambiava pacche sulle spalle con Sirius. Non era il vecchio spettro che si era riconsegnato alla prigionia di Grimmauld Place, non era quell'uomo derelitto che sorrideva come un teschio... no, era Padfoot, era il quindicenne rampollo dei Black con i capelli neri troppo lunghi e il sarcasmo troppo perfido. Il paffuto Peter era ancora Peter, ancora Wormtail, e lui, Remus, era davvero convinto che i Malandrini fossero destinati a durare per l'eternità.
Sarebbe stata un'eternità meravigliosa. Avrebbero potuto organizzare scherzi e scappatelle nelle cucine, infilarsi di soppiatto a Hogsmeade, cercare invano di infilarsi nei dormitori delle ragazze e mai nessuna guerra sarebbe venuta a reclamare la loro gioventù. Sarebbe stato per sempre il prefetto Lupin, solo Moony, solo il ragazzino macilento cresciuto da un piccolo esercito di donne O'Buckley irlandesi che di tanto in tanto scandiva “och” senza rendersene conto.
E Lily avrebbe inseguito James e Sirius, avrebbe riservato loro le più colorite minacce – ma quelle per James sarebbero sempre state un poco peggiori – e alla fine si sarebbero arresi e avrebbero chiesto scusa con gli occhi bassi e la labbra arricciate come due bambini. Lily ne avrebbe riso, avrebbe riso di cuore, e Remus avrebbe riso con lei, perché qualunque uomo avrebbe riso insieme a Lily. E sì... sì, Remus sarebbe stato un uomo. Non umano, magari... ma un uomo, quello sì, quello avrebbe potuto esserlo sul serio.
La stiracchiata allegria sul pallido viso di Tonks lasciò spazio a un'espressione rigidamente severa. Parve intuire la natura dell'improvviso silenzio di Remus, perché si fece più stretta a lui e gli appoggiò la mano sul petto. Lui socchiuse ancora gli occhi e si conficcò i denti nel labbro inferiore.
«È tutto sbagliato» mormorò con voce roca.
«Che cosa?».
«Tutto ciò che è accaduto è sbagliato» insisté ancora. Il suo tono suonava incerto. Sotto le palpebre chiuse gli occhi iniziarono a bruciare. «James e Lily, Sirius... e io sono qua. Sono qua e non ne conosco il motivo».
Tonks prese ad accarezzargli piano i capelli. Il bacio che posò sulla sua fronte parve leggero come un alito di vento primaverile.
«Abbiamo bisogno di te più che mai, Remus. L'Ordine ha bisogno di te... Harry ha bisogno di te.».
«Nessuno ha bisogno di me».
Lei alzò un sopracciglio con eloquenza.
«Mio padre ha sempre detto che gli uomini migliori sono proprio quelli che pensano di non servire a niente».
Lo sguardo di Remus si fece d'un tratto tagliente.
«Io non sono un uomo».
«“Sono Remus Lupin, il sanguinario Lupo Mannaro dell'Ordine della Fenice”» gli fece il verso con insofferenza Tonks. «“Sono una feroce Creatura Oscura che divora vergini e bambini, lo sterminatore più temuto da ogni mago o strega della Gran Bretagna”. Di', è questo che vuoi sentire? Vuoi che ti dica la verità. Eccola: sei un idiota» la sua voce si era accesa con una note esasperata. I suoi occhi scuri parevano scintillare. «“Nessuno ha bisogno di me”, “io non sono un uomo”... vaffanculo, Remus. Se ti ostini a dire di essere un mostro, la gente ti riterrà un mostro per tutto il resto della tua vita».
Remus si alzò di scatto a sedere con stizza. Sentiva la rabbia e l'indignazione montargli nel petto, eppure c'era una piccola parte della sua testa che sapeva chi dei due aveva davvero ragione. Era la coscienza che si faceva trascinare dall'eco delle voci di Sirius e James, dalla risata di Lily, dal ricordo di una pacca sulla spalla e una fotografia scattata ai piedi della capanna di Hagrid.
Tu non sei un mostro, Moony”. E lui lo sapeva, lo sapeva davvero: quando veniva paragonato a Fenrir Greyback scoppiava come una furia, umiliato e rancoroso; e Dolores Umbridge, l'Unità di Cattura, suo padre... Remus detestava ognuno di loro. Il mostro era soltanto ciò che loro desideravano lui fosse. “Hai solo un piccolo problema peloso, amico”. Non era un mostro, non lo era mai stato. Aveva sempre combattuto contro i propri istinti, aveva trattenuto artigli, zanne e ferocia dentro di sé per tutti quegli anni, si era fatto a brandelli da solo, plenilunio dopo plenilunio, perché l'idea di poter diventare una bestia era più terrificante della morte stessa. “Och, ragazzo” scherzava spesso sua madre. “Tutti gli irlandesi sono dei mostri. Mai metterti contro di loro, perché l'Irlanda gli ha insegnato a mordere”.
Lui mordeva come un irlandese battezzato a metà, come un mago che non ricordava di essere mai stato umano, come un Lupo Mannaro che non conosceva il sapore della carne di un altro uomo... mordeva la vita a metà, saltellando da una parte all'altra senza trovare il proprio posto nel mondo.
Ma negare era più facile. Ostinarsi e battere i piedi, chinare il capo e sopportare, alzare la spalle e scuotere la testa era facile. Trovare l'orgoglio di gridare al mondo: “Io sono un Lupo Mannaro e vengo a reclamare il mio diritto alla vita”... quello era impossibile. Significava combattere da solo una guerra contro tutti.
«Tu non sai cosa vuol dire essere me».
«No, non ne ho idea» replicò con schietta sincerità Tonks. Sembrava diventata improvvisamente più adulta e matura di quanto non avesse mai cercato di apparire. I suoi capelli rosa cicca stonavano con la fiera gravità del suo volto. «Ma so cosa vuol dire essere me. So cosa vuol dire essere la figlia di una donna che agli occhi della comunità magica rimarrà per sempre una Black. La sorella della più dannata Mangiamorte fra le fila di Lord Voldemort, della moglie di un Mangiamorte, cugina di altri Mangiamorte, traditori e bastardi». Storse il naso con un fremito d'ira e fece un profondo respiro. «Io sono un'Auror... ho sempre desiderato poter diventare un'Auror, ho sputato l'anima per diventare un'Auror, ma al Ministero la voce che si sussurra non cambia mai. Giorno dopo giorno, anno dopo anno... credono che non li possa sentire, ma non è vero. “Sua madre è una Black”» sputò l'ultima parola con enorme disgusto. «“Non combinerà niente di buono. I suoi parenti sono dei Mangiamorte... e tutti gli altri sono solo dei Babbani”. E sai, Remus... molti ritengono sia meglio avere il Marchio Nero sull'avambraccio piuttosto che non avere la bacchetta fra le mani».
Lui la guardò a lungo. Aveva degli occhi meravigliosi, limpidi e vivaci, ma in quel momento brillavano di cupa tristezza. Remus si rese conto di non avere mai avuto la più pallida idea di quale fosse il loro vero colore. Non sapeva nemmeno come fossero in realtà i suoi capelli – e dire che li avevi visti rosa, verdi, blu. Quello che stava guardando avrebbe potuto essere il volto di una giovane donna che non esisteva, ma la sua angoscia era genuina. Lo erano le lacrime che stava ricacciando indietro, le labbra strette, i pugni serrati.
Era vera.
In una situazione diversa avrebbe replicato che non c'era alcuna analogia fra la sua situazione e la propria. “La discendente di una lunga dinastia di assassini e figli di puttana che ha potuto scegliere cosa fare della propria vita. Io non ho mai potuto scegliere nemmeno il colore dei miei vestiti”. Eppure le parole gli restarono annodate in gola come un'indistricabile matassa di lana.
Sapeva che avvicinarsi a lei era uno sbaglio di cui si sarebbe pentito, ma la baciò ugualmente.

*

Fenrir Greyback non avrebbe mai riconosciuto il figlio di John Lupin nel lacero straniero che era arrivato nei bassifondi di Dock Road, ma Remus non avrebbe mai scordato il fetore del suo alito. Era rimasto appiccicato addosso ai suoi peggiori incubi per quasi trent'anni, insieme ai suoi famelici occhiacci gialli e al lento incedere delle zampe nel fango. E le zanne, gli artigli, l'acuto dolore dei denti che affondavano nella sua carne... e la pioggia di Durham che scivolava sul suo piccolo viso, il sangue che gli riempiva la gola, sua madre che gridava nell'oscurità e urla distanti e allarmate di gente che correva e si trascinava in strada per capire cosa fosse accaduto.
E Fenrir doveva essere ancora lì, protetto dai bassi boschi della piccola contea a scrutare con gioia animalesca il risultato del proprio lavoro. Remus era la sua vittoria, la sua vendetta, ed era di nuovo davanti a lui, con una camicia lercia e stracciata e la barba incolta incrostata di terriccio.
Il suo volto era stanco e pallido, ma i suoi occhi lampeggiavano di vivida attenzione. Teneva una mano sprofondata in una delle tasche dei vecchi jeans che aveva indossato e l'altra stretta alla cinghia di una logora tracolla di pelle.
Pioveva così tanto che la tesa del cappello che indossava si era appesantita d'acqua e continuava a piegarsi e a inondargli la faccia di acqua. Remus rimaneva tuttavia rigidamente immobile davanti a Fenrir. Il suo era stato un battesimo da blasfemi e aveva sputato nell'acquasantiera, ma era sempre per metà un irlandese di Kinsale – e sua zia Maire diceva che l'unica cosa che a Kinsale non sarebbe mai finita era la pioggia. E il brodo di pecora.
«Sei l'irlandese che chiamano O'Buckley?».
Remus schioccò distratto la lingua. Gli tornò in mente sua madre: ripeteva lo stesso gesto fra una Rothmans e l'altra. Cosa avrebbe detto nel vedere il proprio unico figlio cercare di abbindolare il licantropo che aveva distrutto loro la vita? “Cercherebbe di prenderlo a sberle” si disse. “E poi prenderebbe a sberle me”.
«Och, dipende da chi lo cerca».
Aveva strascicato con forza le vocali. Erano anni che non risentiva la propria voce calcare con tanta decisione sull'accento della costa meridionale. Il tempo trascorso in Inghilterra non gli aveva lasciato molto del retaggio affibbiatogli dalle donne O'Buckley, ma parte di quella strana parlata non lo avrebbe mai abbandonato del tutto. La gente non se ne accorgeva subito. Perfino Kingsley, che aveva detto di avere una nonna di Cork, si era stupito di scoprire che Remus aveva trascorso in Irlanda buona parte della sua vita. “Un mezzo irlandese battezzato a metà”.
«Lo cerco io».
«Allora temo proprio di non conoscere nessun O'Buckley».
Greyback fece una smorfia.
«Ti ho già visto da qualche parte».
Nonostante fosse piuttosto a disagio e sentisse la situazione sfuggirgli fra le mani sempre più in fretta, Remus si limitò a mostrare i palmi.
«Il mondo è pieno di irlandesi che non stanno in Irlanda e pare abbiano tutti la stessa faccia».
«Non tutti gli irlandesi sono dei Lupi Mannari. E non tutti i dannati Lupi Mannari si chiamano Malachy O'Buckley».
Remus si chiese quanto fosse saggio aggiungere una menzogna a un'altra menzogna. “Speriamo ci sia un santo protettore dei bugiardi che abbia voglia di darmi una mano”.
«Sono io».
Il pugno di Greyback arrivò così rapido e brutale da non lasciargli nemmeno il tempo di arretrare. Lo schianto delle nocche sul suo zigomo fu terribile. Colto totalmente alla sprovvista, Remus si piegò in avanti e portò una mano al viso, tenendo d'istinto il capo alzato per controllare che non sopraggiungessero altri colpi. Si lasciò sfuggire un roco grido di dolore e un'imprecazione fra i denti, e non riuscì a schivare nemmeno il violento calcio che parve trapassargli lo stomaco. Boccheggiò privo di fiato e cadde in ginocchio nelle pozzanghere. La tracolla gli sfuggì dalla spalla e la consunta Bibbia di Gora O'Buckley scivolò fuori.
Greyback ne fu talmente incuriosito da commettere l'errore di chinarsi. Remus colse l'occasione al balzo: estrasse la bacchetta con un gesto fulmineo e gliela puntò alla gola.
«Non un respiro o giuro su Dio che ti ammazzo, figlio di puttana».
Si rialzò in piedi con fatica, facendo cautela a ogni movimento del licantropo. La testa gli doleva terribilmente e lo sterno sembrava in procinto di esplodere, ma nei suoi occhi brillava un feroce odio. Era tutto per Fenrir Greyback, per l'infanzia che gli aveva strappato, per l'adolescenza che era stato costretto a rubare con la punta delle dita, per tutto il resto di una vita di stenti e miseria, per Tonks che aveva dovuto abbandonare in mezzo a una guerra che non sembrava destinata a finire... era l'odio di un'intera esistenza vissuta a metà.
«Remus Lupin...» sibilò con rabbia Greyback. «Dovevo immaginarlo».
«Non sei mai stato dotato di particolare immaginazione».
Gli occhi gialli di Greyback brillavano di inumano disgusto. Digrignava i denti come una bestia affamata e dalla sua gola risaliva un basso ringhio, ma non sembrava intenzionato a chinare la testa davanti al proprio avversario. Sollevò le mani in segno di resa, ma la sua espressione era beffarda e malefica.
«Avanti, ragazzo... uccidimi».
Il suo fiato puzzava di carogne e fumo stantio, ma Remus restò impassibile. Le loro ombre si allungavano tremolanti alla luce dei lampioni. Erano diverse come l'alba e il tramonto. “Io sono un uomo”. Greyback inclinò appena la testa. La pioggia aveva schiacciato i suoi lunghi capelli grigi davanti alla fronte alta e scarna.
«Uccidimi, Remus Lupin. Liberati di me».
«Io non sono come te».
«Lo sei sempre stato».
E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, Gesù ebbe fame” recitò mentalmente. La mano che stringeva la bacchetta fu scossa da un tremito impercettibile. Sarebbe stato così facile... così pratico... aveva già ucciso, dopotutto. Non era certo di essere sopravvissuto alla guerra, ma non poteva dire di non esserci cresciuto in mezzo. E quella era una guerra – la sua guerra, quella che era costretto a fronteggiare da quando era solo un bambino. La morte di Fenrir Greyback avrebbe rappresentato la fine del proprio Inferno. Niente più notti insonni, niente più paure remote tornate a disturbare il suo riposo... la formula dell'Anatema Che Uccide fremeva sulla punta della sua lingua. “La luna piena non smetterà di sorgere. Io resterò un Lupo Mannaro e a ogni mese sarà come se nulla fosse cambiato”.
«Silente pensa di averti addomesticato, eh?». Greyback si passò la lingua sulla labbra. «Ti ha infilato addosso una veste da dannato mago... ma non lo sei, Remus. Non lo sarai mai».
«È questo il motivo per cui stai scodinzolando ai piedi di Lord Voldemort?» lo rimbeccò con sfrontata ironia. «Vuoi una vestaglia? E dopo che farai? Indosserai una cuffia e un paio di occhialetti e andrai in giro a mangiare bambine con il cappuccio di rosso?».
L'orrenda bocca di Greyback si distorse in un raccapricciante sogghigno.
«O forse assaggerò quella graziosa strega dai capelli rosa che ti porti a letto».
Fu come essere essere stritolato nella morsa di un Acromantula. Le parole di Greyback gli squarciarono la pelle e si insinuarono nel suo torace, serrandosi attorno allo stomaco, ai reni e ai polmoni. Cedette ancora al ricordo della notte in cui le zanne del Lupo Mannaro erano sprofondate nel suo fianco e per un istante fu di nuovo un bambino terrorizzato.
Ripulire i resti del mio cervello potrebbe rivelarsi noiosissimo” riecheggiò nella sua testa. La risata e il sapore delle labbra di Tonks erano il peggior predatore che gli avesse mai dato la caccia. Rideva con brio, lanciava battute scanzonate e afferrava la vita a piene mani. Ma era giovane, era irruente, era un fiume in piena che quella guerra avrebbe potuto fermare in un battito di ciglia. Mentre la immaginava crollare con la gola squarciata fra le braccia di Fenrir Greyback, si sentì pervaso da una rabbia cieca e indomabile. La maledizione gli sfuggì dalle labbra prima ancora di rendersi conto di cosa stesse facendo.
«Crucio!».
La notte si riempì delle grida di dolore del Lupo Mannaro. Fu il suo turno di crollare in ginocchio, lercio e umiliato. Rotolò sulla schiena in preda a lancinanti sofferenze. Remus non abbassò la bacchetta. I suoi occhi erano folli, la sua mente annebbiata. “Uccidilo!” si disse. “Uccidilo ora! Uccidilo adesso!”, ma gli ordini di Silente non erano quelli.
Remus avrebbe dovuto mescolarsi fra i licantropi, convincerli a scendere in battaglia contro Lord Voldemort, mostrarsi migliore. Ma era così facile stare in piedi davanti alla creatura che gli aveva distrutto la vita, fissandola gemere e dimenarsi alla luce stiracchiata dei lampioni...
Tu non sarai un brav'uomo, Remus. Tu sarai un uomo straordinario”.
Indietreggiò di colpo e osservò stranito la sagoma spezzata di Greyback. Si osservò una mano come se non potesse credere che facesse parte del proprio corpo. “Io sono un uomo. Io sono un uomo. Buon Dio, io sono un uomo”.
Raccolse la Bibbia e osservò la croce sulla copertina di pelle con sguardo vago e distante.
Disse Satana: «Sei sei Figlio di Dio, gettati, poiché sta scritto: il Signore darà ordini ai suoi Angeli affinché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede». Ma Gesù disse: «Non tenterai il Signore Dio tuo»”.
Remus socchiuse gli occhi. La pioggia scendeva dal suo viso e svaniva nella barba incolta portandosi dietro lacrime di furia e vergogna.
Dio mio, Dio mio... perché mi hai abbandonato?”.

*

La Stamberga Strillante era un posto chiuso e soffocante, e l'aria era resa rancida da secoli di polvere lasciata ad accumularsi. A ogni passo di Tonks vaghe nuvolette grige si sollevavano dal pavimento. Si muoveva con cautela attraverso lo stretto corridoio, sorreggendosi con una mano alla parete e tenendo l'altra davanti al volto, con la punta della bacchetta illuminata come unica guida. Il suo piede inciampò in ciò che restava di un vecchio tappetto consunto e cadde a terra.
«Porca puttana!» imprecò con rabbia mentre si rialzava. «Invece di uno stupido zerbino, io avrei comprato un lampadario!».
Abbassò piano la maniglia di ottone. La porta si aprì con un lamentoso cigolio. Fu felice di trovare la stanza piacevolmente illuminata da un paio di fiamme galleggianti. Non l'avrebbe mai definito un posto confortevole, ma perlomeno avrebbe avuto la possibilità di guardare dove metteva i piedi.
Remus era accucciato ai piedi del letto con le braccia appoggiate alle ginocchia piegate e una Bibbia aperta fra le mani.
Madama Chips le aveva riferito di averlo visto sgattaiolare fuori dall'infermeria prima che riuscisse a controllare che stesse bene.
È un incosciente” si era lamentata con gli occhi arrossati dal pianto e un fazzoletto umido stretto fra le dita tremanti. “È sempre stato un incosciente... ha preso un sacco di botte, stasera, e abbiamo bisogno di lui, e invece se ne va senza nemmeno la decenza di farsi visitare. Beh, perlomeno sappiamo che non ha le gambe rotte”.
Alla Stamberga Strillante, Tonks” aveva mormorato con un filo di voce Hermione, seduta su un alto sgabello di legno in un angolo dell'infermeria. Ron annuì in silenzio. “C'è un passaggio segreto sotto il Platano Picchiatore. Il professor Lupin deve essere andato là”.
Come fai a saperlo?”.
La ragazza aveva indicato con aria distratta una delle finestre che si affacciavano sul gigantesco parco di Hogwarts. Il maestoso albero si intravedeva appena nella nebbia dell'alba.
I rami sono fermi. Qualcuno è scivolato da poco fra le radici”.
Tonks osservò Remus con più attenzione. Aveva gli occhi cercati da ombre più scure di quanto non avesse mai avuto, era sinistramente più pallido e il sottile rigolo di sangue che si era rifiutato di farsi medicare si era ormai incrostato sulla sua tempia. Il suo sguardo era spento.
La giovane si passò una mano fra i capelli grigio topo, fece un lungo sospiro rassegnato, si avvicinò a lui e lasciò cadere sul materasso la sacca che Madama Chips aveva riempito di bende e pozioni. “Gli rimetta a posto la testa, signorina Tonks, o sarò io a staccargliela di netto”.
«Madama Chips era preoccupata. Sei fuggito prima che potesse metterti le mani addosso».
Lui fece una leggera smorfia.
«Suona come una minaccia».
«Lo è» replicò schietta lei, stringendo fra le mani un pacco di garze e una boccetta piena di un liquido verdastro.
«Tieni quella roba lontano da me» la ammonì in fretta.
«Non fare il bambino: è solo essenza di Dittamo».
«Viene sciolto insieme all'Aconito».
«Non in quantità sufficiente per ucciderti».
«Ma in quantità sufficiente per darmi più dolore che giovamento». Remus frappose un indice fra di loro e aggiunse: «Sono un Lupo Mannaro, non--».
«Davvero?» lo interruppe con pesante sarcasmo Tonks, inginocchiandosi accanto a lui e avvicinando al suo viso una piccola pezzuola umida. «Non l'avevo capito».
Tentò di spostarle la mano con espressione intimorita, ma la ragazza fu più lesta e gli afferrò rudemente il polso.
«È solo acqua, Remus» lo rassicurò esasperata. «Acqua. Non è certo mia intenzione attentare alla tua lieta esistenza da licantropo disadattato».
«Io non--».
Le parole di Remus si trasformarono in un soffio di dolore. Tonks premette con più decisione sulla ferita, con le labbra arricciate in un'espressione compiaciuta.
«Fa male».
«Non lo dubito».
«Ti stai divertendo?» le chiese con un'occhiata inquisitoria. «È il tuo personale modo di vendicarti per come ho... ahi! Accidenti, brucia troppo per poter essere “solo acqua”».
«Apri le orecchie, razza di idiota: non sono venuta qui per farti da balia. Hai la testa più dura che abbia mai visto e Merlino mi è testimone, ma al momento non mi pare messa granché bene, quindi piantala e lasciati medicare» sbuffò indispettita. Poi inclinò appena la testa e inarcò con eloquenza un sopracciglio . «Inoltre... di cosa dovrei vendicarmi?».
«Per amor di Godric, Ninfadora, non ricominciare».
«Tu stavi ricominciando, non io. E prima che tu aggiunga qualcosa, Remus, mi dispiace... ma sono troppo giovane, troppo ricca e troppo indifesa per te». Nonostante la malevola ironia, il suo tocco si era fatto più delicato. «Per non contare il fatto che sei noioso e pedante».
Remus non interferì oltre con i tentativi di Tonks di sistemargli la tempia. Se ne rimase fermo con il capo basso, deciso a evitare lo sguardo inquisitore della giovane. La pezza era solo appena inumidita, ma a contatto con la pelle sembrava gelida e tagliente. O forse erano le mani di Tonks, forse era la mesta consapevolezza di averla accanto senza poterla davvero sfiorare. Forse era la sensazione raggelante del mondo che crollava sulla loro testa.
«Buon Dio... non posso credere che Silente sia morto».
Tonks impietrì davanti alla sua lapidaria osservazione. La mano le ricadde sul grembo, le spalle sottili s'incurvarono sotto il peso di un'altra battaglia perduta. I suoi occhi scuri si velarono di rassegnazione, le labbra si strinsero in una linea tirata e ritornò la bambina confusa che essere stata un tempo, quando nessuno aveva desiderio di spiegarle la guerra. Eppure lei capiva da sola, perché come avrebbe potuto non sentire il pianto spaventato della madre dall'altra parte della parete?
Tonks aprì la bocca per dire qualcosa, ma la sua attenzione venne richiamata dalle pagine della Bibbia che Remus teneva ancora fra le mani.
«Ehi, non è inglese».
«È gaelico».
In un primo momento sembrò confusa. Poi schioccò le dita a mezz'aria e alzò gli occhi al cielo.
«Avevo dimenticato che sei cresciuto in Irlanda».
«In realtà non ho mai parlato molto in gaelico» negò candidamente lui. Davanti all'espressione perplessa di Tonks aggiunse: «È una lingua che sta facendo il suo decorso. Ormai si arrangia un mezzo inglese che metta d'accordo tutti. L'unica donna che ho conosciuto che si è sempre rifiutata di parlarlo è stata mia nonna. Lo conosceva, ma non voleva usarlo. Questa Bibbia apparteneva a lei». Fece un tiepido sorriso. «Sai, non credo gli saresti piaciuta».
«Perché?».
«Perché a mia nonna non piaceva nessuno» ridacchiò. «Stessa pasta con cui è fatta mia zia Edna, ma un po' meno stupida. Fa esorcismi in cucina... o almeno lo fa quando zia Maire non è impegnata a cucinare pecora. Sei mai stata nel sud dell'Irlanda?».
Sorridendo appena, Tonks scosse il capo.
«E ti piace la testa di pecora?».
Lei emise un verso disgustato e Remus scoppiò in una blanda risatina.
«Ricordami di non portati mai a Kinsale. Mia zia Maire ha ucciso per molto meno...» commentò teatralmente. «E zia Edna brandirebbe un santino di Santa Cecilia nella speranza di lenire il peccato di fornicazione».
Questa volta Tonks scoppiò in una risata sguaiata. Il tempo sembrò fermarsi di colpo e indietreggiare fino all'anno prima, quando tutti insieme trascorrevano intere serate nel soggiorno di Grimmauld Place. Sirius si divertiva a lanciarsi in dettagliate cronistorie degli anni dei Malandrini, e in un paio di occasioni si era spinto talmente oltre che Remus lo aveva colpito in testa con un gigantesco libro di Antiche Rune. Bill raccontava barzellette sconce lontano dalle orecchie delle madre e Kingsley divertiva ognuno di loro con gli imbarazzanti resoconti dell'addestramento tutto ruzzolate e parolacce di Tonks... era il tempo in cui quella guerra da combattere non li aveva ancora piegati davvero. Quello in cui l'avevano sottovalutata per l'ennesima volta.
«Ma io e te non abbiamo fornicato» commentò con un sopracciglio alzato.
«La tua coscia è a dieci centimetri dal mio fianco: per mia zia Edna questo fa di me un filisteo e di te una meretrice» replicò con ironia Remus. «Potresti avere qualche speranza di fare colpo su mia zia Fiona, ma balbetta troppo perfino per conversare del tempo».
«Farei un brutta impressiona anche su tua madre?».
«Scherzi? Indossi scarponi da uomo e imprechi con originale trivialità...». Le rivolse un'occhiata di profondo affetto e sorrise. «Ti adorerebbe».
«Sembra una famiglia divertente».
«È l'ultimo aggettivo con cui mi sognerei di definirla».
Lei accennò un'altra risata. Il silenzio scivolò ancora fra di loro e si fece più teso e soffocante. Spezzare l'aria rancida della Stamberga con quel vago guizzo di allegria non era servito a niente. La pesantezza di ciò che era accaduto si insinuò prepotente fra di loro, e nessuno sembrò sapere cosa dire. C'era troppo da dire, dopotutto. C'era la morte di Silente da superare in fretta, o la guerra avrebbe superato in fretta loro; c'era il caos della battaglia, c'era il tradimento di Severus Piton che aleggiava come un'ombra sulle cenere di tutto ciò in cui avevano creduto; e c'erano loro, seduti l'uno accanto all'altra in una casa infestata dai fantasmi di una vita passata senza più parole nella gola.
Tonks posò la propria mano su quella di Remus e intrecciò le dita alle sue. Lui non reagì, ma abbassò lo sguardo per notare quanto fossero diverse. Le dita di Tonks sembravano sottili lingue pallide e la sua carnagione era chiara e delicata; quelle di Remus erano screpolate e ruvide al tocco.
«Dimmi qualcosa in gaelico» propose improvvisamente lei.
Remus arrangiò un mezzo sorriso imbarazzato e ci pensò su qualche secondo. Quando parlò, la sua voce era poco più alta di un sussurro.
«Tá brón orm».
«Cosa significa?».
«Perdonami».
Tonks lo scrutò a lungo con espressione impenetrabile. Si morse agitata il labbro inferiore, sospirò e appoggiò la testa nell'incavo della sua spalla. Remus la circondò con un braccio e iniziò a giocherellare assente con i suoi capelli. Fra le sue dita, le ciocche iniziarono a tingersi di un brillante rosa.
«Non ti si può odiare...» commentò sfinita la ragazza. «Dico sul serio, Remus. Uno ci prova fino in fondo, a odiarti e a prenderti a calci in culo, ma alla fine non funziona mai».
«Sono ancora convinto che non ne otterremo niente di buono» la ignorò con voce roca. «Sono ancora convinto che sia un errore, continuo a non poterti offrire nulla e probabilmente il Ministero cercherà di seppellire entrambi ad Azkaban, e senza Silente...». Si passò una mano sul viso e scosse il capo. «Quasi di certo la guerra è perduta».
«Perlomeno ti è rimasto un po' di ottimismo».
«Mi rimane il tuo». Le baciò lieve la fronte e rimase fermo, con gli occhi serrati e un'ombra disperata sul volto segnato. «Sei l'unica cosa che non ho ancora perso... l'unica cosa di cui ho bisogno».
«Vinceremo noi» mormorò con feroce decisione Tonks. «Non mi importa come e non mi importa quando... ma vinceremo. Ce la faremo. Andrà tutto bene».
Le credette.
Credette alla sua determinazione, credette al suo profumo, credette alla stretta sicura delle sua dita. Tonks conservava l'incredibile potere di afferrare per lo stomaco la gente e trascinarla in piedi. Era dirompente come una cascata, era semplice e limpida come l'alba che si stava affacciando alle finestre. Baciarla era come baciare la speranza, era come stringere la vita stessa senza timore che potesse sfuggire come sabbia fra le dita. Forse Remus non era mai stato davvero umano, forse non era inglese, forse non era irlandese; forse era sempre stato un mostro o forse non lo era mai stato e non se ne era mai accorto; forse non aveva mai creduto in Dio o forse si era solo accontentato di credere di poter credere... ma nulla ormai importava.
Era lì, era con lei, e il resto del mondo non poteva toccarli.
«Andrà tutto bene».
Le avrebbe creduto fino alla fine.


   
 
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