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Autore: grenade_    23/03/2013    3 recensioni

«Cosa farai con Chuck?»
«Chuck Bass è un brutto capitolo della mia vita, che ho deciso di sigillare per sempre. Il Connecticut è un ottimo posto per ricominciare, non trovi?»
«O per scappare.»
«Blair Waldorf non scappa, mio caro Nate. Blair Waldorf si rinnova in ogni parte.»
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blair Waldorf, Chuck Bass, Nate Archibald, Serena Van Der Woodsen | Coppie: Blair Waldorf/Chuck Bass
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Terza stagione
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Eleanor Waldorf era la donna più iperattiva che conoscessi. Sin da piccola, avevo sempre pensato che il cognome Waldorf fosse sinonimo di successo. Mio nonno possedeva innumerevoli catene di alberghi, aveva diverse abitazioni sparse più o meno in tutta Europa, era coinvolto in così tanti viaggi di lavoro che ne avevo perso anche il conto, di conseguenza riuscivo a vederlo solo durante i pranzi o le cene festivi, prima che ripartisse con il suo jet per qualche altra meta a noi famiglia sconosciuta. Inutile dire che quell’uomo fosse il mio idolo, adoravo farmi prendere in braccio e farmi raccontare le sue avventure, era il mio evento preferito all’anno. 
Mia madre aveva ereditato tutto da lui. Era una donna ambiziosa, astuta, un po’ infida, ma comunque determinata. Il suo ruolo di rappresentante di istituto al liceo si era conservato per tutti gli anni in cui aveva frequentato, e aveva cominciato a disegnare modelli all’età di tredici anni. A diciotto anni aveva aperto la sua prima azienda, aveva lavorato tantissimo ed ora era il capo di tre delle più famose aziende di modelle di tutta l’America. Lei era il mio secondo idolo. Desideravo ardentemente diventare una donna della sua eleganza e della sua fama, mi ero posta questo obbiettivo all’età di dodici anni, e intendevo portarlo a termine. 
Chi ero io? Blair Waldorf. Ragazza troppo ambiziosa che sarebbe in grado di vendere le sue Tiffany per convincere qualcuno ad eseguire i suoi ordini, direbbero i giornali scandalistici, donna destinata alla fama internazionale, dico io. Ero diventata la reginetta indiscussa della Constance non appena le mie decolté vi avevano fatto ingresso, e questo era semplicemente un dato di fatto. Tutti mi guardavano con la giusta ammirazione e rispetto che meritavo, e potevo considerarmi la leader di quella scuola. Non tutti mi seguivano, chi lo faceva lo faceva per approfittare della mia fama, ma a me andava bene così. Chiunque mi avrebbe messo i bastoni tra le ruote, l’avrebbe pagata cara. 
E Blair Cornelia Paige Waldorf  mantiene sempre le sue promesse. 
Ma i tempi delle superiori erano finiti. Sapevo sarei stata ammessa a Yale, era semplicemente scritto nel mio destino, e non vedevo l’ora di evadere dalla chiassosa e colma di pettegolezzi città di Manhattan. Avevo passato un’intera adolescenza a pianificare come sarebbe stata la mia vita nel Connecticut: università che avevo sempre sognato, ragazzi, shopping e isolamento da Gossip Girl. Quello era il lato migliore della faccenda. 
«Blair, tesoro, hai preso tutto?»
Sbuffai per l’ennesima volta, chiedendomi quando mia madre avrebbe smesso di essere così oppressiva. Programmavo quella partenza da cinque anni, era chiaro avessi preso tutto. Nonostante tutto le sorrisi, raggiungendola. 
«Mamma, sta’ tranquilla. E’ tutto in perfetto ordine Waldorf.» la rassicurai, mentre massaggiavo piano le sue spalle con i polpastrelli. «Potresti approfittare di questa mia assenza per concederti un po’ di relax, che ne pensi?»
Mi guardò indispettita, poi scosse la testa. «Il relax è qualcosa di assolutamente astratto qui a Manhattan, piccola mia.» mi ricordò, sorridendomi e racchiudendo la mia guancia tra pollice e indice. 
Roteai gli occhi al soffitto. «E’ appunto per questo che me ne vado!» esclamai, gettandomi sull’enorme letto a due piazze della mia stanza, con un sorriso ad incorniciarmi le labbra. Ero più che felice di partire, avrebbe significato una vita nuova e completamente differente per la sottoscritta, ma dovevo ammettere che mia madre mi sarebbe mancata. Lei e il suo continuo stress interiore. 
«Allora parte, signorina Blair.»
Una voce mi sorprese, ma sorrisi quando ne captai il proprietario. Dorotha era la nostra domestica, ma per me ricopriva più il ruolo di madre. Teoricamente era Eleanor la mia madre naturale, praticamente era stata Dorotha a rimboccarmi le coperte e raccontarmi le favole da piccola, trattandomi come una figlia, quando mia madre era intrisa di lavoro. Le dovevo praticamente ogni cosa, e mi sarebbe mancata anche lei. 
La raggiunsi, racchiudendo leggermente le mie esili braccia attorno al suo corpo, molto più sproporzionato rispetto al mio. «Mi mancherai, Dorotha.» le confessai. Finsi di ignorare le lacrime che avevano cominciato a solcarle le guance,  e posi la mia attenzione su un punto un po’ più basso del petto. «Sarai una madre meravigliosa.» mormorai, sorridendo alla vista del suo pancione. Mai avrei pensato che Dorotha avrebbe avuto una figlia, eppure ora ne ero felice, la consideravo come una piccolina sorellina di cui mi sarei presa cura, ahimé, solo qualche mese all’anno.  Ma ero contenta che lei fosse così piena di gioia e speranza, se lo meritava. 
Dorotha mi strinse un po’ più forte del dovuto rischiando di farmi soffocare, e ridacchiai per l’ennesimo suo scatto di affetto esagerato. «Faccia buon viaggio, signorina Blair. E mi chiami, mi chiami se mai dovrà avere bisogno del mio aiuto, io sarò a sua completa disposizione. Stia lontana dalle dispute, e dai ragazzi, stia molto lontana dai ragazzi signorina, portano solo guai.» 
Le sorrisi e le donai un bacio sulla guancia. «Lo farò.» 
Prima che Dorotha potesse stritolarmi nell’ennesimo abbraccio da futura madre iperprotettiva la testa di mia madre sbucò dalla porta, e non si risparmiò un certo sorriso. «Blair, ci sono i tuoi amici.»
Arcuai le sopracciglia chiedendomi chi fosse venuto a farmi visita, ma quando incontrai una chioma di capelli biondi ne fui felice. Andai incontro a Serena con un enorme sorriso, e lei mi racchiuse tra le sue braccia. Io e la mia migliore avevamo uno splendido rapporto: non importava quanto perfide potessimo essere l’una con l’altra, rimanevamo unite in ogni occasione. Capitava spesso che rovinassimo a vicenda l’una la reputazione dell’altra, eppure eravamo ancora insieme da tantissimi anni. Segno di quanto l’amicizia possa essere il legame sovrastante, nonostante le avversità. Sapevo mi sarebbe mancata, ma un po’ di distacco da lei non mi avrebbe fatto male.
«Mi mancherai, B.» sussurrò, la testa nell’incavo del mio collo. Alzò lo sguardo, e notai i suoi occhi leggermente lucidi. Si fece improvvisamente seria, ed io lo sapevo: quando Serena Van Der Woodsen è seria, allora ciò che vuole dirti è davvero importante. Sospirò. «Voglio che tu ti diverta. Non pensare più a nulla, né a Manhattan, né a me, né alla Constance, a nulla. Libera la mente, te lo meriti.»
Le sorrisi grata del suo consiglio (che avrei certamente seguito) e la abbracciai, prima di notare qualcos’altro sull’uscio della porta. Feci una smorfia, avrei riconosciuto quel falso sorrisetto ovunque. 
«Ma guarda chi abbiamo qui, l’insipido Nate Archibald.» commentai. 
Nate Archibald era uno degli scapoli più ambiti di tutta Manhattan, suo padre era coinvolto in diverse azioni a che fare con la polizia, i suoi parenti erano tutti quanti uomini o donne illustri, e lui non faceva eccezione. Si diceva che rapisse con lo sguardo, ed io potevo averne una prova vivente: era il fidanzato di Serena.
Sorrise con quella sua solita smorfia rivolta verso il basso, prima di avvicinarsi a noi e stringere per un fianco la sua dolce metà, provocandomi un conato di vomito che cercai di trattenere. «Sono in pace, Waldorf. Andiamo, potresti abbassare la tua ascia da guerra.»
«Un guerriero non abbassa mai la sua arma, Nathaniel.»
«Ma potrebbe essere colpito alle spalle, se troppo accecato dal potere.»
Mi voltai incontrando i suoi strafottenti occhi azzurri e vi lessi un ghigno, che imitai. «Solo se è un perdente. E sappiamo benissimo tutti e tre che io non lo sono.»
Nate sorrise, quasi si aspettasse quella risposta da parte mia, prima di lanciarmi una di quelle domande bomba a cui non sai mai come rispondere. 
«Cosa farai con Chuck?»
Sospirai e chiusi gli occhi per un momento, metabolizzando la sua domanda nella mia testa e cercando una risposta sufficientemente eloquente. Ma non ne trovavo. Per quanto mi sforzassi, Chuck Bass rimaneva un totale mistero per la sottoscritta.
«Chuck Bass è un brutto capitolo della mia vita, che ho deciso di sigillare per sempre. Il Connecticut è un ottimo posto per ricominciare, non trovi?»
«O per scappare.»
Mi voltai con un’espressione allibita in volto, merito dello spessore della sua replica. Ma non mi sarei mai lasciata scappare il piacere di rispondergli per le rime, non mi trattenevo mai dal farlo. 
«Blair Waldorf non scappa, mio caro Nate. Blair Waldorf si rinnova in ogni parte.»
Mi rivolse ancora quel sorriso strafottente, mentre Serena ci osservava quasi fossimo uno spettacolo esilarante o stessimo conducendo una partita di tennis, fin quando si avvicinò per porgermi la mano. 
«Attendo con ansia il giorno della tua disdetta.»
Strinsi la sua mano. «Quel giorno non arriverà mai, Archibald.» ribattei. «Ora scusami, ho un aereo da prendere. E uno stato da conquistare.»
Ordinai a Dorotha di raccattare le mie valigie, e fu scattante al suo solito. Quando se ne fu andata, mi prolungai qualche attimo per salutare i miei amici. Serena mi strinse ancora a sé.
«Buona fortuna, B.»
«Sai che non ne ho bisogno, S.»
 
Odiavo aspettare. Avevo categoricamente esibito una faccia schifata quando l’insignificante hostess mi aveva condotto verso il gate della classe turistica, ribadendole che una come me non poteva assolutamente mischiarsi con tutta quella plebaglia. Avevo costretto mia madre e Dorotha a rimanere in casa onde evitare addii strazianti e dolorosi (e imbarazzanti) e lacrime, e adesso aspettavo che la voce sghignazzante all’autoparlante annunciasse la partenza del mio volo. 
Ero eccitata. Sognavo quel momento da una vita intera, ed ora allontanarmi finalmente dalla metropoli mi sembrava un incantevole paradiso, sapevo mi sarei abituata presto alla mancanza di pettegolezzi, nonostante avessi il sospetto che Gossip Girl non mi avrebbe dimenticata neppure se mi fossi cacciata in Alaska. 
Sbuffai. 
Strizzai gli occhi quando notai una figura in lontananza, con all’apparenza delle rose rosse nella mano destra. 
Ero paralizzata, ma quando mi si parò davanti non potei far finta di non riconoscerlo come avevo pensato di fare da dieci secondi a quella parte. 
Charles Bartholomew Bass, il mio più grande dilemma esistenziale.
Indossava il solito smoking, la cravatta rosa pallido e i capelli portati accuratamente all’indietro, gli occhi vispi, ma pieni di un sentimento che avevo il timore di classificare come rammarico. 
Mi ero ripromessa di cancellare dalla mia memoria qualunque cosa riguardante lui. Volevo dimenticare, andare avanti, poter avere la possibilità di parlare tranquillamente di lui un giorno, senza che il ricordo di tutto il male che mi aveva fatto riaffiorasse in me ogni volta. Odiavo che potesse indurmi in uno stato di malinconia, era qualcosa che semplicemente non riuscivo a concepire. 
«Cosa ci fai qui?» sibilai, gli occhi attaccati ai suoi.
Aveva il respiro affannoso, forse aveva corso, ma mi imposi di non pensare a quanto quel gesto potesse essere fatalmente romantico, e mantenni la mia aria da dura.
In quel momento la voce gracchiante all’autoparlante annunciò che il mio aereo sarebbe decollato esattamente tra dieci minuti. Tempismo perfetto, pensai, non volevo trascorrere un solo momento in più in sua compagnia. Ma quando feci per voltarmi Chuck mi afferrò per un polso, guadagnandosi la mia occhiataccia abituale.
«Non puoi andartene, senza prima ascoltarmi.»
«Ho un aereo, Chuck.»
«Quelli della prima classe aspettano.»
Sospirai, sapevo aveva ragione. Ma non sopportavo quel contatto, né fisico né visivo, odiavo doverlo affrontare faccia a faccia e per il più delle volte abbassavo lo sguardo, consapevole di essere incapace di resistere ai suoi occhi, ma questa volta non volevo uscirne vinta. Sarei stata io la vincitrice. 
«Dimmi cosa vuoi.» gli concessi.
«Non partire.»
«Sai che non posso non farlo.»
«Sei Blair Waldorf, nulla è impossibile per te.»
Quel piccolo sorriso apparso sulle sue labbra scatenò in me una differente ma forte sensazione, ma la mia espressione non era la stessa. Ero ancora afflitta dal dolore che mi aveva provocato durante gli anni senza mai curarsene davvero, e questo lui lo sapeva bene.
«Dove sei stato in questi tre mesi?»
Ricordavo perfettamente l’ansia. Il non sapere dove fosse, la paura a sfogliare un giornale scandalistico o di cronaca intimorita dal vedere il suo viso in prima pagina. Le telefonate vuote, inutili, vane. Senza dubbio, i peggiori tre mesi della mia vita. O la mia peggiore vita, da quando Chuck Bass era entrato a farne parte. Il Connecticut era il mio luogo per ricominciare. 
«Affari della famiglia Bass, non ho mai voluto lasciarti.»
Feci una smorfia. «Questa sarebbe una banale scusa?»
Scosse la testa, affranto. «No Blair, è la verità.»
Diverse opzioni mi si presentavano davanti. Potevo voltarmi senza degnarlo di uno sguardo, ignorare le sue pretese e continuare dritta per la mia strada, sbattergli le mie costosissime valigie in testa. O credergli. 
I suoi occhi sembravano sinceri, ma avevo sofferto troppo per ricadere ancora una volta in quella infida trappola. Ormai mi conosceva troppo bene, ed io odiavo questo punto. 
«Dammi una sola ragione per farlo.» 
Volevo dargli un’ultima possibilità. Ne aveva il diritto, infondo mi era venuto incontro in aeroporto con un mazzo di rose rosse. Comportamento abbastanza inusuale per Bass.
Sospirò, poi puntò gli occhi nei miei. Sentii un chiaro brivido all’altezza della schiena, ma lo ignorai.
«Ti amo. E’ sufficiente?»
La vita è strana. E’ sorprendente quanto le persone possano cambiare idea ripetutamente da un momento all’altro, a condizione degli eventi che si verificano in quel piccolo arco di tempo. Non è detto che ci vogliano settimane, mesi o addirittura anni per scombussolare un equilibrio, a volte gli attimi sono più che sufficiente. A quel punto spetta solo a te decidere cosa fare: salirai su quell’aereo, o resterai qui a crogiolarti nel dubbio? Oppure puoi sfruttare ogni istante. Ciascuno e illimitatamente, come se fosse il tuo ultimo respiro. L’ultimo battito, l’ultima parola. 
Ciò che odiavo più di Chuck Bass? Il suo infallibile metodo di mandare a monte i miei piani.
 
 
 
 
Ciao! :) 
Questa è la prima storia che pubblico su EFP, vi pregherei perciò di essere clementi con me, e a chiunque dovesse piacere, lasci una piccola recensione per farmelo sapere! 
Xoxo xx 
  
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