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Autore: shesafeandsound    22/03/2013    4 recensioni
"Continuai la mia corsa ed una volta che fui fuori dallo stabilimento mi precipitai in macchina. La schiavai, lanciai la borsa blu nel sedile del passeggero e trattenni un grido quando mi misi seduta e una volta lasciato passare il dolore, uscii dal parcheggio senza curarmi troppo delle macchine che avrebbero potuto venirmi contro. Non vedo molta differenza fra essere morta e condurre la vita che facevo io."
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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  Scesi di nuovo al piano inferiore e andai in cucina. scelsi fra tutte le mele, posate nel cestino di ferro disposto vicino al lavandino, quella più rossa che era in bilico fra cadere e rimanere su per fortuna. la addentai e scoprii che era succosa e buona al palato. inspirai la calma che in quella casa, o forse nella mia vita, mancava da troppo tempo quindi mi misi a sedere su uno dei 4 sgabelli: un braccio sul tavolo, con la mano destra tenevo la mela e le gambe sul piolo della sedia. tranquillità che forse non avevo mai conosciuto. allungai il braccio, presi il telecomando ed accesi la televisione, c'era un tizio che stava ridendo a crepapelle e dietro di lui altre persone che erano impegnate in qualcosa di, evidentemente, particolarmente esilarante. decisi di cambiare canale. 
 
telegiornale, no. pubblicità, oh ti prego non sopporto gli spot pubblicitari. televendita, per l'amor di dio, no. talk show, oddio non sopporto la conduttrice.

rinunciai all'idea di vedere qualche cosa in televisione e continuai a mangiare la mia mela silenziosamente. mi alzai e buttai il nocciolo e un pezzo che non mi andava più di fuori: sarebbe sicuramente passato qualche gatto nei dintorni e gli avrebbe fatto piacere trovare qualcosa da mangiare.
rimasi lì, vicino alla finestra, ad osservare il panorama. una mano, istintivamente, mi andò sulla pancia e solo in quel momento realizzai che lì c'era una creatura, cosa a cui non avevo mai dato veramente importanza, non ci avevo mai riflettuto: stavo portando in grembo una vita e dovevo proteggerla. mi circondai la pancia con le braccia e scrutai il giardino: c'era un forte sole, segno che, anche se i mesi passavano, l'estate non voleva lasciare il posto al freddo e alla caduta delle foglie. questo mi rendeva particolarmente felice perchè ho sempre odiato l'inverno e il freddo, e da piccola, quando cominciarono a spiegarmi il motivo per cui accade l'alternarsi delle stagioni, credevo anche di poter inclinare l'asse terrestre e di portare l'estate eterna. 

 
  Mi incamminai verso il soggiorno, lo superai ed aprii la porta di casa, era caldo ed io non volevo perdermi una giornata così quindi corsi su per le scale, indossai un paio di zeppe abbastanza basse, mi truccai un po', giusto per darmi un aspetto sano, e poi mi affrettai ad andare alla porta, presi la borsa ed il cappotto, controllai che ci fosse tutto ed uscii. chiusi la porta a chiave e mi avviai fuori. la via di casa mia era semi deserta ma il sole batteva caldo sull'asfalto. svoltai l'angolo a destra e mi ritrovai davanti ad un bar in cui ero solita andare qualche anno fa, prima di entrare a scuola, con tutte le mie compagne di classe.
il muro era sempre rimasto di un azzuro tenue che donava allegria e calma al resto del paesaggio, in alto vi era attaccata un'insegna nera e gialla, scritto in bella calligrafia il nome del bar: "cafè california". fuori c'erano delle sedie e dei tavoli in ferro nero e da una vetrata rettangolare, che mostrava l'interno e che correva lungo tutto un buon pezzo di parete, potevi scorgere le vite di alcuni passanti entrati lì per caso o solo per prendersi una pausa dalla frenetica quotidianità.
decisi di entrare e, una volta varcata la soglia, mi sembrò di tornare in un altro secolo, forse per i ricordi che quel posto emanava, che sembravano così lontani dal presente, o forse perchè era tutto estremamente romantico e vintage che potevi sentirti immediatamente una qualche lady di qualche secolo neanche troppo lontano da noi. mi avvicinai al bancone di legno ed ordinai un cappuccino, il cameriere mi sorrise ed andò a prepararlo, intanto pagai in cassa. quando il mio ordine fu pronto mi fecero un segno ed io presi la tazzina, ringraziando, e mi sedetti fuori, in uno di quei graziosi tavolini.
 
 
"abbassa quel mignolo!" mi disse mia mamma con severità ma quel costante luccichio in quegli occhi verdi che faceva sembrare tutto più dolce, non cessava di esistere.
 
"ma perchè? è così che fanno le vere signore!" replicai imitando la voce di una donna anziana che avevo visto in qualche pubblicità. continuai a tenere la tazza di tè con il dito alzato perchè era così che avevo letto si doveva fare per sembrare una donna raffinata e très chic.
 
"no, tesoro, questo sono le solite stupidaggini che raccontano e a cui tu credi" e con l'indice, abbassò il mio mignolo, sorridendo. 
 
"e allora cosa devo fare per essere bella come te?" chiesi con tanta innocenza e molta curiosità.
 
"niente devi essere solo te stessa, essere educata e gentile con gli altri e vedrai che diventerai più bella, molto più bella di me" 
"più bella di te?" domandai stupita.
 
"certo!" mi osservò e sorrise, mi accarezzò il viso, spostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio per poi incitarmi a bere il mio tè.
 
 
posai la borsa sulla sedia accanto e mi tolsi il cappotto: il sole splendeva, faceva molto caldo e sarebbe stato impossibile rimanere coperti senza sudare. versai lo zucchero nel cappuccino e girai con il cucchiaino lentamente, osservando tutto quello che mi circondava. portai la tazzina alla bocca e ne bevvi a piccoli sorsi. 
nella mia mente la domanda persisteva e batteva come un martello: "dove sarà mio padre?". non riuscivo a darmi una spiegazione, non riuscivo ad immaginarmi un posto dove lui si potesse nascondere: fino ad allora quella che si nascondeva ero io, lui rimaneva a casa ad aspettarmi adirato per poi condividere con me la sua ira, peccato che in tutto questo ero io quella che saliva in camera con le lacrime agli occhi e i lividi su tutto il corpo. 
mi pulii la bocca con il fazzoletto posto sul piattino e poi mi alzai, presi la borsa e ne tirai fuori gli occhiali da sole. tenendo il cappotto sulle braccia, riportai dentro la tazzina e ringraziai. 
 
  Le strade erano, come sempre, confusionarie e piene di vita; non c'era nemmeno un centimetro vuoto. persone che uscivano dai negozi con tante buste quanti erano i soldi che avevano speso, bambini che si rincorrevano, nonne che tenevano la mano al loro marito custodendo il segreto del vero amore e cani che abbaiavano ad altri loro simili. realizzai che tutto quel macello, quando nella mia vita c'era un barlume di pace, era la cosa migliore a cui io avessi mai preso parte.
mentre cercavo di scivolare in mezzo a quella folla, qualcuno mi urtò una spalla.

 
"oh scusami" mi disse velocemente un ragazzo, talmente veloce che non feci in tempo a rispondere, nè tanto meno a memorizzare tutti i suoi tratti. mi girai per dirgli che non si doveva preoccupare, che non c'era nessun problema ma se ne era già andato via, perso fra le altre sagome che svanivano a loro volta in quel caos. continuai allora a camminare finchè non mi voltai di nuovo, lo cercai fra la gente ma non c'era. rimasi ferma con le persone mi camminavano vicino e rimurginai nei miei pensieri decidendo così di tornare indietro e di ritrovarlo, non so bene il motivo però lo feci. non avevo nessun posto dove andare e se questo avrebbe reso la giornata un po' più insolita non mi sarei di certo tirata indietro.
accellerai il passo ed intanto catturai nella mia mente quell'istante, l'unica cosa che ricordavo erano due labbra carnose che scandivano quelle rapide parole di discolpa e una maglietta bianca che scomparve in un secondo. non sapevo perchè ma lo conoscevo, non so, era scattato qualcosa in quei pochi secondi ed ora non volevo perdere quella sensazione. 

  Vidi una persona alta con una maglia bianca, era lui. ne ero sicura. corsi verso di lui e quando fui abbasta vicina ritornai al mio passo normale facendo finta di essere stata lì da sempre. ci fermammo ad un semaforo rosso ed io presi in mano il telefono fingendo di mandare un messaggio ed intanto, da sotto le lenti oscurate studiai attentamente quel ragazzo: non so bene se mi si gelò il sangue o se le farfalle ritornarono nel mio stomaco ma, era lui, lì davanti a me.
 
"April? ma sei te?" esclamò guardando verso la mia direzione.
 
feci finta di nulla, alzai la testa e poi feci trapelare tutto il mio stupore. rimasi a bocca aperta e lui sorrise, mi venne ad abbracciare e rise. ci stringemmo forte, come eravamo soliti fare. le ferite bruciavano ma non mi importava, io continuai a stringerlo fra le mie braccia e lui non mi lasciò andare. 
 
"sei tornato?" chiesi ingoiando le lacrime che stavano salendo. 
 
"sì" e mi strinse di nuovo. crollai in un pianto e mi lasciai andare come solo fra le sue braccia sapevo fare.

  Il semaforo divenne verde ma noi rimanemmo lì uniti in un abbraccio.
  
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