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Autore: e m m e    27/03/2013    6 recensioni
In un mondo dove l’amore è sempre più spesso una condanna, due persone, per uno strano e ironico intreccio di momenti sbagliati, si trovano, si perdono e sono costrette a cercarsi nello sguardo alieno di perfetti estranei.
[Johnlock Soulbond!AU]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Parte III – Lover of the light

I have done wrong
so build your tower
But call me home
and I will build a throne
And wash my eyes out never again

But love the one you hold
And I’ll be your goal
To have and to hold
A lover of the light

Lover of the light – Mumford & Sons

 

I

 

Non aveva idea del perché all’improvviso ne fosse così certo. La sensazione era quella di aver appena sentito scattare un interruttore nella testa e aveva bisogno di sapere se quell’interruttore fosse scattato anche nella testa di Sherlock.

Non avevano mai parlato di Soulmates e John sospettava soltanto da qualche giorno che anche Sherlock avesse incontrato il suo – principalmente dopo la risoluzione del caso Amberley, dove si era comportato come se conoscesse alla perfezione cosa volesse dire trovarlo – ma non glielo aveva mai chiesto direttamente.

E adesso capiva perché: non voleva saperlo con sicurezza. Potevano esserci mille altre possibilità, Sherlock poteva averlo trovato e l’altro poteva non ricambiare, poteva essere un semplice caso di differenza d’età troppo elevata, oppure si trattava di un criminale, oppure Sherlock l’aveva incontrato in un aeroporto dieci anni prima e di lui aveva perso le tracce.

A John il cuore batteva forte nelle orecchie, impedendogli di sentire i rumori che lo circondavano. Non voleva pensare a quell’eventualità, non voleva pensare di poter essere felice per un caso così fortuito, sciocco e impossibile.

Non era mai stato bravo in matematica, ma le probabilità che una situazione del genere – che si trovasse ad occuparsi per puro caso del suo Soulmate temporaneamente, o forse per sempre, privato della vista – erano talmente minime che non doveva nemmeno pensarci.

Eppure la speranza era sempre lì in agguato, così come lo era stata per tutti quegli anni, e solo adesso si faceva sentire in modo più violento, invadendolo come mai gli era accaduto.

Giunse in Baker Street con il fiatone nonostante avesse preso un taxi al volo e infilò le chiavi nella toppa con le dita che gli tremavano.

Salì le scale che ormai conosceva bene saltando i gradini a due a due ed entrò nel loro appartamento.

Ormai il pomeriggio volgeva al termine e le ombre della sera aveva invaso tutto l’ambiente, rendendo le forme indefinite ed evanescenti.

« Sherlock... » chiamò guardandosi attorno e togliendosi in tutta fretta il cappotto.

All’inizio non lo vide, poi scorse un ciuffo di capelli spuntare dallo schienale della poltrona rivolta verso la finestra. Si avvicinò e avrebbe voluto dire così tante cose che le prime parole che la sua voce riuscì a formulare furono: « Sherlock, stai bene? »

L’altro non si voltò verso di lui, ma John lo vide appollaiato sulla poltrona, con le gambe incrociate e le mani giunte davanti al volto, come se stesse riflettendo su tutti i problemi dell’universo.

« No, affatto. Ma non è questa la domanda che vorresti farmi. »

Vero, assolutamente vero. Distolse gli occhi e li puntò su una macchia del pavimento che ancora non era riuscito ad eliminare e con un sussurro sputò fuori quella domanda che aleggiava tra di loro da giorni e giorni: « Hai trovato il tuo Soulmate? »

« Sì » rispose Sherlock dopo un attimo di pausa, « e deduco quindi che anche tu abbia trovato il tuo. »
John annuì, dimenticando per un attimo che l’altro non avrebbe potuto vederlo, poi continuò: « E dov’è adesso? »

« Non lo so.» Nonostante la sua voce fosse ferma, John riuscì a leggervi un panico crescente. « C’è un cinquantasette percento di possibilità che sia proprio in questa stanza, adesso. Ma non posso esserne sicuro. »

« Sherlock, io- »

Ma l’altro scattò in piedi come se fosse stato appena morso da un serpente e annaspando avanti con le braccia riuscì a incontrare il punto in cui si trovava John e a posargli entrambe le mani sulle spalle.
Guardò verso di lui, abbassando la testa, e per un attimo a John sembrò possibile che le bende che gli coprivano gli occhi evaporassero sotto il potere del suo sguardo. Ovviamente non accadde, ma Sherlock disse: « John » molto piano, quasi dolcemente, « John, non voglio sapere niente. Non dirmi niente ed io non ti dirò niente. Preferisco un cinquantasette percento che uno zero assoluto. »

E John non gli disse niente, un po’ perché era completamente sopraffatto dalla straordinarietà di quel momento, della loro situazione, di quello che implicava sopportare che gli occhi di Sherlock non potessero essere liberati prima di tre  settimane, e un po’ perché riusciva solo a pensare che se non lo avesse baciato nel giro di cinque secondi lo avrebbe rimpianto per sempre, sia che lui fosse il suo Soulmate sia che non lo fosse stato.

Così sollevò le braccia, che fino ad allora erano rimaste abbandonate lungo il corpo, e portò le dita dietro al collo dell’uomo davanti a lui, lasciò che si insinuassero tra i suoi capelli e giocassero con la sua epidermide; erano morbidi e anche se si trovava ancora a distanza sapeva che profumavano di buono.

Sherlock si lasciò sfuggire un piccolo suono pigolante e John ne rimase affascinato. Quando lo baciò lo fece con estrema delicatezza, tirando un po’ la sua testa verso il basso perché era così tanto più alto di lui; lasciò che la propria lingua giocasse con i suoi denti fino a che Sherlock non si aprì per lui.

Si avvicinarono lasciando aderire i loro corpi e rimasero così per molto tempo, respirando gli stessi respiri, pensando gli stessi pensieri, tacendo una verità che avrebbe potuto distruggerli in un singolo istante.

 

II

 

Sherlock respirava piano, quasi senza emettere suono. Preferiva ascoltare il respiro di John disteso accanto a lui piuttosto che fare rumore; avrebbe davvero voluto allungare una mano e raccogliere le lenzuola andate ad ammucchiarsi ai piedi del letto, ma questo avrebbe voluto dire muoversi, fare rumore, interrompere quel momento di pace eterna che aveva colto lui e John.

John... aveva ripetuto il suo nome così tante volte, nell’ultima ora, che ne aveva la bocca quasi impastata. Gli piaceva quel suono, quell’unica sillaba morbida, quasi nasale, ma così familiare.

Era la prima volta che usava quel nome consapevolmente e con cognizione di causa e sperava, pregava con tutto il cuore, di non doversene pentire.

Avrebbe voluto strapparsi via quella benda che gli impediva di guardarlo – che gli aveva impedito di guardarlo sopra di lui, poco prima – ma si trattenne, un po’ per paura di non riuscire comunque a vedere niente e soprattutto perché preferiva vivere nell’incerta felicità di quelle tre settimane che li aspettavano piuttosto che in una subitanea, cocente delusione.

Immaginava vagamente che per John fosse addirittura peggio: lui almeno era sicuro che il nome fosse quello giusto e che il suo John avesse una sorella – aveva sempre pensato alla ragazza mora vicino a lui come a sua sorella minore. Ma il John disteso accanto a lui, con il sudore che ancora doveva asciugarsi sulla pelle, che cosa sapeva del proprio Soulmate?

Certo, avrebbero impiegato trenta secondi per appurare la verità: bastava la data, il luogo dell’incontro, niente di più. Ma Sherlock non avrebbe detto una sola parola, e così John.

« Se fumassi ti darebbe fastidio? » domandò Sherlock a quel punto, interrompendo l’inutile elucubrare che stava occupando – lo sapeva – entrambe le loro menti.

« No » rispose John avvicinandosi un po’ e lasciando che la sua tempia sinistra andasse a toccare la spalla di Sherlock. « Ma perché chiedi il permesso? »

Sherlock rimase un po’ interdetto davanti a quella domanda: « Perché non dovrei? »

« Non so, ho come l’impressione che non tu sia il tipo di persona che chiede molto spesso il permesso... »

Sherlock emise quello che doveva essere uno sbuffo mentre tentava di accendersi una sigaretta senza bruciare le coperte.

« E sei troppo tranquillo » continuò John con voce pensierosa. Sherlock avvertì la vibrazione del suo torace contro il proprio fianco e per qualche attimo ne fu distratto.

« Che vuol dire “troppo tranquillo”? »

« Il lavoro che fai, la vita che conduci... non sembrano essere- » fece una pausa, come cercando le parole adatte, poi le trovò: « quelli giusti. »

Sherlock soffiò via il fumo e lo immaginò salire verso l’alto fino a infrangersi contro il soffitto.

« Il fatto è, John, che quando inizi a smettere di vivere per te stesso e inizi a trascinare la tua esistenza in funzione di qualcuno che nemmeno conosci, perdi di vista quello che realmente vorresti avere per te stesso... E in ogni caso anche tu sembri essere fuori posto. »

John ridacchiò e Sherlock schiacciò la sigaretta sul pavimento, fregandosene altamente di lasciare o meno una macchia, per poi voltarsi e schiacciare anche la faccia contro il torace di John.

« Preferisci che vada a dormire altrove? » domandò lui con la risata che si spegneva nel petto.

« Intendo dire che ti vedrei meglio come... non so, un medico militare tornato da una missione che ha difficoltà croniche ad adattarsi alla vita civile. »

« E tu dovresti pensare di far diventare quella dell’investigatore privato una professione seria. »

« Consulente Investigativo. E in ogni caso non potrei farlo se non torno a vedere: il caso che abbiamo risolto era di una semplicità quasi imbarazzante. »

« Lo polizia non lo trovava così semplice » replicò John sfiorandogli i capelli e posandogli le labbra sulla testa.
« Raggiungeresti il mio IQ solo se mettessi insieme l’IQ di metà Scotland Yard. »

« Ma come siamo modesti! »

Rimasero in silenzio per un po’ fino a che John decise che erano rimasti in pace abbastanza e ricominciò ad esplorare la pelle di Sherlock, soprattutto nei punti in cui le bruciature dell’incidente avevano lasciato cicatrici. « Non ti faccio male, vero? »

« No » soffiò Sherlock in un sussurro, anche se la sensazione delle labbra di John su di lui era molto vicina a un dolore insopportabile.

Gli toccò i capelli, che erano morbidi e corti. Li immaginò di un biondo scuro, come quelli del suo John, e per un attimo non ebbe bisogno di sforzarsi di credere reale quella storia, perché era reale, lo dimostrava la reverenza con cui John toccava il suo corpo, con cui lo baciava e si occupava di lui.

« Sherlock » disse John distendendosi praticamente sopra di lui e posando il mento sulle braccia che gli sostenevano la testa, « parlami un po’ di te. »

Nessuno glielo aveva mai chiesto. A nessuno era mai stato permesso di avvicinarsi così tanto a lui da essere interessato a porre una domanda del genere.

« Che cosa vuoi sapere? » rispose, senza nemmeno essere certo di riuscire a farlo. Raccontare di se stesso era sicuramente una delle cose più difficili che gli avessero mai chiesto di fare.

« Non lo so... qual è il tuo cibo preferito, che cosa ti piace leggere, dove hai trascorso l’infanzia, quale è stato il periodo più felice della tua vita e quale il più brutto... cose di questo genere. »

Sherlock ci pensò su per qualche attimo e trovò le richieste semplici e tutto sommato ragionevoli.

« Non ho un cibo preferito, credo che mangiare sia una mera necessità e che pensare troppo a quello che abbiamo nel piatto distragga da cose più importanti; mi piace leggere libri di chimica e di psicologia, anche se per un certo periodo ho riempito la casa di opere filosofiche; ho passato praticamente tutta la mia vita nei dintorni di Londra, tranne per il periodo di un anno, quando sono andato a vivere in Francia perché mia madre aveva avuto l’insana idea di farmi studiare nel suo stesso collegio di Parigi. Quello è stato il periodo più brutto della mia vita, telefonavo praticamente ogni giorno a mio fratello perché mi riportasse a casa. »

« Davvero era così brutto? Perché mai? » lo interruppe John e Sherlock piegò la testa nella sua direzione. Avrebbe voluto guardarlo con un’espressione di sufficienza, ma con gli occhi bendati lo trovò difficile e si limitò così a fargli una smorfia di acido sarcasmo: « Prova a indovinare. Tu perché non sei entrato nell’esercito? »

John evidentemente indovinò, perché pochi attimi dopo cambiò argomento e chiese ancora: « E il periodo più felice? »

Sherlock abbandonò di nuovo la testa sul cuscino e sospirò. « A parte quest’ultimo mese? Non riesco proprio a ricordarlo. »

John fece allora forza sulle braccia e si tirò su, arrivando all’altezza giusta per baciarlo ancora, quasi con violenza, tanto che Sherlock rimase un attimo senza fiato.

« E i tuoi? Quali sono i periodi più felici e quelli più brutti della tua vita? » gli sussurrò appena, ad un passo dalle sue labbra.

Sentì queste ultime sollevarsi verso l’alto e solo dopo che John ebbe parlato poté interpretare il suo come un sorriso amaro: « A parte quest’ultimo mese, intendi? ».

 

III

 

John respirava meglio e gli sembrava che la patina grigia che aveva sempre visto nel mondo si stesse diradando. Avevano concordato con tranquilla semplicità che trovare i loro Soulmates aveva rovinato a entrambi la vita e che non c’era alcun modo di impedirsi di immaginare cosa avrebbe potuto essere di loro se quel giorno – di cui ancora non avevano parlato – e in quel luogo – di cui continuavano ad ignorare l’esatta ubicazione – avessero provveduto a guardare tutto il tempo le proprie scarpe. Ma ormai il danno era fatto e non c’era modo di tornare indietro.

Ogni giorno che passavano insieme, il più possibile vicini, anche solo nella stessa stanza, respirando la stessa aria, era diviso tra momenti di assoluto e completo appagamento e momenti di panico violento.

Ogni giorno che li avvicinava di più a quello in cui Sherlock avrebbe potuto liberarsi per sempre della benda che lo separava dal mondo esterno era vissuto come una benedizione all’interno di una maledizione e nessuno dei due riusciva a trovare il coraggio di spezzare quel circolo vizioso che impediva loro di respirare liberi e di vivere quello che avevano costruito senza paura.

Una mattina – era un lunedì – una macchina nera venne a prelevare John proprio all’uscita del market dove faceva la spesa una volta alla settimana. La signorina che John riconobbe come la segretaria del fratello di Sherlock lo pregò di salire e John si trovò a sistemare tutte le buste della spesa nel bagagliaio.

Il viaggio fu brevissimo e, quando John scese dalla macchina, smise di preoccuparsi del gelato che si sarebbe sciolto e iniziò a preoccuparsi dell’uomo vestito in modo elegante che sembrava aspettare proprio lui, seduto su una panchina poco dopo l’ingresso del parco.

Alzò un braccio in segno di saluto perché lo riconobbe subito; si chiese che diavolo volesse da lui e soprattutto perché si fosse sprecato in tutta quella pantomima, quando gli sarebbe bastato fare una telefonata.

« Signor Holmes » lo salutò non appena lo ebbe raggiunto.

« Dottor Watson » rispose lui con un sorriso quieto, « sono lieto di vederla così bene. Perché non si siede un po’ qui? »

John obbedì, perché di certo quella non era una domanda, e a sua volta fece: « Che cosa vuole? Sherlock sta benissimo, se è di questo che si preoccupa. »

« Certo che sta benissimo. In effetti devo ammettere che non è mai stato così bene in tutta la sua vita, caro dottore. »

« No, lo so » ammise John, perché era esattamente la stessa cosa che provava lui.

« Lei capisce che Sherlock è mio fratello e che mi preoccupo per lui. Ha solo ventisette anni e più di un terzo della sua vita l’ha passato ad aspettare. Non oso immaginare che cosa succederebbe se lei non fosse la persona che aspettava. »

John congiunse la punta delle dita, senza sapere bene che cosa dire. « Non è che io mi trovi in una situazione molto più rosea, signor Holmes. »

« No, ma lei non è Sherlock, dottor Watson. Sherlock era un ragazzino fragile e il fatto che adesso sia più alto di me e sembri così sicuro di sé non vuol dire che non sia rimasto lo stesso ragazzino fragile. Lo sa che cinque anni fa aveva iniziato a drogarsi? Non le dico che cosa c’è voluto per impedirgli di continuare quella follia. »

John annuì piano, guardandolo con la coda dell’occhio. Era pallido e aveva profonde occhiaie e sembrava assolutamente sfinito dalle preoccupazioni, ma di nuovo il suo volto riprese quella tranquilla indifferenza che lo aveva caratterizzato per tutto il loro incontro precedente.

« Ho visto le cicatrici » spiegò John, tanto per interrompere il silenzio che si era creato.

« Ma Sherlock non gliene ha parlato. »

« Ha detto solo che è stato per poco tempo e che gli serviva per non essere distratto. »

« Comunque... » continuò Mycroft Holmes a voce più alta e più sicura, « vorrei che mi promettesse una cosa, dottore. »

John sentì puzzo di trappola, ma non sapendo come uscire da quel ginepraio rispose che ci avrebbe provato, anche se non garantiva niente.

« Vorrei che lei rimanesse vicino a Sherlock, anche quando si sarà tolto le bende, anche quando la verità uscirà fuori, qualsiasi essa sia. »

John sbatté le palpebre, cercando di metabolizzare la richiesta, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa Mycroft si affrettò ad aggiungere: « Gli scenari sono molteplici, lo so. Escluso quello che ci auguriamo essere un lieto fine, lei potrebbe scoprire che Sherlock non è la persona che credeva, oppure Sherlock potrebbe scoprire la stessa cosa sul suo conto, oppure potreste risultarvi entrambi estranei. Non so bene che cosa potrebbe succedere in nessuno di questi tre casi. Quella dei Soulmates non è una scienza esatta, checché se ne possa pensare: ci sono dei casi in cui una coppia ha deciso di lasciarsi, in cui – so che può sembrare incredibile – uno dei due componenti ha riversato il suo affetto su di una terza persona. L’unica cosa che so è che non posso continuare a vedere mio fratello che getta via la sua vita. »

« E cosa crede che possa fare io? Signor Holmes, sa che non posso prometterle niente fino a venerdì, fino a quando Sherlock non sarà tornato a vedere e potremo scoprire la verità. »

« Potreste scoprirla già adesso. »

John strinse le labbra in una linea dura. « Non ne abbiamo la minima intenzione. »

Mycroft si alzò in piedi poggiando entrambe le mani sull’ombrello nero che si portava dietro e lo guardò dall’alto in basso: « E che cosa accadrebbe se Sherlock non tornasse più a vedere? Se lui non fosse mai in grado di scorgere la verità con i suoi occhi e si ostinasse a non voler dire niente sul suo Soulmate per paura di scoprire che, in effetti, non è lei? »

John aprì la bocca per rispondere, ma si rese conto di non avere la minima idea di che cosa dire, così la richiuse di scatto.

« Le auguro una buona giornata, dottor Watson » furono le ultime parole che il fratello di Sherlock si degnò di dedicargli prima di invitarlo a salire di nuovo in macchina per essere accompagnato a Baker Street.

 

***

 

Quando John rientrò in casa Sherlock stava suonando il violino in piedi davanti alla finestra e il gelato si era sciolto quasi del tutto, facendo un macello nelle buste di plastica riciclabile.

Poggiò gli acquisti sul tavolo con malagrazia e gettò nel cestino la confezione ormai inservibile e appiccicosa. Si sentiva arrabbiato e impotente per, in apparenza, nessun motivo logico.

Le note del violino si spandevano nell’aria e John chiuse gli occhi, stringendo nella destra una confezione di prosciutto e nella sinistra una bottiglia di latte.

Rimase fermo in cucina fino a che Sherlock non ebbe finito di suonare la sua melodia, un po’ triste e lamentosa come era in effetti il loro umore in quei giorni, e cercò di non pensare a niente che non fosse chiuso in quell’appartamento.

« Tuo fratello è abituato a fare il terzo grado a tutti i tuoi amici oppure a me è riservato un trattamento speciale? » domandò una volta che la musica si fu fermata e Sherlock si fu voltato verso di lui con un sorriso tremulo sulle labbra. I suoi sorrisi erano sempre tremuli, come se non capisse mai se era felice oppure triste.

« Non saprei » rispose l’altro avvicinandosi con circospezione per evitare di inciampare nei mobili. « Non ho mai avuto amici con i quali fare un confronto. »

John fece un sorrisetto, suo malgrado. « Non importa » lo tranquillizzò. « Sono certo che lo faccia solo perché è preoccupato per te. »

« Ti ha... prelevato e fatto portare da qualche parte? È tipico... gli piace avere tutto sotto controllo. »

« Non mi sembra che tu sia sotto il suo controllo » replicò John, allungando una mano e guidandolo verso di lui. Sherlock iniziò a tastare tutti i prodotti sparsi sul tavolo, deducendo il loro contenuto: era un gioco che lo teneva impegnato e lo divertiva e a John non dispiaceva.

« Non sono mai stato sotto il controllo di nessuno, se è per questo. »

John sorrise e gli tirò i capelli per fargli chinare la testa verso di lui. « E non ti piacerebbe? »

Quelli erano i momenti migliori e al contempo i peggiori: per qualche attimo dimenticavano tutto e riuscivano a godere della reciproca compagnia, ma quel tarlo che li divorava da settimane si faceva sempre più strada nel loro cervello, lasciandoli stanchi, svuotati e al contempo stupidamente felici di quell’attesa snervante.

 

IV

 

« Vorrei poter fare l’amore con te » gli aveva detto John il giovedì mattina quando si era svegliato. La sua voce era ancora impastata dal sonno e a Sherlock erano venuti i brividi. Lui da circa cinque minuti non faceva altro che nutrirsi dell’odore di John, perché se non poteva avere la sua voce, se le sue mani non lo toccavano e se non poteva vederlo, l’unica cosa che gli restava da fare era avvicinarsi a lui il più possibile e inalare ogni particella del suo odore.

Non avevano ancora avuto un rapporto sessuale completo e nessuno dei due ne aveva mai parlato fino a quel momento. Sherlock immaginava che John avrebbe continuato a non parlarne se non fosse stato ancora così pieno di sonno e vulnerabile ai pensieri pericolosi.

Allora gli aveva cacciato la testa tra la spalla e il collo e aveva risposto che lo sapeva. Nient’altro.

Dopo di che John si era riaddormentato e il suo respiro tranquillo era tornato ad essere l’unico rumore nella stanza.

In qualsiasi modo fosse andata a finire quella storia, Sherlock non avrebbe mai potuto dimenticare quella voce assonnata e quelle sei parole così semplici che racchiudevano implicazioni infinite. Per ogni ora che passava, per ogni minuto che lo avvicinava alle dieci e trenta del venerdì mattina, era sempre più difficile evitare di sputare fuori tutta la verità e mandare al diavolo gli ultimi istanti di incertezza.

In quel momento era sul taxi, insieme a John, e stavano andando verso l’ospedale perché lui potesse essere definitivamente sbendato. E questa volta non ci sarebbero state le mani premurose di John e una stanza avvolta dall’oscurità: questa volta dalla finestra sarebbe entrato il giorno e il vetro davanti ai suoi occhi non sarebbe più stato oscurato, lui non avrebbe dovuto cercare una crepa in quella pellicola appannata e avrebbe potuto guardare con tutta la libertà che gli era stata preclusa anni prima.

Certo, sempre che non fosse rimasto irrimediabilmente cieco.

Aveva paura, ma non disse una parola mentre la macchina viaggiava a velocità media nel traffico di Londra. John non ebbe comunque bisogno che lui dicesse nulla, perché gli prese la mano e gliela strinse con una naturalezza che lo lasciò per un attimo perplesso, ma che accettò con tutta la gratitudine di cui era capace.

Non ci volle molto per arrivare all’ospedale e quando scesero dalla macchina Sherlock fece un’unica domanda: « Che ore sono? »

« Le dieci passate da cinque minuti » rispose John con voce ferma, sempre vicino a lui.

Sherlock utilizzò il bastone bianco per salire i gradini ed entrare nel grande atrio, mentre le voci di persone sconosciute li circondavano e riempivano l’aria. Si rese conto di voler disperatamente tornare a vedere: gli mancava poter osservare il mondo a suo piacimento, gli mancava più di qualsiasi altra cosa.

John lo guidò con una mano sul braccio attraverso corridoi e un ascensore. Sherlock aveva appena finito di calcolare i tre piani quando le porte si aprirono e loro scesero assieme ad altri due pazienti che parlavano di cose futili.

La mano di John era sempre sul suo braccio e Sherlock si chiese che cosa avrebbe mai potuto fare se non si fosse trovata lì.

Aspettarono forse un quarto d’ora e i minuti si dilatarono fino a colare come gomma calda e appiccicosa. Riuscì a sentire John deglutire con forza per tre volte e i battiti del cuore gli riempirono improvvisamente la gola impedendogli quasi di respirare.

« Sherlock Holmes? » lo chiamò la voce dell’infermiera all’improvviso. John, seduto accanto a lui, sussultò, ma Sherlock accolse l’arrivo del suo turno con una calma stoica che era ben lungi dal provare.

« Lo accompagno dentro » disse John con voce autorevole e Sherlock si sentì un pochino meglio.

Lo lasciarono entrare con lui e li abbandonarono da soli in attesa del dottor Jones.

Fuori dalle porte si sentivano parole e scalpiccii di persone, infermiere, dottori, pazienti. All’interno della stanza sembrava di soffocare per il silenzio.

« Andrà bene » disse John, e Sherlock sentì le dita dell’uomo tremare con violenza quando si strinsero attorno alla sua spalla.

« Certo » rispose pacato.

Attesero per qualche minuto senza muoversi né dire niente fino a che la porta si aprì e il dottor Jones entrò, richiudendosela alle spalle con uno scatto della serratura indusse Sherlock a irrigidire la mascella in una smorfia di panico.

« Sherlock- » iniziò John rivolto verso di lui.

« Signor Holmes! » esclamò invece il dottore avvicinandosi a grandi passi. Sherlock lo sentì mentre infilava i guanti di gomma. « Spero che sia andato tutto bene in quest’ultimo mese. »

« Bene » rispose Sherlock con voce roca.

« Potrebbe allontanarsi, per favore? » domandò ancora, questa volta rivolto a John.

No, non può allontanarsi, è già stato lontano a sufficienza, pensò Sherlock con disperazione.

Pensò che non poteva aspettare, che voleva fargli capire come sapesse con assoluta certezza, in barba al cinquantasette percento, in barba ad ogni pensiero razionale, logico o sensato, che era lui. Che era sempre stato lui, sin dal primo istante.

« John! » esclamò subito, lasciando scorrere fuori tutto quello che aveva tenuto per sé nelle settimane precedenti. « John, tua sorella ha i capelli scuri ed è più alta di te, i tuoi occhi sono castani, i tuoi capelli sono biondi, ma di un biondo scuro, particolare. Ti piace indossare maglioni dai colori stupidi e la prima volta che ti ho visto è stato durante vacanze di Pasqua del 1997, martedì due aprile a mezzogiorno, nell’aeroporto di Heathrow. Avrei voluto rompere il vetro, ma ero solo un ragazzino e non ho potuto. E non mi importa... non mi importa, perché sei tu il John che ho visto dieci anni fa! Se mai nella mia vita sono stato sicuro di una cosa, è questa. »

La mano di John gli stringeva ancora la spalla e, man mano che la sua bocca sputava fuori tutta la verità, si era stretta ad artiglio attorno alla sua carne quasi che stesse cercando di fondersi con lui.

« Cosa...? » fece il dottore, senza rendersi conto di quello che gli stava succedendo davanti agli occhi.

Entrambi quasi non si resero conto della sua presenza quando John, con un filo di voce spezzata, molto vicino al pianto, disse: « I colori dei miei maglioni non sono stupidi. »

La benda che circondava la testa di Sherlock assorbì le prime lacrime che gli uscirono spontanee dagli occhi ciechi e non riuscì a dire assolutamente niente di sensato per i successivi due minuti: era solo consapevole della straordinarietà di quel momento.

Il dottor Jones – che, come era evidente, ancora non era riuscito a coglierla – aveva altri appuntamenti di cui occuparsi e dunque, senza più curarsi di quei due pazzi che gli avevano invaso l’ambulatorio, decise di procedere a sbendare il ragazzo.

Sherlock lo lasciò fare, ma non scostò mai la testa dalla direzione in cui sapeva trovarsi John.

Teneva gli occhi chiusi man mano che il bendaggio diventava più leggero, fino a che rimase solo l’ultimo velo a separarlo dal resto del mondo. Allora aprì gli occhi di scatto e la luce lo accecò.

Rimase lì, con gli occhi che guardavano il bianco, mentre il dottore gli voltava la testa e osservava dentro le sue pupille.

Sherlock si divincolò con forza quando iniziò a scorgere i contorni delle forme, perché la prima cosa che voleva vedere con i suoi nuovi occhi non era certo la faccia del dottor Jones.

E John era lì, pronto per lasciarsi guardare, pronto ad avvicinare la fronte alla sua fino ad appoggiarvisi completamente e i contorni sfocati divennero forme vere e proprie: le orecchie di John, i capelli corti e biondicci di John, le labbra di John, e gli occhi, gli occhi, gli occhi.

Sherlock li guardava con le palpebre ben aperte, senza rendersi conto di stare ancora piangendo.

« Voglio » disse, ed erano le prime parole di senso compiuto che erano riuscite a superare la barriera confusa e trionfante della sua mente, « voglio passare il resto della mia vita a guardarti negli occhi. »

John gli sbuffò in faccia quello che era a metà tra una risata e un singhiozzo. Solo allora Sherlock si rese conto che erano entrambi incapaci di frenare le lacrime.

 

 

 

 

 

V

 

A volte, nei mesi e negli anni successivi, tanto per passare il tempo quando Sherlock non aveva clienti e la polizia sembrava in grado di farcela da sola, o nelle domeniche di calma piatta, quando Molly o Harriet li andavano a trovare, immaginavano come sarebbe stata la loro vita se non fossero esistiti i Soulmates.

Sherlock si ostinava a dire che John sarebbe stato un ex medico militare con un’incapacità cronica ad adeguarsi alla vita normale e un disordine da stress post traumatico mal diagnosticato.

John definiva Sherlock come un sociopatico iperattivo, sgarbato, dalle strane abitudini, con un cervello sempre in movimento e incapace di instaurare un rapporto sano con le persone che lo circondavano.

Entrambi convenivano che in qualche modo, in quello strano mondo inventato in cui i rapporti si tiravano su giorno dopo giorno e con pazienza, senza improvvisi sguardi tra passanti ignari, si sarebbero incontrati. Avrebbero imparato a risolversi i problemi a vicenda, costruendo tra di loro qualcosa di forte e indissolubile che non avrebbe avuto alcun bisogno di una prima fugace occhiata in un aeroporto e una disperata attesa durata anni, per essere reale.

Ma alla fine erano contenti della vita che avevano imparato a condurre insieme, e quei dieci anni spesi ad aspettare diventavano sempre più leggeri, ogni giorno che passava, finché una mattina arrivarono a capire che, dopotutto, andava bene così.

 

 

 

Note finali:
Bho, niente... è finita! XD

Sinceramente mi sono divertita da morire a scrivere su questo prompt rendendolo da dolce e zuccheroso a drammatico e inquietante. A volte mi faccio paura da sola.

Spero che sia piaciuta, nonostante non fosse proprio classica e i personaggi abbiano preso vita da soli.

Un bacio a tutti e alla prossima,

emme

  
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