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Autore: Cassandra caligaria    21/03/2013    9 recensioni
Storia seconda classificata al contest 'Raindrops' indetto da __Hilary__ sul forum di EFP
Quante cose possono cambiare in un giorno? Basta un piccolo evento, una sequenza di geni finita nel genoma sbagliato, a distruggere una vita.
Leah Clearwater è convinta di essere l’assassina di suo padre e per questo odia sé stessa e la sua specie. Quella stessa specie che l’ha condannata a vivere un’esistenza infelice, che l’ha privata del suo essere donna e del suo amore.
Cos’è Leah? Chi è Leah?
Un mostro, uno scherzo genetico, un’assassina.
Si può vivere di solo dolore, in eterno?
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leah Clearweater
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
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Qualche precisazione iniziale
 

Questa storia si è classificata seconda al contest 'Raindrops' indetto da __Hilary__ sul forum di EFP.


È la prima volta che scrivo una storia triste, una storia angst. La scelta del personaggio è stata quasi naturale.

Leah, per me, è il personaggio più triste di tutta la saga (la Meyer è stata piuttosto sadica), è un personaggio disperato – nel senso che è senza speranza – e fortemente tragico. Ma è un personaggio che ha conquistato il mio affetto proprio per questo; Leah è l’unica a non avere un lieto fine, nella saga.
Nella “Guida ufficiale illustrata alla saga di Twilight” di Stephenie Meyer, edita da Fazi Editore, si dice, diversamente da quanto scritto in New Moon, che Harry Clearwater sia morto d’infarto a casa sua, in seguito alla trasformazione di Leah in licantropo. La mia storia prende le mosse da quell’evento.
Le citazioni tratte da libri o da canzoni, allineate a destra nel testo, hanno quasi una funzione ‘corale’, come in una tragedia greca.
Inoltre, è presente un continuo parallelismo con un’altra donna - realmente esistita -, una scrittrice, Virginia Woolf. C’è qualcosa che accomuna queste due donne: il male di vivere e... Beh, la smetto di scrivere e vi lascio alla lettura, sperando che il mio esperimento non sia stato un completo disastro! Fatemi sapere cosa ne pensate!











 

A freak, the girlie-wolf





 

There’s something wrong with me. I don’t have the ability to pass on the
gene, apparently, despite my stellar bloodlines. So I become a freak—the girlie-wolf—
good for nothing else. I’m a genetic dead end and we both know it.


“In me c'è qualcosa di sbagliato. Non ho le doti per poter trasmettere il gene, a quanto pare, nonostante la mia discendenza nobile. E sono diventata un mostro - la ragazza-lupo - che non serve a nient'altro. Sono un vicolo cieco genetico e lo sappiamo tutti e due.”

[Stephenie Meyer, Breaking dawn, traduzione di Luca Fusari]





Acqua, acqua ovunque.


Virginia Woolf si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse.


Era un pensiero martellante nella sua testa.

Ci vuole coraggio”, aveva pensato, quando la sua insegnante di letteratura aveva raccontato alla classe la triste fine della vita della scrittrice inglese. Era in terza superiore e quel giorno era marchiato a fuoco nella sua memoria, nonostante fossero trascorsi diversi anni.

 


Questo giorno ti darà la vita e ti distruggerà.

[Sofocle,Edipo re, v. 438]




Era un mercoledì di primavera. Leah si era svegliata sudata e agitata, più degli altri giorni.
Ormai erano tre mesi che andava avanti così. Sempre nervosa, agitata, scostante. Pensava fosse colpa di Sam ed Emily, se si sentiva così.
E qualche tempo dopo, avrebbe sperato che fosse soltanto colpa loro. Si sarebbe salvata, se avesse dato la colpa a loro, piuttosto che a sé stessa.
Era andata a scuola, aveva ascoltato annoiata tutte le lezioni dei suoi professori. La sua attenzione era stata catturata dalla triste storia della vita di Virginia Woolf. Fra uno sbadiglio e l’altro, quella frase le era entrata prepotentemente nelle orecchie.

“Virginia Woolf si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, poco lontano dalla casa in cui viveva.”

“Ci vuole coraggio.”

Tornando a casa, si era liberata della giacca e della felpa, aveva caldo.
Stranamente caldo.
Sua madre era intenta a preparare il pranzo, mentre suo fratello era incollato al televisore tutto preso da un nuovo gioco per consolle, ‘Grand Theft Auto’.
Non aveva fame e non aveva nessuna voglia di stare con loro. Sua madre negli ultimi tempi era diventata insopportabilmente curiosa e assillante; le domandava della scuola, delle amicizie e… di Sam.
«Leah, tesoro, puoi apparecchiare la tavola? Il pranzo è quasi pronto.» le aveva chiesto gentilmente. Troppo gentilmente; così tanto, da infastidirla.
«Perché non lo chiedi a tuo figlio? Io sono stanca e non ho fame»
«Cosa c’è, Leah?» aveva insistito. Nei suoi occhi si leggeva una grande preoccupazione.
Le dava fastidio tutto.
Non voleva tutte quelle attenzioni. Lei non se le meritava.
Non voleva far impietosire nessuno. Solo perché il suo ragazzo aveva preferito sua cugina a lei, provavano tutti pena e cercavano di trattarla con riguardo e gentilezza, come si fa con le persone meno fortunate.
Odiava la sufficienza e il falso buonismo che le riservavano.
Odiava la pietà che leggeva nei loro occhi; le frasi, intrise di compassione, sussurrate, quando credevano che le sue orecchie fossero lontane.
Sua madre si era avvicinata e le aveva scostato una ciocca di capelli dal viso, come faceva sempre quando era bambina.
«Non nascondere il tuo bel viso. Allora, mi vuoi dire cosa c’è? Perché sei sempre di pessimo umore?»
Leah aveva scostato la mano di sua madre con il dorso della sua, lasciandola a mezz’aria, e aveva iniziato a tremare.
«Non ho niente, lasciami in pace! E non mi toccare!» aveva urlato, serrando i denti.
Sue era rimasta paralizzata da tanta violenza. Sua figlia le aveva schiaffeggiato una mano.
«Cosa sta succedendo, Leah? Perché tratti tua madre così?» anche suo padre ora cercava di capire, anche lui voleva sapere. Ma cosa, poi? Cosa c’era da sapere? Non lo sapeva neanche lei.
«Oh, per favore! Lasciatemi stare in pace!» aveva ringhiato.
«No, signorina. Non ti lasciamo ‘stare in pace’. Adesso ti siedi con noi e ci spieghi cosa ti è successo. Perché non ne possiamo più di vederti sempre così scontrosa e giù di morale!» aveva urlato suo padre, afferrandole un braccio.
Mossa sbagliata.
«Oh, va’ al diavolo!» gli aveva sputato in faccia, velenosa e piena di rabbia, liberandosi in malo modo dalla presa di suo padre.
In quel momento, sentì un grande calore sprigionarsi dal petto e irradiarsi in tutto il corpo: temeva di esplodere per quanto era intenso. Osservò la mano con cui aveva scacciato quella di suo padre: era scossa da tremori.
Tutto intorno a lei tremava: i volti terrorizzati dei suoi genitori, i mobili del salotto, il divano che le stava accanto, il circuito di ‘Grand Theft Auto’ nello schermo della tv.
Una forza atavica si impossessò di lei, dei suoi pensieri, del controllo del suo corpo.


Si ritrovò a quattro zampe, ferma, a fissare la stanza in cui prima discuteva con i suoi genitori.
Al posto dell’adolescente astiosa, c’era un lupo.
Al posto della sua famiglia che tremava, c’era suo padre sdraiato sul pavimento, con gli occhi spalancati e il viso livido, e sua madre e suo fratello che urlavano e piangevano, inginocchiati accanto a lui.
Suo padre aveva avuto un infarto.
Per colpa sua.
«Va’ al diavolo!» era stata la sua estrema benedizione.
Forse, ci era andato davvero.
Per colpa sua.


Da quel giorno, nonostante i trentanove gradi di temperatura corporea, sentì freddo. Un freddo pungente che le lacerava l’anima e le annebbiava i pensieri. Un freddo che la costringeva a ripararsi dal calore altrui, per paura di scottarsi.
Non c’era calore per lei, né speranza.
Era sola.
Era un mostro.



 

Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
ma dove dov'è il tuo cuore, ma dove è finito il tuo cuore.

[Fabrizio De Andrè, Hotel Supramonte]





Aveva cercato di perdonarsi, di ascoltare le parole di sua madre, che ancora in lacrime per il defunto marito, cercava di consolarla, dicendole che non era stata colpa sua.
Ma, lei aveva sempre pensato, che lo stesse dicendo più a sé stessa che a lei, per autoconvincersi a non odiarla.
Per non odiare sua figlia che le aveva ucciso il marito.

Un mostro, una ragazza-lupo.


Sua madre era perfino riuscita a innamorarsi ancora, poco tempo dopo la morte di suo padre.
Ma la differenza tra loro due era netta: sua madre aveva perso quello che aveva, lei quello che era.
E anche quello che sarebbe stato.
Aveva perso quello che la rendeva biologicamente donna. Trasformandosi, il suo ciclo si era interrotto. La natura l’aveva privata della possibilità di avere dei figli. Era in menopausa, a vent’anni. Neanche sua madre era ancora in menopausa, ma lei sì.
Perché?
Cos’era? Chi era?
Quante volte se lo era domandato, invano, senza trovare risposta.
Era una donna?
No, lei era un mostro. Era la ragazza-lupo.
Una sorta di creatura mitologica, destinata a… cosa?
Soffrire, per giunta, in eterno?
Perché?
Perché era nata?
Perché si era trasformata, se neanche la sua specie riusciva a preservarla in qualche modo dalla sofferenza e dal dolore?
Quella specie che si era presa gioco di lei e l’aveva beffeggiata nel peggiore dei modi.
L’ imprinting.

Lei non sarebbe dovuta nascere.

I mostri non dovrebbero esistere. C’era sicuramente qualcosa che non andava in lei, qualche malformazione genetica, se era stata l’unica donna a trasformarsi in lupo.
Si era sempre sentita un essere a metà, anche prima della trasformazione. Non si era mai sentita completamente donna per via del seno poco sviluppato, delle spalle troppo larghe rispetto ai fianchi piuttosto stretti, del tono di voce aspro. Nascondeva la sua insicurezza dietro la grinta e l’arroganza. Ma a Sam piaceva così com’era, anche un po’ mascolina e acerba.
E poi, un bel giorno, l’imprinting le aveva portato via tutto, lasciando solo un condensato di rabbia e solitudine, avvolto in un manto grigio.
Ecco, cos’era diventata.
Una massa di peli rabbiosa.
Un mostro.




I giorni si susseguivano lenti e uguali, rossi o neri che fossero sul calendario. Per lei non c’era alcuna differenza. Ma odiava i rossi con particolare intensità.
I rossi erano giorni di festa, che le persone trascorrevano felici, con i propri cari. Lei non aveva niente da festeggiare; quelle giornate erano il supplizio peggiore da sopportare. Lampeggiavano sulla pagina bianca e parevano deridere la sua solitudine e ricordarle la sua condizione.
Rossi, come quel sangue, che ormai non perdeva più.
Rossi, come il sangue che ricopre il corpo di un neonato, appena uscito dal ventre della madre, e che lei non avrebbe mai potuto partorire.
Rossi, come gli spilli di rabbia che le pungevano l’anima e le annebbiavano la vista.



 


Moriva dal desiderio di salire in cielo attraverso il tetto e
di volare via verso un altro paese dove non avrebbe mai più
sentito parlare dei suoi guai, eppure una forza lo spingeva
dabbasso scalino per scalino.

[James Joyce, Gente di Dublino]




Avrebbe voluto fuggire via lontano, per non dover affrontare tutti i giorni i suoi demoni. Voleva solo non pensare e non vedere, spegnere per un attimo il vortice infernale che le martellava in testa, e aspettare la fine, una qualunque.
Era chiedere tanto?
Per una creatura mitologica, destinata all’eternità, sì.
Ai geni non si comanda.
La presenza dei vampiri nel suo territorio le imponeva di trasformarsi e quindi di restare per difendere gli umani. Era un istinto che non poteva controllare, una sorta di meccanismo fisiologico involontario, come il battito cardiaco o la peristalsi.
Per fortuna, qualche tempo dopo la nascita di Renesmee, i Cullen erano andati via, portando con loro Jacob e parte del suo branco. Lei aveva deciso di non seguirli, non ce l’avrebbe fatta a reggere tutta quell’armonia familiare e quel calore.
Aveva sperato, quasi, che smettendo di trasformarsi in lupo sarebbe ritornata normale, donna, ma così non era stato.

Si era iscritta all’università, più per allontanarsi dalla felicità dolorosa che si respirava in casa sua, dopo le seconde nozze di sua madre, che per reale voglia di studiare. Non tornava mai a casa, neanche per le vacanze. Non ce la faceva a sostenere gli sguardi di sua madre e di suo fratello, che soffrivano nel vederla sempre triste e scostante. Smise perfino di telefonargli, per evitare di sentirsi porre la domanda che le faceva più male:

“Come stai?”

Come avrebbe potuto rispondere a quella domanda?
Come stava, Leah?
Bene, solo perché respirava, mangiava, beveva e camminava?
Quanto dolore c’era nel sentirla, quella domanda, e nel tentare di dare una risposta?


Seguiva le lezioni da sola e appena terminavano, tornava nel suo dormitorio, a testa bassa, correndo quasi. Ogni volta che qualcuno si avvicinava a lei, uomo o donna che fosse, lei lo allontanava. Il muro di arroganza e rabbia, che si era costruita intorno, diventava sempre più forte, cementificato dall’odio e dalla disperazione.
Cercava di studiare, ma ogni volta vedeva solo una serie di caratteri neri, che si rincorrevano su uno sfondo bianco e prendevano le sembianze di lupo dal pelo grigio, che ululava sul cadavere di suo padre.

Mostro. Ragazza-lupo. Assassina.

Nonostante la sofferenza e il dolore che le si contorceva dentro, come un serpente che cattura la sua preda, era bella. Molti studenti di sesso maschile avevano cercato di avvicinarla, ma lei si era sempre dimostrata gelida e scostante.

Uno soltanto era riuscito a fare una piccola breccia, nella cinta muraria che la difendeva. Conrad.
Era bello e gentile. Faceva poche domande e tentava di starle accanto – sebbene non fosse semplice relazionarsi con lei – in silenzio e di amarla con discrezione.
Si era lasciata travolgere da quell’amore leggero e fresco, ritrovando un po’ di calore e di spensieratezza. Le piaceva farsi accarezzare dalle sue mani e dalle sue parole, erano gentili.
Quando faceva l’amore con lui, non pensava, non sentiva freddo. Si sentiva un po’ meno sola. Sebbene, ogni volta che il suo seme si riversava dentro di lei, le venisse da piangere. E quando restava sola, sotto la doccia, o quando lui tornava nel suo appartamento, tutta l’angoscia e il dolore di sempre le piombavano addosso come una doccia fredda. Piangeva in silenzio, per tutti i figli che non avrebbe avuto, per tutto quello che non sarebbe stato, per tutto quello che era stato.
Conrad l’amava, nonostante tutto. L’amava così com’era. Si era affezionato anche ai suoi silenzi e al suo sguardo cupo e lontano, alla sua superbia e alla sua arroganza.
Aveva intuito, che dietro quella coltre di rabbia, si nascondeva un’anima bisognosa di affetto e di perdono.
La loro relazione stava prendendo la via del non-ritorno e, quando Conrad aveva iniziato a coniugare i verbi al futuro, Leah si era di nuovo bloccata nella sua spirale di pensieri.


 

Tutti i mari del mondo le si rovesciarono intorno al cuore.
La stava attirando dentro di essi: l'avrebbe affogata.

[James Joyce,Gente di Dublino]




Come avrebbe potuto restare con lui, se non poteva dargli dei figli?
Come avrebbe potuto spiegargli che era una sorta di strana creatura mitologica?
Come avrebbe potuto stargli accanto per tutta la vita e vederlo invecchiare e morire?


« Hai freddo?» le aveva domandato, sentendola tremare.
« Strano, sei sempre così calda.» L’aveva avvolta nel suo abbraccio, per riscaldarla, e si era addormentato.
Leah sentì quel freddo, di nuovo.

Non poteva innamorarsi lei.
Non era degna di avere un lieto fine lei.
Era un mostro, l’assassina di suo padre, uno scherzo della natura: la ragazza-lupo.




 

Nell'ozio, nei sogni, la verità sommersa viene qualche volta a galla.

[Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé]




Virginia Woolf si era riempita le tasche di sassi e si era buttata nelle acque di un fiume, per mettere fine al suo male di vivere.


L’aveva sognata quella notte. L’aveva vista, mentre raccoglieva i sassi dalle acque del fiume e poi, preparata e adornata come una sposa, si era coricata nel letto d’acqua. La corrente l’aveva abbracciata e lei aveva sorriso, serena.

Woolf suona quasi come wolf, distano solo di una ‘o’ e non fa nemmeno una sillaba”, aveva pensato, destandosi all’improvviso e allontanandosi di soppiatto dal calore che emanava Conrad.


“Coraggio.”


Acqua, acqua ovunque.

“Tutto comincia nell’acqua e tutto finirà nell’acqua”, aveva pensato.

Acqua nella pancia di sua madre, quando era ancora un ammasso di cellule in fase di differenziazione.
Acqua nei suoi pochi e ormai lontani ricordi felici, sulla spiaggia di La Push.
Acqua nelle gocce di pioggia che cadevano dal cielo e picchiavano sulla bara, il giorno del funerale di suo padre.
Acqua di fronte a lei, nelle acque tormentate del fiume.
Acqua per terra, accanto a lei, nelle pozzanghere.
Acqua su di lei, nelle lacrime che le scorrevano sul viso.
C’era acqua anche nel suo cognome. Acqua chiara, l’ennesimo gioco del destino. Lei era una creatura oscura, un mostro. Non c’era niente di chiaro, in lei. Perfino la sua pelle era scura.



“Ci vuole coraggio, Leah.”

“Buttati, avanti.”



Acqua, acqua ovunque.
  
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