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Autore: Mayuko    14/10/2007    5 recensioni
{Stardust - Neil Gaiman}
Un giorno cadde, ma non morì.
La trovarono, e banchettarono con lei.
Più d'ogni altra portata, Ella fu il Dolce.
Genere: Drammatico, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Silver Gleam

Cronache di Morte d’un Corpo Celeste

Ridere e fluttuare nel cielo. Le uniche due cose che Fauve amava veramente.

Amava anche sognare.

Sognava dell’incorporea parete dell’Universo, perennemente blu, come i suoi occhi. Lassù non avevano specchi, ma le sue adorate sorelle là accanto le fornivano spesso informazioni sul suo aspetto.

Océane la esaltava parlando delle sue ciocche fiammanti. Ebe era una vita che le faceva notare che anche le sue lentiggini color nocciola brillavano di luce propria. Lilac diceva di avere il suo stesso naso all’insù.

I complimenti le scaldavano il cuore, e, a sua volta, i complimenti che rivolgeva alle sorelle erano finalizzati a scaldare loro il cuore e risplendere e brillare come diamanti.

Non per illuminare ogni cosa gli si parasse davanti o anche anni luce di distanza, come si era messo in testa quell’esibizionista di Sole, che essendo un noto scansafatiche, lasciava sempre le cose a metà, cosicché Luna, che anche gli Asteroidi predicavano come una pettegola decisa a prendere parte a tutti gli eventi più importanti della Storia, doveva illuminare il Pianeta cui faceva da satellite per le dodici ore in cui Sole si dedicava ad altri ammassi gassosi, se voleva persistere nel ficcanasare sui fatti Terrestri.

Figlie della stessa curiosità di Luna, tutte le Stelle, dalle neonate alle eterne giovinette di mezzo millennio, ogni sera della loro vita si affacciavano sopra le curve della madre per sbirciare le lingue di terra che galleggiavano costantemente su quell’acqua che, si diceva, era parecchio salata.

Una stella era la più curiosa di tutte, e Lilac con Ebe ed Océane glielo avevano insegnato quando era solo una mocciosetta dal liscio caschetto color tramonto.

Le sue tre sorelle più vicine le avevano detto che la chiamavano in tanti modi. Per alcuni era la Stella del Mattino, per altri la Prima della Sera. Dicevano che si chiamasse Lucifero o che fosse invece Vespro. No, era Venere stessa! Non era una stella, era troppo brillante! Era allora un pianeta?!

Le raccontarono che un dì al crepuscolo, quando lei non era che una reazione chimica alle loro spalle, Verena, una stella dai riccioli di cromo, decise di lanciarsi anni luce più avanti e, passando, voleva domandare il nome a quella sorella che si era stanziata laggiù, vicino alla Madre.

Ogni settantasei anni Verena ripartiva per il suo breve viaggio, lasciando una scia così luminosa che gli abitanti della Terra la scoprirono, e un signore si ostinò a chiamarla come la sua cometa, cosa che l’aveva irritata non poco. E a quanto pare quell’uomo lo lasciò detto anche ai posteri, poiché oggigiorno alle sorelle lontane, Verena è conosciuta anche come la cometa di Halley.

In questi millenni che Verena ha sempre ripetuto il suo viaggio innumerevoli volte, non risolse mai il suo dubbio, perché quella stella che milita laggiù al fianco destro della madre è ancora un incognita per tutte le altre.

Una sera era la trentamiliardi e millequattroncentocinquantaseiesima volta che Verena partiva alla volta della vera identità di Vespro. Ebe, Lilac ed Océane svegliarono la loro sorellina più giovane non appena il Sole diede le spalle all’Inghilterra.

«Fauve,» le dissero «guarda come Verena si rimbocca le maniche della veste! Guarda come si tira all’indietro i riccioli grigi!»

Fauve aveva allora aperto gli occhi con aria ancora sognante. Aveva schiuso la bocca impastata in uno sbadiglio rumoroso e poi sentì in vento cosmico sferzargli le orecchie.

Non era più al suo posto. Océane non era più alla sua destra, e non c’era nessuna Lilac alla sua sinistra. Ebe non era più alle sue spalle per proteggerla. I loro bagliori e i loro complimenti non c’erano più: niente le poteva scaldare più il cuore. Le loro urla la raggiungevano indistinte.

Verena l’aveva urtata mentre sfrecciava a grande velocità facendola scivolare via dalla sua postazione. Precipitava nel vuoto, nel nero più nero. Centinaia, milioni, miliardi di sorelle appese in alto le scivolavano accanto con i loro bagliori. Aveva appena il tempo di scorgere le loro espressioni turbate e le loro luci argentee, rosse, blu e d’oro colato. Non troppo lontana, Verena lasciava la sua scia alla destra di Luna. E si teneva una mano sulle labbra perlacee, cercando di trattenere le lacrime.

E Fauve gridava e precipitava. Il terrore l’aveva assalita: si sarebbe schiantata sulla Terra e sarebbe diventata niente poco di meno che semplice, banale, fredda pietra. Attraversare gli strati dell’atmosfera terrestre non era una sensazione piacevole: c’era troppo caldo, troppa luce e l’aria era rarefatta.

Vorticava ad una velocità incalcolabile nel cielo limpido e senza nuvole che si rifletteva sull’acqua sottostante. Non appena avesse toccato l’acqua sarebbe annegata e avrebbe scatenato un maremoto. E continuò ad urlare con tutto il fiato che aveva in gola mentre i capelli le frustavano il viso e gli occhi lacrimavano.

A fatica si schermò la faccia con le mani e aprì gli occhi il tanto che le era consentito. Chiazze color seppia, chiazze di verde, chiazze color carbone. Non c’era più il mare sotto di lei.

Esplose urtando la dura terra, un centimetro della sua pelle candida bastò a scavare un cratere dal diametro di un chilometro e altrettanto profondo.

Prima di svenire, l’unica cosa di cui si rese conto fu di avere ancora la sua forma originaria e di non assomigliare affatto ad un freddo sasso. Non si spiegò, e né volle sapere come ciò era possibile. Calò le palpebre livide sui begli occhi color zaffiro e si addormentò brillando di felicità per la sua vita non ancora estinta, ascoltando il battito del suo cuore.

Una strana musica soffiava in sottofondo, trasportata dal vento.

«Dove? Dove l’hai trovata Sorella mia?» disse una voce.

«A ovest, come avevano predetto le tue viscere di lupo, mia adorata Sorella.» rispose una seconda voce.

«Sorelle, guardatela! Brilla ancora! È magnifica!», si aggiunse una terza.

Fauve non aprì gli occhi. Immaginava di essere fra le sue sorelle. Quelle tre voci erano così realistiche! Forse Océane e le altre erano tornate a prenderla. Forse Luna aveva buttato giù Verena e l’aveva castigata per la sua sbadataggine, e poi aveva mandato le sue sorelle per salvarla.

«Si, mie due amate: risplende ancora del suo etereo bagliore. Eppure la trovo così piccola.»

«Effettivamente è parecchio gracilina. Le sue ossa sembrano buche come quelle degli uccelli.»

«Care, probabilmente non avrà più di mezzo secolo…»

«Secondo me ha un lustro!»

«La sua età non conta. Ce la faremo bastare, madame mie.»

«Ma per essere al meglio, Sorella, deve brillare come non mai! Dev’essere fresca come un pesce appena tirato su dall’amo!»

Le cispe agli angoli degli occhi le graffiavano la pelle, e Fauve tenne gli occhi socchiusi, schiuse le labbra e balbettò «S-sorelle mie…»

Sentì mani ruvide carezzargli l’ovale del volto e scendere sul collo. Le mani erano due, quattro, sei. E tutte si fermarono sui suoi seni acerbi.

«Tenetela ferma. Devo essere precisa nell’incisione.»

«Svelta, continuerà a brillare al ricordo delle sue sorelle, non alla vista di tre facce fameliche.»

La strega più vecchia e logora levò l’anziano braccio nell’aria e fece sibilare la lama d’ambrosia.

«So– »

Un liquido argenteo schizzò sulle sue logore guance.

Una mano alzò una morbida pietra grigia che splendeva e pulsava alla fioca luce della stanza. Un’altra mano reggeva una lama ambrata sporca di uno strano olio scuro e appiccicoso color dell’argento colato.

Tre streghe si leccarono le dita unte di quell’effluvio ferreo e bisbigliarono in coro:

«All’eterna gioventù.»

A mio padre, anche se non so se gli darò mai il permesso di leggere ciò che ho scritto.

A mio nonno, perchè mi piace pensare che avrebbe apprezzato la mia dedizione per qualcosa che amo.

A mio cugino, perchè ha dimostrato a tutti che se lo si vuole veramente, non è difficile uscire da un buco nero.

A lui, la mia stella, perchè anche se non lo vedo non vuol dire che non esista o che non stia brillando. Lui c'è e ci sarà sempre.

  
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