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Autore: Kim NaNa    24/03/2013    5 recensioni
Perché “porgere la mano”? Io porgerei il fianco, come fai tu; l’altruismo parte da qui, dal camminare con lo stesso passo, allineati al fianco. Unico movimento, fluido, senza pretese.
Noi non camminavamo, stavamo seduti allineati su un fianco.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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All’ombra di te.

Eri una bambina tutta sorrisi e gelato. Allegra e forte e matura, forse un po’ strana. Timida quasi.
Quanti mondi hai sognato in quella camera, quanti libri ti hanno vista crescere. Le fiabe dei 5 anni riproposte ai 12 per averne nostalgia adesso. La stella nel paralume che scaccia via la febbre del tuo fratellino. La stella rannicchiata per dar calore. Eri innamorata di quell’immagine lì.
È a te che parlo.
Quella ragazzetta che a scuola amava i compagni, tutti.
È a te che parlo.
Quella che prende la penna in mano e va lontano.
Quella che prende il libro e sparisce.
Ma dove mai andrai, poi?
Vieni più vicina.
Avere vent’anni e una strana sofferenza assopita nel cuore. Il Segreto detto.
Hai vent’anni e preferisci nasconderti. Spreco di vita, si direbbe.
Spreco di vita, lo dico. Perché ti amo. Di un amore che non conosci. Perché sta nella totalità dell’accettarti.
Le riconosco le legnate. Le cinte sulla schiena.
Una vita che pretende la postura dritta mentre sega le gambe. E il fiato.
Ma tu non scivolare.
Non cadere.
Per il tuo poco respiro, c’è qui il mio.
Quali sono le tue colpe? Quali sono le colpe che ti stringono lo stomaco e lasci il piatto a metà?
Quali quelle che trasformano le notti in giorno e il giorno in ombra?
Perché i tuoi occhi si ammutoliscono di colpo?
Parla a me, amore mio, di quegli anni frantumati in morsi, dei desideri lasciati tacere...
Parlami del corpo che sminuzzi col dolore.
Perché le tue mani chiuse in pugno?
Ci sono le mie a scaldarti.
E non schivare il mio sguardo. Animale ferito. Dignitoso ma ferito.
Non c’è pudore che tenga il dolore. Non con me.
C’è il sole oggi. E domani. E tra una settimana. Nelle nuvole, glielo dipingeremo.
Non lasciarmi.
Resta qui, che senso ha il balcone adesso? Lo sporti pericoloso. L’assenza mentre guardi il mare da uno scoglio. È alto, bisbigli sempre.
Ragazza mia, reagisci.
Lotti con l’aria. È un dolore che sfochi e semini in tutto quel che vedi.
Occhiali, servono occhiali. Miopia da dolore si chiama, sai? Si guarisce!
Ne usciremo, non aver paura.
Dimmelo ancora il tuo nome, forte, fammi sentire che ci sei, che non ti sto perdendo piano.
Che posso ancora portarti alla luce di un sorriso.
Hai braccia sottili e graffiate, amore mio, c’è buio. Troppo.
Apri gli occhi, stesa sul prato, aprili. Ci sono nuvole lassù. Aprili. Verde giù e verde nei tuoi occhi. Aprili.
Raggomitolata ai piedi di un gelso, ti ho ritrovata piccola a mugugnare pensieri grandi.
La sua chioma ti avvolgeva e ti scaldava di frutti succosi, scivolavano lungo il tronco come orecchie appena ingioiellate, regali, ma i tuoi occhi si tuffavano nell’anima e non ti curavi di alberi simil-dame.
I capelli schiacciati in fronte rimandavano tutto il peso dei dispiaceri a premerti il cuore. Vedevo il tuo respiro rimbalzare sul petto, come un grillo impazzito ma silenzioso, ostinatamente e inadeguatamente, per natura, silenzioso. Ho capito che è il tuo miglior riparo quando il dolore ti morde, ti avvolgi in esso e scivoli via. Porti fierezza e gambe dritte anche davanti il peggior colpo, nell’uragano che ti assale, ti porti in mezzo ed in silenzio aspetti un buon respiro d’anima.
Ma a quel tempo non lo sapevo.
Del tuo mutismo incolpavo il mio non essere “abbastanza”.
Del tuo dolore, il mio non saperti star vicino.
Poi ho capito quanto poco importa il parlarsi in superficie se già le anime, nostre, si capiscono e abbracciano.
Eri sparita da giorni…
Ma non avevi freddo in tutto quel tempo passato col gelso?
Ma non avevi freddo senza te?
Cammino sempre con una coperta di lana in macchina, lavorata a maglie grosse, scure e calde, perché il bisogno di sentirsi al sicuro prende in qualsiasi momento. Non sai quante volte mi sono fermato nei posti più assurdi, nelle soste dell’autostrada, in campi incolti, in parcheggi persi, per il bisogno di un riparo. Spegnere la macchina, col cuore costretto in gola, nella necessità di un riparo. Prendere poi la coperta e sedermi dietro ridiventando guscio. Mi sentivo piccolo, protetto, come tra le braccia di un amore familiare, come se quel pezzo di lana potesse sconfiggere i mostri.
Il mondo fuori dal finestrino, io a rinascere dentro.
La coperta balzò fuori anche quel giorno.
Presi la strada laterale, ti sorpresi non da dietro, per paura di sentirti in apnea, né di faccia, non avrei sopportato il tuo evitar lo sguardo. Ti sorpresi il fianco… la parte più funzionale del nostro corpo. Di fianco per abituarsi al sonno, alla temperatura dell’acqua, il fianco per abituarsi alle persone. Per prepararsi all’incombenza di un evento. Perché “porgere la mano”? Io porgerei il fianco, come fai tu; l’altruismo parte da qui, dal camminare con lo stesso passo, allineati al fianco. Unico movimento, fluido, senza pretese.
Noi non camminavamo, stavamo seduti allineati su un fianco.
La coperta fece un gran vento nel tentativo di aggrapparsi alle nostre spalle. Cercai di stringerti così, tra terra e gelsi, sotto la pioggia lenta di maggio a confondere dolori e sapori.
«Perché?»
«Non ci sono risposte valide, né parole che riparino come questa lana. »
Non lo so perché…
Sei stata qui per tutto il tempo?
Mi attaccavo alla praticità delle tue giornate su cui tu riuscivi a dire senza tradirti troppo nella voce.
«Conto di tornare già domani.»
«Non hai nulla da rimproverarti. Non si è mai pronti.»
«Già…»
Le mie mani sulla tua schiena circumnavigavano pensieri in burrasca, ma sulla tua pelle cercavo di calmarli.
«Sei la mia ragazza tosta, tosta.»
Non eri sicura.
«Passerà..l’amaro in bocca, il vuoto, il dolore..ma tu, nella dolcezza dei ricordi, non passerai mai.» Mi dicevo questo mentre ti osservavo, mentre ti amavo nel silenzio delle lacrime che non vedevo scendere dai tuoi occhi. Cosa potevo dire alla donna che amavo sulla morte di suo padre? Cosa potevo dire alla donna che amavo che tanto male si era procurata solo per non essersi amata? Le parole sono superflue in momenti simili. Il dolore ti esplode in ogni dove. In testa, nel cuore, nell’anima. Non ci sono parole che si vogliano ascoltare. Ci sono solo infiniti Perché e nessuna risposta.
«La ricordi questa?» ti porsi una vecchia lettera, il foglio di carta ingiallito dal tempo, un ramo di ciliegio dai colori sbiaditi mostrava un’iniziale scritta in blu, una calligrafia morbida e pulita, la macchia di quelle che sembravano lacrime, il nero di un mascara, il rosa di un rossetto.
«Appartiene a te. O forse, sarebbe meglio dire, appartiene a noi. I noi si costruiscono un po’ alla volta. Prima io, poi tu, forse un lui, o un’altra lei… ma se è destino, diventeremo NOI. E io e te siamo diventati noi, lo siamo sempre stati. Puoi salvarti se vuoi. Io non ti lascio annegare in quella tua vasca di dolore.»
L'apristi con estrema cura, con solennità, attenta ad ogni piega del foglio. L’annusasti, la portasti al petto, la stringesti forte a te e solo dopo ne leggesti il contenuto.
 
L'uno aveva negli occhi i dolori dell'altro, si erano impossessati, senza permesso, senza alcune parole. Si appartenevano, ardevano d'amore.
Lei si aggrappava a lui, alle sue braccia, alla sua bocca, alla sua anima e lui, lui si aggrappava alla vita di lei. Erano un'ancora alla quale si avvinghiavano per salvarsi, per vivere. Insieme.
 
   
 
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