Il
Labirinto
Era
una bella ragazza.
Gellert
lo pensava mentre osservava la giovane sorella del
suo nuovo amico strappare ciuffi d’erba nel piccolo giardino
dietro la casa dei
Silente, ignara che quelli che stava cogliendo non fossero soltanto
fiori;
forse invece ne era conscia, ma non voleva fare distinzioni. Non lei.
A
soli quattordici anni Ariana era bellissima, con i lunghi
capelli biondi che le ricadevano sulle spalle e gli occhi chiari che
vedevano
oltre, lontano dal mondo; tuttavia era il suo sorriso a far tremare le
gambe di
Gellert, a fargli aumentare la salivazione e a spingerlo a sudare
più di quello
che il pomeriggio estivo richiedeva.
-
Ecco a te.
La
voce di Albus lo riportò a ciò che stava
accadendo nella
stanza, mentre fuori, sotto il sole che tramontava, il fratello
stupido faceva cenno ad Ariana di rientrare. Senza
staccare la schiena dalla parete, Gellert afferrò la scura
tazza di tè che il
maggiore dei Silente – ormai il capofamiglia – gli
stava porgendo.
-
Grazie -. Si ricordò di sorridergli gentilmente, di
rivolgergli lo sguardo che aveva scoperto destabilizzare quel ragazzo
sicuro di
sé che era Albus Silente.
Era
solo un mese che si conoscevano, ma Gellert lo aveva
subito inquadrato: intelligente, ambizioso, in attesa di qualcosa che
cambiasse
la monotona estate che gli si sarebbe altrimenti prospettata davanti.
Albus era
la persona giusta per raggiungere lo scopo che Gellert si era
prefissato e non
gli interessava quante carte false avrebbe dovuto fare per averlo nella
missione. Quel giovane diciottenne dai capelli rossi si era forse preso
una
cotta per lui? Bene, Gellert non avrebbe cercato di dissuaderlo dai
suoi
sentimenti, non lo avrebbe scacciato, bensì avrebbe sorriso
ammiccante tutte le
volte che Albus lo avesse guardato negli occhi, avrebbe cercato le sue
mani
mentre soli seduti sul letto organizzavano la ricerca dei Doni della
Morte e,
chissà, avrebbe perfino potuto concedergli un bacio. O
qualcosa di più.
Voleva solo che Albus
lo aiutasse.
-
Ah -. Una voce diversa da quella dell’amico interruppe i
suoi pensieri. Gellert spostò lo sguardo verso la porta sul
retro, da cui era
appena entrato Aberforth, che portava sul volto
un’espressione truce. – Non
sapevo fossi ancora qui.
-
Non voglio essere di troppo, - si finse cordialmente
dispiaciuto Gellert in inglese perfetto nonostante il forte accento
tedesco, -
vorrà dire che andrò, ci vedremo dom...
-
No, - sentenziò Albus, - sei mio ospite, rimani.
Aberforth
non replicò sotto lo sguardo deciso del fratello –
non doveva proprio andargli a genio quel
mago tedesco. Si mosse verso la cucina mentre Ariana faceva
la sua
apparizione dal giardino.
Gellert
represse un sospiro, osservando la ragazza di appena
quattordici anni scivolare nella stanza, aggraziata, con quegli occhi
azzurri che
lo guardavano e non lo vedevano. – Ciao, Ariana, - si
ritrovò a mormorare
gentile.
Ariana
gli rispose con un sorriso, si avvicinò e aspettò
che
Gellert piegasse le ginocchia per potergli accarezzare una guancia in
segno di
saluto; Aberforth, dalla soglia della cucina, sbuffò
infastidito.
-
Le sei simpatico, - osservò Albus, non immaginando neppure
lontanamente i pensieri che affollavano la testa del suo amato.
Non devo, non devo,
si ripeteva Gellert mentre l’immagine delle proprie labbra
che baciavano quelle
screpolate di Ariana spiccava nella sua mente. Non
sono qui per lei, devo dimenticarla.
Ma
incontrarla ogni mattina nei corridoi di casa Silente non
lo aiutava affatto.
~
-
Cos’è successo a tua sorella?
Albus
distolse lo sguardo da Le Fiabe di Beda il
Bardo e scrutò Gellert attraverso le spesse lenti
degli occhiali a mezzaluna; sembrò combattere interiormente
tra il desiderio di
rispondere a qualunque domanda gli fosse posta
dall’amico e la
promessa, fatta forse a se stesso, di non raccontare mai ciò
che accadde nove
anni prima.
-
Preferisco non parlarne, - decise infine.
-
Con me il segreto è al sicuro, - lo rassicurò
Gellert,
passando le punta delle dita sulla guancia destra dell’amico: sperava che quel gesto avrebbe
avuto su Albus lo stesso
effetto che la carezza di Ariana aveva avuto su di lui. Come si era
aspettato,
il suo interlocutore deglutì, chiaramente confuso dalle
incomprensibili
emozioni che da un po’ di tempo avevano cominciato a
impossessarsi del suo
corpo, ma non scostò la mano di Gellert.
-
Nove anni fa, - esordì, serrando le palpebre nel tentativo
di non rivedere di fronte a sé le immagini di quella tragica
sera, - Ariana
scomparve. Stava giocando con Abe, ma fu attratta da qualcosa, una
farfalla o
un gatto, non ne ho idea… La udimmo urlare mentre la
cercavamo. Mio padre la
raggiunse per primo e quando si rese conto di… Beh, come
vedi ora lui non è
qui.
-
Mia zia mi ha detto che è morto ad Azkaban, -
sussurrò
Gellert, evitando ad Albus di pronunciare quella frase.
Il
suo amico annuì. – Arrivai qualche secondo dopo,
quando
ormai mio padre era chino sul corpo di Ariana: lei non
riuscì a dirci molto, se
non che stava solo giocando con un fiore, che lo aveva fatto
volare… E che i
figli dei nostri vicini di casa l’avevano vista.
-
In che condizioni era?
-
Le avevano lanciato dei sassi -. Albus si tolse gli
occhiali e si sfregò gli occhi chiusi. – Aveva
ferite dappertutto, l’avevano
perfino colpita alla tempia. Oggi forse comprendo la paura di quei
ragazzi, ma
al tempo né io né mio padre fummo in grado di
ragionare senza farci influenzare
dal sangue che sgorgava dalla pelle di Ariana; fui sorpreso quando lo
vennero a
prendere, mi sembrava che lui avesse solo fatto la cosa giusta.
La
rabbia montava nel petto di Gellert: com’era possibile
lapidare una bambina di cinque anni? Cosa poteva esserci di pericoloso nel far volare un fiore? E oltretutto
quella
povera innocente era Ariana… Come avrebbe voluto tornare
indietro nel tempo e
torturare quei ragazzini fino alla loro morte!
-
Ariana rimase incosciente per alcuni giorni, - continuò
Albus, senza accorgersi del furore che si era impadronito di Gellert.
– Quando
infine si risvegliò, non era più la stessa: non
parlava, fissava il muro
spenta, come se non le importasse più di niente. Era una bambina… Abe si
sentiva in colpa per averla persa di vista
quel fatidico pomeriggio e così ha iniziato a passare con
lei ogni momento,
cercando di farla ridere e parlare ancora; ci riuscì, ma
Ariana non tornò mai
più la stessa. Ogni tanto ancora adesso ha delle crisi,
comincia a strillare e
fa anche degli incantesimi senza utilizzare la bacchetta, come se la
magia che ha
dentro debba essere sfogata in qualche modo. L’ultima volta
che ha avuto uno di
questi attacchi… è stato qualche settimana fa.
Gellert
sapeva cosa voleva dire: durante l’ultima crisi
Ariana aveva accidentalmente ucciso sua madre Kendra. Era
così bella, così
apparentemente indifesa, eppure un
solo attacco di rabbia era capace di renderla un’altra
persona. Pericolosa.
-
Come puoi immaginare, non abbiamo mai voluto portarla al
San Mungo, temevamo che l’avrebbero trattenuta lì,
che sarebbe stata ricoverata
a vita.
Gellert
gli prese le mani. – È per questo che stiamo
cercando i Doni, - gli ricordò, - perché i maghi
non debbano temere che
lasciando soli i propri figli loro rischino la vita; siamo dei reietti
agli
occhi dei Babbani, Albus.
-
La ricerca dei Doni… Come faremo quando Abe
tornerà a
Hogwarts? Ariana non può restare sola…
-
La prima cosa che troveremo sarà il Mantello
dell’Invisibilità: potremo portarla sempre con
noi, nessuno la vedrà e lei
potrà finalmente uscire di qui e viaggiare -.
Spostò di nuovo il palmo della
mano sul volto di Albus. – Per il Bene Superiore, ricordi?
-
Per il Bene Superiore, - ripeté Albus, prima che le labbra
di Gellert bagnassero le sue. Dopo qualche istante di sorpresa,
lasciò che la
lingua lo cercasse, che esplorasse la sua bocca e lo facesse fremere,
senza
neanche immaginare che non era lui quello che Gellert in quel momento
stava
baciando.
E
per la prima volta Gellert pensò che non era solo il
potere il motivo per cui avrebbe trovato i Doni della Morte a tutti i
costi.
~
Gellert
stava leggendo comodamente sdraiato sul letto di
Albus quando sopraggiunse l’onda che lo travolse
completamente.
Lui
e Albus si erano Smaterializzati per riapparire fuori
dalla casa dei fratelli Silente, lontano dal carcere che stavano
diventando
quelle mura; erano riapparsi centinaia di chilometri più in
là, seguendo le
tracce dell’ultimo possessore conosciuto del Mantello
dell’Invisibilità. Era
facile sbagliarsi, non esisteva una sola copia di quel Dono, tuttavia
loro due
non si sarebbero accontentati di un mantello che avrebbe perso i
proprio poteri
dopo diversi anni: desideravano l’originale e lo avrebbero
avuto.
Al
ritorno Gellert era passato a casa per farsi una doccia,
in modo da togliersi di dosso il fango e lo sporco che avevano trovato
nel
luogo sperduto in cui erano finiti – dove un tempo esisteva
una casa, al
momento disabitata, avevano scoperto con grande disappunto –
mentre Albus si
era fatto vedere dai suoi fratelli per non essere accusato da Aberforth
di non
avere alcun interesse verso di loro; nonostante Gellert lo
disprezzasse, non
poteva negare che Aberforth ci vedesse piuttosto bene: probabilmente quell’idiota non si era ancora
accorto
del legame che si era instaurato tra i due vicini di casa, non
più d’amicizia,
ma di certo aveva notato le continue sparizioni della coppia e questo
non gli
andava proprio a genio.
Quando
Gellert si era arrampicato fino alla finestra di
Albus – avrebbe potuto Smaterializzarsi, ma adorava
lo sguardo che Albus gli rivolgeva quando appariva dai rami di fronte
alla sua
camera – era stato il suo turno di fare la doccia,
così il visitatore aveva
preso possesso del letto di Albus e aveva deciso di aspettarlo leggendo
il
primo libro che gli era capitato sottomano. Mentre era immerso nella
lettura,
però, il cigolio della porta attirò la sua
attenzione.
Ariana.
Il
suo cuore batté violentemente nel petto, cercando di
sovrastare la ragione; Gellert osservò la ragazza
avvicinarsi timidamente a
lui, il consueto sorriso innocente stampato sul volto pallido, e
sedersi sul
letto.
-
Ciao, Ariana, - la salutò con gentilezza. Ariana sorrise
di rimando e indicò il libro con un cenno del capo.
– È un libro di pozioni,
niente di interessante…
Ariana
puntò un dito verso il volume, poi lo spostò a Le Fiabe di Beda il Bardo e infine lo
riportò su di sé.
-
Vuoi che ti legga una fiaba?
Scosse
la testa, indicandosi di nuovo.
-
Sai leggere?
Annuì,
evidentemente lieta di essere stata capita.
Gellert
afferrò il libro e glielo porse, rendendo il sorriso
della ragazza ancora più radioso; Ariana cercò Lo Stregone dal Cuore Peloso e
cominciò a scorrere lo sguardo sulle
prime righe. Gellert la osservò, rapito dal suo viso
così bello, così perfetto,
e si chiese per l’ennesima
volta come quei ragazzini avessero potuto farle del male. Senza nemmeno
rendersene conto, la sua mano aveva trovato quella di Ariana che non
era
intenta a reggere il libro; lei si voltò e lo
guardò, arrossendo lievemente.
-
Io ti piaccio, Ariana?
Ma cosa sto dicendo?
Ariana
annuì di nuovo.
-
Ma ti piaccio come Al e Abe?
Dischiuse leggermente le labbra. – No, - rispose con un fil
di voce.
Gellert
si stupì di quella reazione: non l’aveva mai
sentita
parlare, era certo che lo facesse esclusivamente quando era sola con
Aberforth.
Quella voce… Si
innamorò ancora più
profondamente di lei senza comprenderne il motivo, come non
capì perché la sua
testa si chinò verso il volto di Ariana, perché
le labbra sfiorarono la sua
fronte e perché scesero sugli occhi, lungo il naso, fino
alla bocca; Ariana
rimase lì, immobile, le labbra dischiuse e le palpebre
abbassate. Quel bacio
rese Gellert ancora più folle, voleva stringerla, voleva
accarezzare la pelle
celata dai vestiti, voleva baciarle i seni come aveva fatto
più volte con il
petto di Albus, la voleva sua.
Si
riscosse appena in tempo da ricordarsi che Albus era
vicino, che sarebbe potuto entrare nella stanza in qualsiasi momento;
non
voleva che li trovasse insieme, li avrebbe divisi, avrebbe impedito a
Gellert
di avvicinarsi ancora alla sorella. Deglutì e si
scostò da Ariana, che lo stava
fissando con l’espressione più felice che Gellert
le avesse mai visto sul
volto.
-
Non dirlo a nessuno, d’accordo? Sarà il nostro
segreto -.
Non riuscì a trattenersi dall’aggiungere: - Tutte
le volte che vorrai.
Ariana
sorrise radiosa e corse fuori dalla stanza, il
vestito azzurro ondeggiante e un leggero profumo di fiori rimasto
nell’aria.
~
Chi
era l’amante tra i due?
Ariana,
a cui rubava rapidi baci e carezze sempre più
intense nei rari momenti in cui restavano soli?
O
Albus, che gli cingeva la vita e le cui labbra cercavano
Gellert con passione, ormai dimentico dell’imbarazzo iniziale?
Nessuno
sapeva dell’altro e Gellert ringraziava il cielo che
fosse così: se solo Albus avesse scoperto che stava
insidiando la sua sorellina pazza…
Aberforth aveva evidentemente
intuito in che modo si era evoluto il legame tra lui e Albus, ma
Gellert
dubitava che ne fosse andato a parlare con Ariana. Perché
avrebbe dovuto farlo?
Ariana…
Il tempo che passava con lei era breve, sempre troppo
breve per il dolce tormento che
stava lacerando il petto di Gellert: doveva limitarsi ad osservarla da
lontano
per tutta la giornata, mentre avrebbe voluto insinuare le mani sotto la
sua
veste, solleticarle i piccoli seni, sentire la pelle tra le gambe
bagnarsi.
Quante
volte l’aveva immaginata così? Tutte le notti
prima
di andare a dormire, quando sotto le coperte cercava di soddisfare i
desideri
che teneva celati durante il giorno, gemendo al pensiero di Ariana
finalmente
nuda sotto il suo corpo, splendida, disarmante.
Sua
zia Bathilda, una sera a cena, tra portate di arrosto e
patate, gli aveva confessato che, per quanto lei avesse a cuore i
Silente,
sembrava quasi che fossero una calamita per le disgrazie, per se stessi
e per i
pochi che entravano nella loro orbita; forse glielo aveva detto nel
tentativo
di metterlo in guardia, ma era ormai troppo tardi: Gellert era stato
stregato
dalla maledizione dei Silente, non poteva fare a meno di entrare in
quella casa
almeno una volta al giorno, di parlare con Albus dei Doni, di osservare
Ariana
e il suo timido sorriso, perfino di rivolgere un’occhiata di
scherno ad
Aberforth. “Per quanto tenga a loro due, preferiranno sempre
me. Sempre” sembravano
dire i suoi occhi
azzurri.
Gellert
era in trappola, non poteva – né voleva
– fuggire.
Come avrebbe potuto restare senza la sua Ariana, come?
Dannazione, quell’insensato amore lo stava allontanando dal
suo obiettivo! Doveva avvicinarsi al famoso Albus Silente, il ragazzo
dotato di
un’intelligenza straordinaria per la sua età
secondo le parole di sua zia, la
persona che a soli diciotto anni era già apparsa tre volte
sulla Gazzetta del Profeta; come
aveva potuto
finire per innamorarsi di sua sorella, la stramba,
l’omicida della propria madre? Era inutile: pur cercando di
vedere Ariana con
gli occhi degli altri, di quelli che se solo l’avessero
conosciuta l’avrebbero
giudicata fuori di testa e un pericolo per chi le era intorno, Gellert
non
riusciva a staccarsi dal suo volto. Dal suo sorriso. Da quelle
splendide mani
che l’avevano accarezzato un giorno di giugno.
~
-
Salgo a prendere il libro che ho lasciato in camera.
Gellert
mise una mano sulla spalla di Albus, impedendogli di
alzarsi. – Lascia stare, vado io, - si offrì,
regalandogli il consueto sorriso
innamorato: sapeva che, al suo ritorno, avrebbe potuto perfino
chiedergli di
attaccare il Ministero della Magia con le sue uniche forze, tanto
sarebbe stato
il desiderio con cui Albus avrebbe guardato quelle labbra in attesa di
un
bacio.
Certe
volte, si disse mentre saliva la scale della casa dei
Silente, la sua mente si prendeva ampiamente gioco del grande
Albus, sottovalutando il mago ingegnoso ed esperto che si
celava dietro quegli spessi occhiali a mezzaluna.
Entrò
nella stanza, ravvivandosi i folti capelli biondi con
una mano, e sorprese Ariana china sulla scrivania del fratello; sorrise
di
nuovo, questa volta pregustando già il bacio che avrebbe
dato alla ragazza, le
dita che forse, finalmente, avrebbero cercato la pelle sotto il
vestito,
qualche secondo di travolgente amore in più rispetto al
solito. Chiudendo
attentamente la porta, si avvicinò a lei senza fare rumore,
cingendole infine
la vita e posando le labbra sul suo collo nudo; Ariana, tuttavia,
sussultò e lo
allontanò, il respiro affannato.
-
Cosa succede? – le chiese Gellert, stupito. Con la coda
dell’occhio notò un foglio sulla scrivania di
Albus, un foglio macchiato di
caffè su un angolo e spaventosamente simile a quello che
aveva utilizzato per
scrivere la lettera della notte precedente al suo amante…
Mio caro Albus,
non disperare: sarebbe
da sciocchi credere che avremmo trovato qualcosa al primo tentativo.
Dobbiamo
provare e riprovare, alla fine otterremo ciò che stiamo
cercando.
Ricordava
tutte la parole, ricordava come avesse scrutato il
cielo stellato oltre la finestra e la casa dei Silente che si stagliava
contro
il firmamento; ricordava come spiando la finestra della camera di
Ariana e
Aberforth avesse sospirato come un ragazzino, lasciando poi scorrere
tutti i
pensieri per la giovane nella lettera per Albus.
Una notte intera senza
te è il tormento. Non mi sono mai considerato molto
romantico, ma onestamente
non credo nemmeno di essermi mai innamorato prima d’ora.
Vorrei passare ogni momento con te, stringerti e ascoltarti respirare,
restituirti i baci come ho sempre fatto; se fossi qui, manderei al
diavolo
tutte le nostre cautele e ti abbraccerei davanti a mia zia, davanti ai
tuo
fratelli, davanti al mondo intero. Davanti a tutti rinnoverei il mio
amore per
te, Albus.
-
No… - Gellert era immobile, incredulo di come fosse stato
avventato: Ariana poteva entrare in quella stanza quando voleva, quella
stanza
che era stato il nido del loro amore clandestino, e Albus non avrebbe
certamente buttato una lettera simile. Tentò di posare una
mano sulla spalla di
Ariana, cercò le parole migliori per tranquillizzarla, per
spiegare l’equivoco.
Ma quale equivoco?
-
Ariana, ti prego, ascoltami…
Saremo liberi di
essere ciò che siamo, finalmente.
A domani,
tuo Gellert
Ariana
scacciò la sua mano, la mascella serrata e le lacrime
che le rigavano le guance. Gellert si ritrovò a desiderare
che il suo volto
fosse contratto dalla furia, pur di non vederla in quello stato: Ariana
sbatteva le palpebre e lo osservava improvvisamente confusa, come se
non
ricordasse il motivo per cui lo stava detestando tanto. Gli occhi erano
lontani, ancora una volta.
Uscì
dalla stanza segna degnarlo di un ultimo sguardo,
distante.
~
Gellert
Grindelwald aspettava, il busto teso e le mani
intrecciate dietro la schiena; i capelli biondi di un tempo erano ormai
grigi,
ma i suoi occhi azzurri continuavano a brillare. Davanti a lui
un’ampia
finestra gli mostrava la processione cupa dei prigionieri che
attraversavano il
cortile di Nurmengard, intorno a lui il pavimento nero e
l’arredo austero e
minaccioso della stanza gli ricordavano la sua fama di potere.
Un
ghigno gli attraversò il volto al pensiero di quello che
era diventato il suo regno di terrore: in Germania c’era un
uomo che lo aveva
eguagliato – perfino superato – fino a qualche mese
prima, senza nemmeno dover
ricorrere alla magia, ma ora era lui l’unico a detenere un
regime dittatoriale.
Aveva sacrificato molto per arrivare fino a quel punto, per scalare la
vetta
fino in cima. Ne era valsa la pena.
-
Mein Herr, –
richiamò la sua attenzione il soldato giunto alle sue
spalle, battendo forte,
uno e poi l’altro, i piedi sul pavimento di pietra nera.
– È arrivato, - gli
comunicò in tedesco.
Gellert
sollevò il capo, osservando la pioggia cadere sulle
teste rasate dei prigionieri.
È giunto il momento,
dopo tanti anni.
-
Proseguite con gli ordini: lasciatelo passare.
-
È certo di non volere la nostra presenza, mein
Herr?
Gellert
estrasse dal mantello color porpora una lunga
bacchetta e se la rigirò attentamente fra le dita.
– No, me ne occuperò da
solo. Ho atteso questo momento per anni.
-
Come vuole, mein
Herr -. Il soldato sbatté di nuovo i piedi, fece
un rigido inchino e si
congedò.
Gellert
rimase solo, riflettendo qualche secondo prima di
seguirlo fuori dalla stanza in penombra. Da quanto tempo non lo vedeva?
Mezzo
secolo? Un ghigno beffardo gli attraversò il volto:
cinquantuno anni, era
inutile fingere di non ricordare; Gellert aveva tenuto il conto giorno
per
giorno, inizialmente sollevato dal tempo che passava, in seguito
ansioso di
rivedere quello che per un’estate era stato il suo amante. Albus Silente aveva esitato per
cinquantuno anni, si era
tirato indietro perfino quando Gellert aveva preso il potere con la
forza e
aveva minacciato la sicurezza di entrambi i mondi, magico e babbano:
preferiva
rimandare lo scontro almeno quando Gellert lo desiderava. Qualcuno
avrebbe
potuto accusarlo di essere un pavido, perché non aveva osato
allontanarsi da
Nurmengard per sconfiggere Albus Silente prima che lui lo attaccasse di
sorpresa, ma il Mago Oscuro Gellert Grindelwald sapeva che quello non era lo
stile del
suo nemico; inoltre desiderava essere lui, per una volta, ad
accoglierlo nella
sua dimora.
Quella
fortezza, quel carcere che ancora trasudava il delicato
profumo di Ariana Silente.
Forse
si trattava dell’arrivo del fratello, però a
Gellert sembrava
che l’odore si fosse fatto più intenso nonostante
il sangue e la putrefazione
che lo circondavano. Non ebbe bisogno di gettare un rapido sguardo al
calendario per sapere che giorno fosse: ventisette agosto 1945, il
cinquantunesimo anniversario della morte di Ariana.
Cosa
sarebbe accaduto se, quel fatidico pomeriggio, una
Maledizione Senza Perdono non avesse colpito la ragazzina? Ora avrebbe
avuto
sessantacinque anni e avrebbe regnato al suo fianco, splendida e
raggiante come
una regina che non doveva celare la propria esistenza? Oppure le mire
di un
disperato Gellert si sarebbero spostate dalla Bacchetta di Sambuco al
Mantello
dell’Invisibilità e, mentre nella Germania cessava
di dilagare il nazismo, i
due non più giovani sposi avrebbero vissuto in
un’isolata casetta di montagna,
uscendo ogni giorno per fare una passeggiata protetti dal mantello?
Gellert
attraversava i possenti corridoi della sua fortezza
e nel frattempo si rispondeva che la vita o la morte di Ariana non
avrebbero
cambiato il corso degli eventi: a farlo sarebbe stata quella lettera.
Ariana
non lo avrebbe mai seguito, non per rancore, ma perché non
ricordava nemmeno
chi fosse Gellert prima di quel giorno: quando un amore è
perduto se ne perde
perfin la memoria, lui lo aveva imparato a spesa di entrambi.
Albus
non capiva cosa fosse successo di tanto drastico
perché sua sorella avesse dimenticato l’esistenza
di Gellert, non comprendeva
nemmeno perché dopo averglielo presentato di nuovo Ariana
non lo avesse più
trovato simpatico; fuggiva in sua presenza, lo osservava spaventata.
Forse,
però, in fondo avrebbe potuto farla innamorare
ancora, donandole la libertà e infine il mondo intero.
Forse, se solo non fosse
morta.
Mentre
oltrepassava il portone spalancato che dava
sull’entrata di Nurmengard, laddove lo attendeva Albus,
Gellert era consapevole
del motivo per cui lui non fosse venuto a cercarlo prima. Non era paura
di non
essere abbastanza forte, non era nemmeno nostalgia di un amore perduto
– e
probabilmente dimenticato, come aveva fatto Ariana con lui.
Albus
aveva esitato cinquantuno anni perché non sapeva chi
avesse ucciso la piccola Ariana: erano stati in due quel pomeriggio a
scagliare
una Maledizione Senza Perdono, uno per attaccare Aberforth e
l’altro, preso
alla sprovvista, per difendere il fratello.
Gellert scostava il mantello
ondeggiante dietro le spalle,
pronto a rivelargli la verità.
“Quando un amore
è perduto se ne perde perfin la memoria”
è
una citazione di Pedro Calderón de la Barca.
Secondo la cronologia presente su
Wikipedia, Ariana è morta
poco prima di settembre, per cui ho scelto una data a caso tra gli
ultimi
giorni di agosto.
Il titolo è un riferimento
al mito di Arianna, decisamente
“rivisitato”: la casa dei Silente è la
gabbia di Ariana (in questo caso non Arianna,
ma il Minotauro) dalla quale non può uscire, ma diviene
anche un labirinto per
chi, come Gellert, vi entra, un luogo di “perdizione
mentale”; in un certo
senso, è un po’ come se Ariana e la magia che non
riusciva a contenere avessero
legato a sé Gellert, come se in fondo tutta la passione per
lei fosse stata
indotta da Ariana stessa. Molto avventato come pensiero, eh. Ad ogni
modo, alla
fine è Gellert a lasciare che sia Albus ad andare da lui e,
anche se non lo
ammetterebbe neanche a se stesso (essendo il suo POV, pur essendo la
storia in
terza persona i pensieri sono i suoi, anche il modo in cui apostrofa
Aberforth), il motivo è anche che lì, a
Nurmengard, Gellert si sente al sicuro:
non è la casa dei Silente.
“Mein Herr” in
tedesco è “mio Signore”.
Il finale anticipa che Gellert vuole
rivelare ad Albus
(perché lui lo sa) chi è stato a uccidere Ariana,
ma non significa che glielo
dirà, anche perché alla sua morte Albus
è ancora colmo di sensi di colpa.
Spero che la storia vi sia piaciuta!
Medusa