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Autore: suzako    14/10/2007    15 recensioni
Robin, Starfire, Raven, Cyborg, Beast Boy. Prima di diventare Titans, quello che erano, quello che non avrebbero mai pensato di essere.
Un anno prima del loro incontro.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Spoiler!
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Robin, Starfire, Raven, Cyborg, Beast Boy. Prima di diventare Titans, quello che erano, quello che non avrebbero mai pensato di essere.

Un anno prima del loro incontro.


Year

Word n° 661#



<< A tutti le unità, ordine di combattimento Athk-0290, ripeto, ordine di combattimento attivato ora! Recuperare il prigioniero! >>

Le truppe si mossero lentamente e difficoltosamente, barcollanti nelle pesanti armature che sbattevano sul terreno molle e fangoso del pianeta rosso. Le echinacee latensis protendevano pigramente i tentacoli violaceii, senza riuscire a catturare nulla più che aria.

<< Kor’nda. Neeya oksahr tech. >>

Non mi troveranno. Sono troppo stupidi.

La ragazza si sollevò a qualche centimetro da terra, scivolando silenziosamente, senza esser vista. I suoi occhi brillavano nella semioscurità.
Un altro plotone le passò di fianco.

<< Okt schelw’ah. >>

E rumorosi.

Doveva trovare un modo per andarsene di lì. Scappare dalla nave di Tamaran non era stato troppo difficile, ma adesso si trovava senza un piano. Non aveva idea di quale fosse il più vicino pianeta abitato né sapeva coordinate per raggiungerlo.
E anche una volta, arrivata, cos’avrebbe potuto…?

Scosse la testa, facendo ondeggiare i lunghi capelli rossi. Inutile pensare solo al peggio. Estrasse il localizzatore planetare. Bene, le truppe si erano allontanate, ancora qualche unità di tempo e sarebbe stata quasi al sicuro. Bastava muoversi con cautela, e…

<< Ciao, sorellina. >>

BlackFire sorrideva, del suo sorriso più ampio e suadente: un ghigno di cui Koriand’r aveva imparato a diffidare.

Era apparsa alle sue spalle, silenziosa come sempre. Non se ne era neanche accorta, e adesso la fissava con aperto stupore, congelata.

<< E’ stata una fortuna che ti abbia trovato io, non è vero? Quei gordiani sembrano davverp poco accomodanti. Ma non ti preoccupare, adesso andrà tutto bene: seguimi… >>

Involontariamente, lei si ritrasse.

<< Cosa vuoi? >>, sibilò, riacquistando controllo di sé.

<< Aiutarti, ovviamente. >>, rispose la sorella, senza la minima esitazione.

Si librò a qualche centimetro da terra, facendole cenno di seguire. E StarFire, come sempre, obbedì.

Le catturarono poco dopo, vicino alla navicella d’emergenza. O meglio, la catturavano. BlackFire riuscì a fuggire, ma sembrava davvero molto, molto dispiaciuta, mentre fuggiva dandole le spalle.
Dopotutto era sua sorella, pensò la ragazza, con un sospiro di frustrazione, mentre la ammanettavano.

StarFire si lasciò trascinare nella cella di detenzione n° 661, tutt’altro che docilmente. E mentre la porta si chiudeva dietro di lei, negandole anche il più piccolo spiraglio di luce, giurò a sé stessa che sarebbe fuggita, a qualsiasi costo, in qualcosa modo.
Dopotutto, voleva solo una cosa.

<< Arhtar. >>

Vivere.


*



<< Ho deciso di andarmene. >>

La stanza era enorme, immersa nell’oscurità.
In un angolo remoto, nel camino brillavano le ultime braci di un fuoco.

<< Mi trasferisco a Jump City. Ho già provveduto a trovarmi un alloggio. >>

Di lui, vedeva solo la schiena, perfettamente dritta. Indossava un completo scuro, e il suo volto era scoperto. Non lo guardava.

<< Parto domattina all’alba. >>

Come ogni volta che non indossava il costume, d’altronde.

<< Non hai intenzione di dire niente, vero? >>

Il tono perfettamente monocorde della sua voce tremò per un secondo, e se Bruce Wayne l’avesse guardato, avrebbe visto la i suoi occhi abbassarsi.

<< Non c’è nulla che debba dirti. >>

Robin strinse i pugni.

<< Certo. Certo, ho capito. Perché tu-

Sentiva la rabbia. Era sempre stata lì, sempre: nascosta, latente, ma comunque presente, e adesso sentiva di non poterla più ignorare, sentiva di detestarlo, detestarlo davvero, e per la prima volta avrebbe voluto scagliarcisi contro, colpirlo, prendere-

<< Non tornare. >>

La sua voce era più cupa, un mormorio basso e profondo.

<< Non accetterò fallimenti. >>

Era la voce del Pipistrello.

<< E’ chiaro, Dick? >>

<< Sì, padre. >>


*



Pioveva. Sottili rivoli di pioggia graffiavano i vetri delle finestre, mentre gli alberi si piegavano al vento sferzante. Doveva far freddo, e poteva immaginarsi che là fuori tutto fosse meno che confortevole. Ma dopotutto, per lui il freddo era solo un ricordo. Esercitò una minima pressione alla maniglia della porta, accorgendosi troppo tardi del terribile errore.

Una piccola luce rossa, piantata di fianco all’interruttore in basso, lampeggiò a intermittenza esattamente tre volte. I sistemi di sicurezza di livello primo si auto-attivarono, e la porta si serrò con lo scatto metallico del doppio chiavistello.

Ghignò. Come se una cosa del genere potesse fermarlo.

<< Dove stai andando, Victor? >>

La voce di suo padre era chiara e limpida, perfettamente udibile. Sembrava quasi che fosse lì, in quella stessa stanza. Ma lui sapeva bene che il suono era portato fino alle sue orecchie solo dagli altoparlanti collocati in pressoché tutte le stanze del laboratorio.

Dalla telecamera esterna numero #661, la tempesta continuava a imperversare.

<< Sono affari miei. >>, borbottò con una smorfia che gli attraversò metà del volto.

<< Desidererei parlarti. >>

<< Me ne frego. >>

<< Voglio solo trovare una soluzione. >>

Non rispose.

<< Quello che è successo è stato un terribile incidente, e credimi, non avrei mai voluto arrivare a tanto – la sua voce scorreva meccanica e fredda – ma è stato necessario. Per salvare la tua vita. Per il tuo bene. >>

Non rispose.

<< Voglio riuscire a risolvere questo problema. Ma ho bisogno del tuo aiuto. Adesso che tua madre non c’è più…

<< Non provare a… >>

<< …Ho bisogno di te anche per questo, per riparare il-

<< Stai zitto! >>


<< Non mettere in mezzo lei. Non sperare di farmi commuovere o qualsiasi altra cazzata avessi in mente. >>

<< Non era ciò che intendevo. >>, la voce non ebbe il minimo tremore.

<< Non mi importa. Sai che ti dico? Non mi importa. Non mi interessa se pensi di potermi riparare come una dannatissima macchina, non mi interessano le idiozie che dici, non mi interessa più niente né di te, né della mamma, né di niente, non mi importa neanche essere un sfottuto mostro! >>

Questa volta, l’autoparlante non rispose.

Victor Stone attraversò la stanza con due ampie falcate, buttò giù la porta con un calcio ben assestato, e uscì.

“Non mi importa niente! Non mi importa di essere diventato un mostro!”

Anche tenendo il cappuccio della felpa calato sul viso, la pioggia gli sferzava il volto.

<< …Patetico… >>

Ma lui non poteva più sentirlo.


*



<< Oh, merda… >>

Un’altra pozzanghera. Un’altra stupida, schifosa, disgustosa pozzanghera. Abbastanza ovvio, tenendo conto che stava piovendo. Di nuovo. Il ragazzo borbottò qualcosa, il volto nascosto e ritratto, camminando rasente ai muri. << Oh, lasciamo perdere. Non devo farmi vedere, non devo assolutamente… >>

Pioveva, faceva freddo, faceva così freddo.

<< Se mi vedono, succederà di nuovo, e non voglio, no… >>

Affondò in un’altra pozza fino alla caviglia, ma neanche se ne accorse.

<< Mi chiameranno di nuovo mostro, non mi va proprio, non mi va… >>

Continuava a borbottare in un’unica, veloce e incomprensibile litania.

Garfliend Logan non aveva casa, e la persona più vicina che aveva ad un genitore aveva recentemente tentato di ucciderlo per prendersi il suo patrimonio. Da lì, la sua forse troppo repentina fuga: si era trovate fra le vie più sporche e strette di Jump City, perso nel labirinto di vicoli e grattacieli schiacciati.
E non trovava via d’uscita.

Si sentì improvvisamente debole, tentennò, qualcosa si frappose fra il suo piede e il terreno, facendolo inciampare: cadde a terra, le ginocchia nel fango.

<< Accidenti… Che fame. >>

C’era una sola cosa che poteva fare.
Alzò lentamente la testa, accertandosi che non ci fosse nessuno intorno a lui. Il vicolo era lungo e stretto, le case a schiera addossate l’una sull’altra, persiane chiuse e perenne tanfo di spazzatura. Involontariamente, si leccò le labbra.

Allentò la presa delle mani (non artigli, mani, non artigli, mani) con un respiro profondo. Non c’era nessuno. Era l’unico modo. Non c’era nessuno. Andava tutto bene, non avrebbe visto nessuno, dopotutto era l’unico modo e doveva vivere doveva perché l’aveva promesso, non c’era niente di male, niente di sbagliato in lui la mamma lo diceva sempre e-

Lasciò andare.

La cosa si mosse, un ringhio basso e soffocato gli sfuggì, fece fatica a tenerla sotto controllo, concentrati, si disse, concentrati, e allora la cosa prese forma, lentamente, dolorosamente.

Un cane. La prima cosa che gli era venuta in mente. Scrollandosi di dosso i cenci sporchi, il segugio di un innaturale colore verde acido si fece largo fra i cassonetti, rovistandone il contenuto.

Come ogni volta, sentila sua coscienza alterarsi e confondersi, come i contorni di una foto che sbiadiscono pian piano… Non sono un animale. Non un animale. Un ragazzo. Non un animale. E mi chiamo… Io, io mi chiamo…

Un rumore improvviso lo fece sobbalzare, un urlo, voci lontane. Riprese forma umana più velocemente che poté, guardandosi attorno, spaventato.

Non era niente. Tutto bene, tutto bene.

<< E tu chi sei? >>

Sussultò, colto di sorpresa. Alzò la testa di scatto, per incontrare gli occhi di una giovane donna con addosso una stretta tuta dai colori sgargianti. Eppure, non sembrava affatto ridicola.

<< I-Io… Tu chi sei? Chi sei? >>

Lei sorrise, di un sorriso immediato e sicuro, che ebbe l’effetto di calmarlo un poco. Non fiutava né paura né rabbia su di lei.

<< Rita. Mi chiamo così. E tu, invece? >>

Io sono… Io… << G-Garfield… Garfield Logan. >>

<< Va bene, Garfield. Che ne dici di venire con me? >>, disse tendendogli la mano.

Lui si ritrasse, sospettoso. Perché avrebbe dovuto fidarsi di lei? Poteva essere un inganno, poteva star cercando di ucciderlo anche lei, poteva esserlo.
Era contro ogni logica e razionalità, ma il ragazzo, pur esitante, strinse quella mano.

<< Vedrai, il Doom Patrol non è niente male, come posto. Starai bene. >>

Non rispose, seguendola docilmente.
Dopotutto, poteva essere quasi certo che in quella città nessun’altro si sarebbe accorto di lui.


*



Azarath, Methrion, Zintos.

L’oscurità era nera e densa in tutte le direzioni, non un suono o un odore, non la minima variazione nell’immobile e buia eternità che la circondava.
Nulla disturbava la sua meditazione, nulla che interrompesse i suoi pensieri.
Le sue labbra scandivano fluide le tre, semplici parole, scolpite a fuoco nella sua mente: un canto dal ritmo regolare e ipnotico, in grado di controllare ogni emozione.

Azarath, Methrion, Zintos.

Nessuno l’avrebbe disturbata. Dopotutto, era sola.

Azarath

Non aveva bisogno di sentire.

Methrion

Non aveva bisogno delle emozioni. Erano solo un fardello inutile.

Zintos

Lei non aveva bisogno di nessuno.

Raven


La materializzazione spirituale dell’Anziano interruppe la sua meditazione. Il sacerdote apparve di fianco a lei, raccolto nella stessa posizione gambe incrociate a mezz’aria, gli occhi chiusi e un’espressione di calma austerità dipinta sul volto.

Qualcosa sta per accadere, un cambiamento sarà necessario.


La ragazza aggrottò impercettibilmente la fronte, senza interrompere l’esercizio.

Quando, maestro?


Per qualche lungo minuto egli non rispose, e lei ebbe quasi l’impressione di aver commesso un errore, chiedendo. Con discrezione, alzò appena la palpebra dell’occhio destro…

<< Immediatamente. Trigon si sta muovendo, e tu non puoi più restare qui. >>

La sua stanza si rimaterializzò intorno a lei.

<< Dove andrò? >>, domandò senza batter ciglio, senza che il suo volto avesse un tremito, all’improvvisa notizia.

<< Il pianeta numero 661 della zone di Zeeothes. Il Globo Azzurro, più comunemente noto come Gea. >>

<< Capisco. >>

<< Tua madre è già stata avvertita. Anche lei sarà trasferita in un luogo più sicuro. Se desideri salutarla… >>

<< Non lo desidero. >>

<< Va bene, Raven. All’alba preparati per il teletrasporto congiunto. E’ necessario, per l’immensa distanza che ci separa dal Punto chiamato “Jump City”. >>

<< Sì. >>

E uscì, lasciandola sola.
La ragazza fece un respiro profondo, riprendendo la propria posizione: trovò il centro del suo io, e-

Raven…

Solo un impercettibile sussurro. E lei sapeva bene a chi apparteneva.
Fu un attimo: le fiamme la circondarono, bruciando la stanza, annerendo l’aria. Fumi densi si alzavano dal terreno, e nel caldo soffocante che le mozzava il respiro, le sembrò quasi di scorgere quattro occhi brillare crudelmente.

<< Tu non sei qui. Non sei qui. >>, sussurrò, serrando gli occhi.

Pensi di riuscire a sfuggirmi, stupida?

<< Tu non sei qui. >>

Arriverà il giorno…

<< A-Azarath… Azarath, Methrion… >>

…Arriverà il giorno, e sarà meraviglioso, figlia mia.

<< Azarath, Methrion… >>

Lo vedrai anche tu, con i miei stessi occhi, vedrai il mondo annegare nel fuoco… << …Zinthos! >>

…E nella disperazione.

La visione sparì. Il fuoco e le fiamme si dissolsero, i contorni sfocarono con esasperante lentezza nella solida familiarità della sua stanza.

Ma Raven sapeva che da qualche parte, sotto la sua pelle, nelle pieghe più profonde della coscienza, lui era lì.

<< Il giorno che vedrà la fine di tutto ciò che è mortale… >>, mormorò lentamente, prima di accasciarsi al suolo.

Se solo qualcuno avesse potuto impedirlo.


* * *



Jump City non era esattamente il posto in cui StarFire si sarebbe mai aspettata di capitare: era il luogo più strano che avesse mai visto, nei suoi numerosi viaggi fra galassie. Era piccola ma caotica, incredibilmente piena, come sul punto di… scoppiare. Trovare tranquillità era impossibile, tutti sembravano confusi quanto lei, ma molto più arrabbiati. Eppure, non aveva visto un solo proiettile di To’chka sparato, nessuno sembrava voler sfogare quella rabbia con l’arte della guerra.
Il cibo aveva consistenza molle e viscida, la maggior parte delle volte aveva sapore insipido e c’erano un sacco di regole su cosa fare e non fare. Anche la loro lingua era confusa, per dire una cosa se ne usava un’altra, le parole si mescolavano fra loro e non significavano mai quel che avrebbero dovuto.
Era tutto così difficile, per lei, e a volte aveva l’impressione di non farcela, di essere nel posto sbagliato. Di essere sbagliata lei.

Eppure, allo stesso modo, c’era qualcosa nel pianeta chiamato Terra che lo rendeva diverso, sì, ma in maniera migliore.

<< Ehi, tutti, siamo tornati! >>

<< Questo yogurt è scaduto, BB. E non vedo il mio tè alla erbe. >>

<< Ma è questo! >>

<< Quella è cannella. >>

<< Oh. Però la mostarda l’ho presa! Star, guarda qui! >>

E c’era una parola che Robin gli aveva insegnato per descrivere tutto quello….br>
<< Ti ringrazio, amico BeastBoy! Vi auguro un gioioso bentornati a casa! >>


Jump City non era troppo diversa da come se l’era immaginata.
Era differente da Gotham. Le vie erano più ampie, più luminose. Non era il regno del Cavaliere Oscuro, e questo perché era la sua, di città. Era cresciuto fra le strutture della Wayne Enterpraise, aveva sempre pensato che il suo posto sarebbe stato quello, al fianco di Batman, sempre fedele a lui, senza mai allontanarsi dalla sua ombra. Era giusto così. Sarebbe stato il minimo, per ciò che aveva fatto per lui, dopo la morte dei suoi genitori. Quando aveva lasciato Gotham, dentro di sé, da qualche parte coltivava l’idea che sarebbe tornato, doveva farlo. Dopotutto, a Jump City non c’era nessuno, per lui, no?

Robin era stato allievo del più grande detective del mondo, e raramente sbagliava.

Ma a volte, non era così spiacevole farlo.


Victor Stone aveva sempre pensato di conoscere quella città troppo bene per amarla in alcun modo. Non era mai riuscito a lasciare da parte i ricordi, i rimpianti, gli sguardi di orrore e fastidio che accoglievano il suo passaggio.
Troppo occupato a compiangere sé stesso, non aveva mai perso tempo a guardare.

“La parte migliore di me è questa, quella umana: io esisto grazie a una macchina, ma non è la macchina il mio essere.”

Certo, aveva sempre bisogno di un pezzo di ricambio ogni tanto, e anche la faccenda della batteria poteva farsi imbarazzante.

Ma, ehi, per casa tua si fa questo ed altro, no?


Se c’era una cosa che Beast Boy non aveva mai particolarmente adorato, era Jump City. Da quanto Mento ed Elasti-Girl l’aveva messo sotto la loro protezione, nel Doom Patrol, tutto era stato diverso, migliore: aveva imparato a difendere la città, l’aveva salvata più di una volta con i proprio ocmpagni.
Ma quello non cambiava il fatto essenziale che la città non aveva salvato lui.
Non aveva dimenticato l’indifferenza e il disprezzo, i vicoli troppo bui e troppo stretti.

<< Problemi. Vicino al ponte, credo c’entri Killer Moth. >>

<< Woha, quanto tempo… Credi dovremmo portargli un regalo? >>

<< Se ha a che fare con un cannone sonico a raggi gamma… Sì. >>

Era la stessa città. Anche se con i Teen Titans, cosa poteva essere cambiato?

Forse… ormai, quel posto freddo e distante, era diventato… Casa.


Non era il genere di luogo che Raven poteva trovare “confortevole”, Jump City.
Era colorata, rumorosa, piena di vita e insopportabilmente vivace: la sua nemesi perfetta, insomma. Ma non era per quello che era stata riluttante e combattere per la città. Non le importava davvero.
Era fuggita per nascondere e domare i propri poteri, e invece li esercitava costantemente tutti i giorni, a volte lasciando anche che i sentimenti interferissero. Un errore imperdonabile, per il quale sapeva avrebbe pagato un caro prezzo.
Ma non riusciva a lasciarli.
Più di una volta, nelle prime silenziose notti alla torre dei Titans, si era ripromessa di partire presto, di andarsene senza una parola. Era per il loro bene, per il bene di tutti: non avrebbero capito, ma non importava.

Eppure, ogni giorno che passava, diventava così difficile farsi la soliao, stanca promessa! Senza accorgersene, le erano diventati più cari di quanto avrebbe dovuto permettere, e non era più in grado di lasciar andare. Anche… Anche nel caso sarebbe arrivato quel giorno.

<< Amica Raven, che piacere vederti! >>

<< Ecco, Rae, dillo che sei d’accordo con me! L’invasione dei ricci di mare è molto meglio di Amore travolgente sull’Orient Express! Non è vero? >>

<< No. >>

<< Crudele! >>

Era a casa, ormai.


* * *


Robin, Starfire, Raven, Cyborg, Beast Boy. Prima di diventare Titans, quello che erano, quello che non avrebbero mai pensato di essere.

E quello che alla fine sono diventati.


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