Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance
Segui la storia  |       
Autore: Pwhore    27/03/2013    3 recensioni
Quando Gerard aveva diciassette anni successe una cosa che gli cambiò la vita e gli sottrasse il ragazzo che amava più al mondo. Ora, a distanza di anni, decide di tornare indietro e scoprire cos'è successo effettivamente al ragazzo che tanto amava, scomparso in circostanze misteriose e dato per morto da tutta la comunità.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
combattere contro il passato cap12 bozza3 Sentii la cintura fendere velocemente l'aria e incrociai le braccia davanti al volto tenendole più in alto possibile, nella speranza di diminuire l'intensità del contraccolpo; strizzai gli occhi fino a farmi male e mi morsi il labbro, aspettando che il metallo mi entrasse nella carne, cruento e inesorabile, per poi uscire e rientrare ancora e ancora, più violentemente che mai. Trattenni il respiro e udii uno schiocco sonoro, come di qualcosa che si rompeva, e temetti che mi avesse già colpito e frantumato qualche osso, ma l'unica cosa costruttiva che riuscii a fare fu annaspare per un po' d'aria, preparandomi a fronteggiare l'arrivo del dolore, e strizzare gli occhi ancora di più, senza permettere alle lacrime di trovare una via d'uscita da sotto le mie palpebre serrate.
«Gerard!» sussurrò Fin, scuotendomi ripetutamente le spalle, «Gerard, sono io, apri gli occhi per favore».
Sussultai nel sentire la sua voce e mi sentii riempire di speranza nel capire che non se n'era andato abbandonandomi al mio destino per pararsi il culo ma che era rimasto acquattato nel buio e che mi aveva salvato la pelle, nonostante quello che mi aveva attaccato fosse il suo patrigno. Scattai in avanti e mi avvinghiai alla sua felpa, tremando, farfugliando parole di ringraziamento e tirando su col naso, ma lui non si concesse il tempo di ascoltarle e mi tirò su, spingendomi energicamente verso il corridoio.
«Non possiamo restare qui un secondo di più, dobbiamo trovare Alicia e  scappare il più lontano possibile prima che albeggi e lui ci possa trovare» mi ricordò frenetico, lanciandomi uno sguardo di scuse e cominciando a correre a rotta di collo, mosso da un'adrenalina e una paura che raramente avevo visto in un essere umano. Lo seguii a ruota e notai che continuava a girarsi per controllare che il suo cosiddetto papà non ci stesse già alle calcagna, rischiando di cadere in avanti; così accelerai e gli presi la mano, cercando d'infondergli un po' di fiducia in sé stesso. Lui fece un sorriso di circostanza, un disegno di terrore e morte su un viso altrimenti angelico, e imboccò il corridoio di destra, entrando senza bussare in camera della sorella, che si svegliò di soprassalto mentre io irrompevo nel locale e il moro la scuoteva violentemente. «Lui è qui Ali, lui è qui ed è arrabbiato» farfugliò, gli occhi scuri sgranati e infossati nel volto scarno, «l'ho colpito alla nuca con qualcosa di pesante e penso sia ancora svenuto, ma fra poco si sveglierà e quando realizzerà ciò che ho fatto perderà il controllo e finirà l'opera che aveva minacciato d'iniziare. Dobbiamo andarcene, scappare prima che sia troppo tardi, hai capito?».
Il sorriso le morì sulle labbra con un rantolo di terrore e si coprì istintivamente la bocca con le dita, come per scongiurare la remota possibilità che le sue corde vocali potessero emettere qualsiasi suono sgradito; e l'unica cosa a cui riuscii a pensare fu che non mi ero mai reso conto di quanto fossero magre e affusolate in confronto a quelle del fratello. Mi stupii di quanto potessi essere fuori luogo in un frangente del genere e feci una smorfia, affrettandomi a riempire lo zaino che mi aveva passato il ragazzo con delle felpe e degli spray antizanzare che avevo trovato nella libreria della mora, sopra una pila di cd di heavy metal e un libro di fotografia. Alicia uscì dal piccolo bagno adiacente alla sua camera con addosso un paio di jeans pieni di tasche e una giacca a vento scura, infilandosi gli anfibi man mano che barcollava verso di noi, e Fin inforcò la porta, lasciando cadere una bottiglietta d'acqua nella borsa a tracolla che aveva ripescato da sotto i peluche della sorella. Mi chiesi da quanto tempo stessero pianificando la fuga e deglutii, senza sentirmi autorizzato a domandargli alcunché, ma mi limitai a corrergli dietro e spegnermi la luce alle spalle, per non lasciare tracce del nostro passaggio. «Aspetta» mi fermò Alicia, ripiegando sui suoi passi, «lasciamo accesa quella a basso consumo del bagno e spezziamo qualcosa nella serratura di entrambe le stanze, così penserà che ci siamo chiusi lì dentro per sfuggirgli e quando tenterà di aprirla non ci riuscirà, così sarà costretto ad andare a cercare qualcosa per forzare la porta. Se abbocca all'amo, perderà come minimo una decina di minuti prima di mangiare la foglia» ragionò, sistemando velocemente tutto.
«Forza, venite» ci esortò con frequenti cenni del capo il moro, che nel frattempo aveva aperto una porta sul giardino e aveva in mano il telecomando che permetteva l'apertura del gigantesco cancello d'argento, di cui io mi ero completamente dimenticato ma che era un ostacolo a dir poco insormontabile per chiunque fosse poco allenato come me. Disattivò il sistema d'allarme e chiuse la porta, lasciando che fossimo noi i primi a correre verso l'esterno, e con suo grande sgomento percepì dei rumori all'interno della villetta. Colto dal terrore più profondo che avesse mai provato in vita sua, scattò in avanti e ci raggiunse in una manciata di secondi, dicendoci di accelerare il passo e dirigerci verso i boschi il più silenziosamente possibile, e di non parlarci a meno che non fosse strettamente necessario. Annuimmo e continuammo per la nostra strada, ricominciando a respirare solo una volta dopo aver oltrepassato il confine della proprietà, quindi percorremmo altri cinquecento metri e ci fermammo dietro un cespuglio, per riprenderci e darci qualche disposizione. A dispetto di tutte le mie iniziative, non fu Fin a parlare: la sorella ci circondò le spalle con le braccia e ci avvicinò, guardandoci negli occhi mentre riprendeva il controllo dei suoi muscoli, e prima che uno di noi potesse anche solo pensare di aprir bocca, ce le tappò con una mano e ce le tenne bloccate. La morbidezza della sua pelle bianca era in contrasto con il suo sguardo affilato e pungente, ma non ebbi tempo di pensarci perché lei annuì tra sé e sé, s'inumidì le labbra con la lingua e cominciò ad esporci il suo piano, senza tralasciare alcun dettaglio.


Steve si strizzò gli occhi fra le dita, seccato, e continuò a misurare il perimetro della cella a grandi falcate, interrompendosi ogni tanto per emettere uno sbuffo nervoso e massaggiarsi la nuca, riflettendo sul da farsi. Era bloccato in centrale e aveva appena dovuto fronteggiare una specie d'interrogatorio preliminare, consistente solo nei fatti essenziali per la compilazione della sua scheda di detenuto e per incastrarlo lì per un altro paio d'ore, finché i suoi non fossero arrivati per discutere con le guardie e tirarlo fuori. Suo padre avrebbe salutato l'agente con un pacifico e neutrale buongiorno e sua madre avrebbe sfoderato il suo sorriso più smagliante, tendendogli la mano in segno di fiducia e riservando al figlio la sua peggiore occhiata alla 'dopo te la vedrai con me, signorino', tornando poi a concentrarsi col poliziotto per trasmettergli tutta la positività possibile. Si sarebbe schiarita la gola quasi impercettibilmente e si sarebbe aggiustata la borsa firmata sulla spalla, tenendola ferma con un gesto delicato della mano che agli occhi meno allenati sarebbe potuto sembrare casuale, e avrebbe spostato il peso dal piede destro a quello sinistro, senza però dar alcun segno d'impazienza o frenesia. Suo padre si sarebbe levato gli occhiali, avrebbe tirato fuori un pezzo di stoffa dalla tasca e gli avrebbe dato una pulita superficiale, senza staccare lo sguardo da loro, per far pensare al poliziotto che andava tutto bene e che non c'era motivo di credere che suo figlio, il ragazzo intelligente ed educato che aveva cresciuto con tanta premurosità, potesse realmente essere un criminale, o tuttalpiù un complice. Ma allora dov'erano adesso?
Riprese a percorrere la stanza in lungo e in largo, contando le piastrelle del pavimento e il numero delle sbarre, si sedette sul letto scomodo che veniva messo a disposizione di chiunque fosse sospettato di qualcosa e si prese la testa fra le mani, massaggiandosi le tempie con gesti lenti e regolari. Aveva telefonato alla sua ragazza quando gli avevano concesso la sua chiamata libera, ma ci aveva pensato la polizia ad avvertire i suoi genitori e a dir loro di venire a trovarlo in centrale, chissà che magari a loro non si aprisse, confessando di aver mandato in coma il suo migliore amico. Non trovava motivazioni valide per cui avrebbe dovuto farlo, ma era perfettamente conscio del fatto che nel mondo degli adulti bastasse una semplice gelosia per far credere a un'intera giuria che in realtà loro non erano gli amiconi che volevano far credere, ma due persone che si detestavano vivamente e che altrettanto vivamente cercavano di ferirsi l'un l'altra, senza risparmiarsi alcun colpo basso. Sputò a terra e si sentì intrappolato da quelle mura, così fini eppure così insormontabili, e cercò di calmarsi ripetendo tra sé e sé gli elementi della tavola periodica, che gli insegnanti lo avevano costretto ad imparare a memoria quando avevano cominciato a studiare chimica e a fare esperimenti, qualche anno prima del suo diploma e del conseguente abbandono delle materie scientifiche di quel tipo. Non aveva nulla contro la scienza, anzi era convinto che fosse una delle poche benedizioni dell'era in cui viveva, quando veniva utilizzata per degli scopi utili, di cui potevano beneficiare centinaia di altre persone; ma la chimica semplicemente non faceva per lui. Meglio i computer, meglio la matematica, meglio la certezza che a tutto c'è sempre una risposta e la piacevole distanza che studiare questi argomenti porta a chiunque provi ad immergervisi per più di qualche secondo, spinto da qualcosa di più di un desiderio di ottenere un bel voto da parte di quel prof che si aspetta sempre troppo dai suoi alunni e che inevitabilmente finisce con mettere dei votacci a tutti perché non riescono a soddisfare le sue aspettative. No, a lui piaceva la scienza, ma gli piaceva praticarla in completa autonomia, senza esser costretto a spiegare il perché di ogni sua decisione a qualcuno che tanto avrebbe fatto qualunque cosa tranne cercare di venirgli incontro e seguire i suoi ragionamenti passo dopo passo; e per questo motivo era capitato che fosse sbattuto fuori da club o associazioni specializzate più che spesso.
«Ma questo è completamente irrilevante» mormorò il ragazzo fra sé e sé, alla ricerca delle accuse che avrebbero potuto rivolgergli per incolparlo dell'incidente, «la mia socialità riguarda me e solo me e non possono cavarne fuori niente, per quanto possano provarci. Solo perché non amo stare in mezzo alle persone quando lavoro non significa che sia affetto da un qualche disturbo della personalità che mi porta ad uccidere - o in questo caso tentare - le poche anime che mi stanno accanto da quando sono piccolo. Non sta né in cielo né in terra, chiunque abbia studiato un minimo lo capirebbe». Si sentì un po' più al sicuro.
«E anche se fosse, non ho mai dato segni di soffrire di una patologia del genere - non più degli altri ragazzi della mia età, almeno - quindi non avrebbero neanche le basi complete su cui accusarmi» commentò.
«No, non possono trattenermi per questo. Possono provarci ma è una storia che non regge minimamente, non gli farebbe guadagnare neanche un pugno di minuti se venisse portata davanti a un tribunale. Ma che dico, anche un qualunque passante si renderebbe conto del fatto che stanno accusando un ragazzo comunissimo di soffrire di una qualche malattia mentale solo perché gli torna comodo al momento visto che non hanno altri sospetti; non ho nulla da temere». Sorrise. Forse le cose avevano finalmente cominciato ad andare per il verso giusto per lui e i suoi amici.
Il ripetersi del suo nome da parte di una voce roca e man mano meno distante lo riportò alla realtà, giusto in tempo per girarsi e incrociare lo sguardo dell'uomo che l'aveva sbattuto lì dentro un paio d'ore prima, dopo che era stato accolto all'ospedale da un paio d'infermiere terrorizzate e una manciata di dottori dagli sguardi tanto sospettosi quanto il numero di spike dell'amico. A nulla erano valse le sue proteste e le sue spiegazioni, la polizia era stata chiamata e con lei quel detective, che per puro caso invece di trovarsi nel suo appartamento nella città vicina si trovava in macchina a gironzolare nei pressi della statale ed era
quindi riuscito ad arrivare in tempo quasi reale per gli standard del loro piccolo paesino. Steve era rimasto stupito dall'arrivo di uno straniero ma non l'aveva dato a vedere minimamente; si era limitato a scrollare le spalle, storcere la bocca e osservarlo il più attentamente possibile mentre quello si faceva riassumere la situazione dai medici, che ogni tanto gli lanciavano delle occhiate diffidenti e preoccupate da dietro la schiena del poliziotto. Lui aveva annuito varie volte, sempre mantenendo il silenzio, aveva tirato fuori un involucro dalla tasca da cui aveva tratto delle sigarette e l'aveva rimesso a posto, tenendo lo sguardo fisso verso i volti degli interlocutori; poi, mentre il più capelluto dei tre elencava energicamente i particolari della faccenda che lo inquietavano maggiormente e l'avevano convinto a fare quella telefonata, si era portato una stecca alla bocca e aveva smesso di distrarsi. Aveva ascoltato in religioso silenzio fino alla fine, immobile, aveva ringraziato i dottori e li aveva guardati allontanarsi, sotto suo consiglio, dalla saletta dove si trovava ancora il sospettato, che lo osservava interessato senza scomporsi. Si era acceso la sigaretta mentre si girava, lentamente, aveva messo l'accendino in tasca, aveva inspirato e poi espirato, ma non aveva ancora aperto gli occhi e guardato l'avversario in faccia. Steve aveva pensato che fosse uno nuovo, qualcuno d'importante che si credeva chissà chi, e aveva trovato irritante quella sua maniera di comportarsi così arrogantemente lenta e tranquilla, quasi si trattasse di una faccenda che non valeva nemmeno la pena ascoltare; e per un paio d'istanti aveva pensato di dargli del filo da torcere giusto per il gusto di vederlo sguazzare nella sua stessa impotenza, poi aveva scosso il capo e l'idea era semplicemente scomparsa. Voleva essere rilasciato, non attirare l'attenzione dell'intero corpo di polizia su di sé, quindi avrebbe dovuto rigar dritto e rispondere alle domande del detective, fingendo non solo di fidarsi di lui, ma anche di stimarlo e, chessò, credere che avrebbe potuto davvero risolvere questo mistero rimasto abbandonato per oltre sei anni, come se il primo venuto avesse davvero potuto cambiare qualche carta in tavola.
«Ciao» gli aveva detto, e Steve si era sentito decisamente sminuito.
«Ciao» aveva risposto, facendo bene attenzione a ricambiare il tono dell'altro.
«I dottori qui mi dicono che il tuo amico è in coma» aveva cominciato indicando il reparto con un dito, e Steve aveva annuito, senza aggiungere nient'altro. «Non voglio cominciare col piede sbagliato, ma mi spieghi com'è possibile?»
Steve lo fulminò mentalmente.
«Non sono un dottore, ma una bella botta dovrebbe bastare».
«Una botta esageratamente forte, ad essere precisi. Non vorrei essere nei suoi panni» aveva proseguito, prendendo la sigaretta tra le dita e storcendo un attimo le labbra in una smorfia che avrebbe dovuto divertire il castano. Non lo fece.
«Sei shoccato?» aveva domandato; 'che domanda cretina' aveva pensato l'altro, che invece aveva solo annuito lentamente.
«È il mio migliore amico, non vedo come potrei non esserlo» aveva mormorato, respirando a fondo senza scomporsi. «Ma se lei è qui significa che qualcuno mi crede responsabile di qualcosa, o sbaglio?»
«Non sbagli» aveva sorriso il poliziotto, inspirando, «quindi dovrò farti qualche domanda».
«Faccia pure, non ho niente da nascondere» aveva ribattuto, guardandolo negli occhi.
«Allora non ti dispiacerà salire in macchina e seguirmi in centrale» aveva espirato l'altro con uno scintillio negli occhi, aprendo le braccia per indicargli l'uscita e sottolineando il gesto con un movimento del capo. «Da questa parte» aveva aggiunto poi, come per rendere le cose un po' più ufficiali. Steve non aveva battuto ciglio e aveva risposto il più esaurientemente possibile a tutte le domande che gli erano state poste riguardo le circostanze dell'incidente, del ritrovamento e del successivo ricovero, e il poliziotto si era mostrato leggermente preso alla sprovvista da questa sua partecipazione attiva e accondiscendente, abituato com'era a trattare con gente che negava anche quando veniva sbattuta in carcere dopo un regolare processo. Lo aveva ringraziato, gli aveva stretto la mano, gli aveva detto che avrebbe potuto fare una telefonata a chi voleva e che in successione avrebbero chiamato i suoi genitori per informarli dell'accaduto e scagionare la possibilità che loro figlio fosse coinvolto in una brutta situazione di qualunque tipo, poi l'aveva pregato di rimanere in cella ad aspettare che arrivassero e se n'era andato tranquillamente.
'E ora eccolo qua' pensò Steve, per niente contento di dover vedere la sua faccia malrasata piuttosto che quella dei suoi genitori.
«Ehilà» lo salutò l'uomo, stavolta senza che ci fosse una sigaretta a pendergli dalle labbra.
«Ehilà» salutò a sua volta il ragazzo, senza smettere di ripetere gli elementi della tavola periodica in maniera meccanica.
«Come ti senti?» domandò il primo, appoggiandosi alle sbarre con il fianco destro. Steve si domandò se gliel'avesse chiesto davvero o se fosse stato uno scherzo della sua mente, che aveva cominciato a sottovalutarlo da quando gli si era presentato.
«Come uno il cui migliore amico è appena finito in coma e l'unica cosa a cui gli altri pensano sia come addossargli la colpa per quello che è successo. Come se non lo facessi già abbastanza da solo» rispose, amareggiato, e il poliziotto annuì.
«Già, non dev'essere una bella situazione» convenne, lasciando che la conversazione morisse per un paio di minuti prima di riprenderne le redini; «senti, qui fuori ci sono i tuoi genitori, te la senti di vederli o vuoi che li faccia tornare più tardi?»
«Nono, va bene, non si preoccupi. Prima questo casino finisce, prima potrò andare a visitare Jimmy e portare le mie condoglianze alla sua famiglia; vorrei evitare di trovarmi faccia a faccia con loro dopo che lui si sarà svegliato con il 'mi dispiace' ancora in gola, ci farei la figura del cafone insensibile che abbandona gli amici nel momento del bisogno» cercò di sdrammatizzare. L'altro sorrise.
«D'accordo; li faccio accomodare allora» annuì, andando ad aprire la porta ai due coniugi, che ringraziarono con uno dei loro più convincenti sorrisi di circostanza e un cenno del mento, prima di entrare e salutare il figlio.
«Allora, agente, cos'ha combinato di strano stavolta?» cinguettò sua madre, girandosi verso l'uomo in divisa con civetteria.
O almeno, questo è quello che avrebbe detto se fosse stata lì.
Steve si premette i pugni contro la fronte, le tempie che gli pulsavano sotto il ritmo accelerato dell'inquietudine, e strizzò gli occhi finché non ricominciò a vedere delle macchie di colore stagliarsi contro il nero che si faceva strada tra i suoi pensieri, sentendosi istantaneamente un po' meno solo. Era lì da ore e non si era fatto vivo nessuno, né sua madre, né suo padre, né Lindsey. Figurarsi, poi, le aveva detto lui di non venire e tenersi sulle sue per un po' di tempo per il bene di tutto il gruppo, ma non aveva calcolato quanto potesse essere opprimente il silenzio per chi aspetta di essere messo a nudo e smontato pezzo per pezzo da un agente di polizia. Sentiva i suoi nervi allentarsi e annodarsi sempre di più man mano che il tempo passava, e a volte gli sembrava di perdere completamente la lucidità per un tempo che gli sembrava eterno, anche se poi si rivelava essere solo qualche secondo nel mondo reale; e aveva paura di non poter sostenere un interrogatorio in quelle condizioni. Sapeva che era esattamente ciò che il detective voleva si dicesse, quindi ripeteva fra sé e sé la sua versione dei fatti e rispondeva a tutte le domande immaginarie che riusciva a porsi al riguardo, sospirando sollevato ogni volta che eludeva un pericolo, e si tranquillizzava pensando a tutti gli interrogatori che aveva visto in tv o nei film fino a quel momento. Non sembravano troppo duri e la cosa lo riempiva di fiducia, ma d'altra parte neanche l'attesa sembrava poi così tremenda, mentre lui in quel momento avrebbe potuto palpare la tensione e plasmarla come più gli piaceva senza il minimo bisogno d'immaginazione. Si asciugò il sudore e sentì una serratura scattare; alzò il viso in direzione del rumore e si chiese se non stesse per rivivere per l'ennesima volta la scena dell'arrivo dei suoi genitori, ma ciò che vide gli fece passare lo sconforto: non erano né i suoi genitori né il poliziotto che l'aveva interrogato, era la donna delle pulizie che passava di lì per lavare i pavimenti anche in quell'area dell'edificio. Notò che Steve la stava fissando e si avvicinò.
«E tu che cosa hai fatto?» chiese indicandolo senza mezzi termini, appoggiandosi con entrambe le mani al manico della scopa.
«Ho accompagnato un mio amico all'ospedale dopo un incidente su in montagna» rispose lui, riabbassando lo sguardo.
«Non mi sembra poi così grave. Sei sicuro che non ci fosse dell'altro?»
«Be', era in coma» commentò storcendo la bocca, come se fosse accaduto a qualcun altro e non a lui qualche ora prima.
«Ma è terribile, mi dispiace» fece la donna, coprendosi la bocca con le dita, «e pensano che tu sia colpevole?»
Steve si chiese se potesse fidarsi, poi si disse che sarebbe comunque venuta a saperlo da qualcuno e annuì per cortesia. Lei parve sinceramente indignata e gli lanciò un'altra occhiata compassionevole, prima di storcere le labbra e sospirare.
«Io non posso di certo farti uscire, ma non penso che tu debba stare qui se l'hai solo aiutato».
«Il detective dice la stessa cosa, e che questa è solo la procedura» le confidò, giocherellando con i suoi capelli.
«Può anche darsi; ma dammi retta, non è come sembra. Oltre il muro, può esserci qualsiasi cosa» lo avvisò, riprendendo a pulire. Steve la guardò e si chiese cosa intendesse, ma la porta si aprì di scatto prima che potesse arrivare a una conclusione che riuscisse a soddisfarlo, lasciando spazio al poliziotto, così fu costretto a pensare ad altro e concentrarsi su di lui.
«Ehilà» lo salutò l'uomo, aprendo la cella «devi venire un attimo con me. Ci sono i tuoi».
Steve annuì e lo seguì docilmente, voltandosi sull'uscio per vedere se la donna lo stesse osservando, ma il suo sguardo incontrò il vuoto. Un'altra allucinazione. Scosse il capo e chiuse la porta.


Quando ci separammo eravamo usciti dalla loro proprietà da meno di quattro minuti scarsi, sebbene a tutti sembrava fosse passata un'eternità, e non ci fu esitazione da parte di nessuno quando venne il momento di tirar fuori le torce, abbracciarci e proseguire io e il moro verso sud-est, lei verso sud-ovest. Fu un saluto spiccio ma mi sentii male nel vedere quanto significasse per i due fratelli, che dopotutto scappavano da quello che sarebbe dovuto essere il loro salvatore e che avrebbe dovuto garantir loro non solo un'esistenza migliore, ma anche affetto, appoggio e tutto quello che un padre dovrebbe rappresentare per i figli. Mi ripromisi di essere più presente nelle loro vite, in futuro, poi scacciai quell'immagine dalla mente e mi concentrai sulla fuga, dalla quale sarebbe dipeso il resto della mia esistenza.
Dalla villa non si sentivano rumori, ma anche se ce ne fossero stati non saremmo stati in grado di udirli, impegnati com'eravamo a correre in mezzo agli arbusti cercando di non inciampare rovinosamente e di non strapparci i vestiti nelle piante spinose, visto che un frammento di stoffa avrebbe potuto indirizzarlo verso di noi e rovinare tutto il nostro piano in un batter d'occhio. Le foglie scricchiolavano sotto i nostri piedi barcollanti, mentre al buio i sentieri che avevo percorso due giorni prima mi sembravano diversi e pieni di intemperie, al punto che non riuscivo a non domandarmi come avessi fatto ad attraversarli la prima volta; ma nonostante tutto continuavamo a correre, senza avere la forza d'animo di scambiare qualche parola. Ci fermammo quando raggiungemmo uno spiazzo ombroso che ci parve lontano abbastanza dalla villa e ci accasciammo dietro un masso colorato dal muschio, ansimanti e terrorizzati. Il sangue che mi pompava nelle tempie e lo stomaco sottosopra, trattenni il respiro per cercare di stabilizzarlo e mi concentrai su quello di Fin, che mi sembrava molto più silenzioso e normale, socchiudendo gli occhi. Solo allora mi accorsi di quanto mi bruciassero sia loro che la faccia e mi portai una mano alla guancia, bagnata da quello che sperai fosse solo sudore; mi voltai ad osservare il moro e mi accorsi che anche lui era nella mia stessa situazione: visibilmente spossato, tremante e spaesato, eppure ancora vigile e attento ai dettagli, come se non avesse corso per niente. Fu lui ad accorgersi dei rumori.
Mi si avvicinò, si fece il più piccolo possibile e rimase in ascolto, premendomi una mano sulle labbra e facendo lo stesso sulle sue, e aspettò, deglutendo, che la tempesta si scatenasse e c'investisse in pieno, senza cercare di alzarsi e riprendere a correre. Lo sentii fremere e, se possibile, rimpicciolire ancora di più, ma tenne gli occhi aperti e serrò la mascella, deciso ad andare fino in fondo nel combattere le sue paure. Lo scalpiccio affannato si fece più vicino e Fin tremò più violentemente, ma con altrettanta decisione non staccò la mano dal mio viso e continuò a stringere i denti, facendo appello a tutto il suo coraggio e la sua convinzione per non scoppiare in un urlo disperato e consegnarci nelle mani del suo patrigno, che ormai potevo scorgere sporgendomi oltre la zona sicura. Non riuscivo a vederlo in faccia e non avevo voglia di espormi una seconda volta per controllare quanto profondamente fosse incazzato per ciò che gli avevamo fatto e che eravamo riusciti ad architettare nel giro di pochi minuti, ma sentivo nella pelle che se ci avesse notati sarebbe stata la fine per ognuno di noi, nel senso più significativo della parola, quindi mi rintanavo anche io contro il moro, sperando con tutte le mie forze che ci superasse senza intoppi. Il suo passo sincopato si fece vicinissimo e si fermò di colpo, seguito da un ansimare intenso e irato, e in quell'istante il mio cuore smise di battere, mentre i più bei momenti della mia vita mi martellavano la mente, sovrapponendosi alle delusioni e alle amarezze che ero stato costretto a mandare giù nel corso dei miei ventitré anni, e mi domandai per la prima volta se fossi pronto a morire. Pensai a me, pensai alla mia famiglia, pensai ai miei amici, pensai al mio ragazzo scomparso, che mai avrebbe voluto che scomparissi dalla faccia del pianeta, e realizzai che no, non era ancora giunta la mia ora, che volevo continuare a vivere e godermi ogni giorno, e mi sentii più all'erta che mai, come se un'improvvisa scarica di energia mi avesse attraversato il corpo. Rimasi immobile finché la sagoma non riprese a muoversi, recuperato il fiato e scorto superficialmente il paesaggio, superandoci lentamente, dopo essersi guardata attorno e aver strizzato gli occhi in seguito a una folata di vento nella nostra direzione. Ramsey si era avvicinato un paio di metri, poi una folata proveniente dall'altra parte dello spazio aperto lo aveva distratto e dirottato verso un altro percorso, più o meno verso nord-est, lontano sia da noi che dalla nostra amica. Avevamo tirato un tacito sospiro di sollievo e avevo stretto la mano del moro, che aveva sorriso di un misto tra gioia, paura e soddisfazione e si era lasciato scivolare con la testa in mezzo all'erba, coccolato dalla vista delle sue amate stelle. Aspettammo cinque minuti prima di permetterci di uscire dalla nostra zona sicura per lanciare un'occhiata intorno e controllare di avere campo libero, e quando fummo tranquilli riprendemmo ad allontanarci un po' più verso ovest, camminando all'inizio e correndo alla fine, una volta sicuri di non doverci più preoccupare del rumore del sottobosco sotto le nostre scarpe. Corremmo per quelli che a me parvero chilometri e, chi lo sa, forse lo furono. Sbucammo in un sentiero di uso più comune su cui potevamo scorgere impronte di varia grandezza e diffusione, e procedemmo ai lati, in modo da poterci nascondere nella vegetazione rigogliosa in caso di bisogno ma di rimanere comunque abbastanza vicini a una strada non trafficata, ma che alla civiltà forse ci avrebbe portati; e ci sforzammo di mantenere il silenzio, nonostante le scariche d'adrenalina che ci inducevano a pensare che il grosso ormai era fatto e che potevamo anche cominciare a rilassarci ed allentare un po' la tensione, perché al pericolo maggiore eravamo bell'e scampati; e gli attacchi di realismo, che invece ci facevano realizzare il rischio che avevamo corso e che ancora correvamo, e che ci facevamo quindi dubitare delle nostre possibilità di sopravvivenza.
Nonostante tutto, riuscimmo a sbucare nei pressi di una baita disabitata che mi sembrò di riconoscere, ma, quand'eravamo sul punto d'entrare, il pensiero di un'imboscata mi attraversò la mente e mi portò a trascinare il moro lontano dall'abitazione di peso, costringendolo a tornare in mezzo all'erba. Fin si sforzava di sorridermi quando lo guardavo, ma gli si leggeva in faccia che era esausto e che non ci sarebbe voluto molto prima che le gambe gli cedessero e gli impedissero di proseguire; così sfruttavamo gli ultimi guizzi di energia che avevamo e correvamo lungo la strada, sforzandoci di arrivare il più lontano possibile senza lasciare tracce troppo evidenti. Stavamo per imboccare la curva quando intravedemmo due fari in una lontananza sempre più vicina, così ci buttammo di lato e rotolammo nel sottobosco, terrorizzati quanto lo eravamo stati fino a qualche ora prima. Già, perché ormai che ore dovevano essere? Fin si accasciò contro un albero e lasciò ciondolare la testa in avanti, distrutto; raccolsi qualche ramo da terra, ne strappai qualcuno da un albero e glieli disposi sopra con delicatezza, cercando di mimetizzarlo nel miglior modo possibile, poi mi sistemai accanto a lui e ripetei lo stesso processo per me, addormentandomi pochi secondi dopo aver chiuso gli occhi.


«Avete visto anche voi quello che ho visto io?» boccheggiò Columbia dalla sua sedia, gli occhi sbarrati fissi sulla massa scura rivolta davanti al roscio, che si confondeva con l'oscurità e faticava a immaginare come un uomo.
«Ti prego, dimmi che questo coso ha registrato quello che è appena successo» sussurrò invece Lindsey, bianca come un cencio.
«Non ne ho la minima idea, ma anche se l'avesse fatto non potremmo denunciarlo» la premonì Ray, mettendole una mano sulla spalla, «a meno di non voler venir denunciati anche noi per aver invaso la sua privacy con una telecamera non autorizzata».
«Cioè noi sappiamo che quell'uomo è un pericolo pubblico e non possiamo dirlo a nessuno?» ripeté lei.
«Per quanto possa far schifo, è così» annuì il riccio, storcendo le labbra e incrociando le labbra sul petto, amareggiato.
«Che mondo di merda, cazzo» esclamò, scattando in piedi e andando a tirare un calcio al suo cuscino, sedendosi poi sul letto improvvisato stringendosi la testa fra le mani. «E se fossero morti? Se fosse successo qualcosa? Come avremmo fatto?».
Ray si alzò dalla sua postazione e la raggiunse, mettendole un braccio attorno alle spalle.
«Shh, calma, non importa. Quello che conta ora è che stanno bene e che hanno un piano per tirarsi fuori da questo casino prima dell'alba, okay? Il resto non è importante, ci penseremo dopo. Andrà tutto bene, non preoccuparti. Troveremo il modo di denunciare quel bastardo, ma ora Gerard ha bisogno di te come non mai, e ha bisogno di saperti al massimo delle tue forze per poter portare a termine la missione senza ulteriori preoccupazioni. Ha bisogno di sapere che qui va tutto bene, che siamo pronti ad aiutarlo e a parargli il culo in caso di bisogno, e che anche se a volte i cattivi vincono, i buoni sono sempre pronti a tornare in campo e dargli un paio di calci nel sedere. Andrà tutto bene, ma abbiamo bisogno di te ora» sussurrò, accarezzandole i capelli. Lei sorrise.
«Hai ragione come al solito» commentò, asciugandosi gli occhi con la manica e rimettendosi alla sua postazione tirando su col naso, «e vedremo quanti calci in culo questo stronzo potrà sopportare, prima di arrendersi e tornarsene a casa».
«Secondo me tanti quanti vorresti tu» li interruppe la riccia, che indicò un punto sullo schermo, «guarda». Le luci all'interno della casa si erano accese, mentre i tre ragazzi erano intenti a parlottare, e la silhouette del patrigno si era stagliata davanti alla finestra del corridoio più di una volta, carica di oggetti sempre differenti, e ogni tanto si passava una mano fra i capelli, sfiorandosi quella che la ragazza immaginò dovesse essere la ferita. L'omaccione non sembrava intenzionato a fermarsi prima di aver portato a compimento la sua opera e Lindsey si sentì invadere da un senso di ammirazione nei confronti del lampo di genio di Alicia, che evidentemente aveva progettato tutto da tempo, vista la rapidità con cui aveva preparato le borse.
«Oddio guarda, si stanno separando» si angosciò Columbia, stringendo forte la manica dell'amica, «mi sento male per loro».
«Vedrai che ce la faranno, sono persone intelligenti e pronte a tutto» la tranquillizzò l'amica, che tuttavia condivideva le sue ansie e si domandava come sarebbe andata a finire la faccenda, «e poi hai visto com'erano decisi, non si fermeranno davanti a nulla».
«È proprio questo che mi spaventa» squittì lei, «sono ragazzi in fuga perseguitati da un possibile assassino, non hanno né cibo né acqua e stanno correndo a rotta di collo dentro un bosco pieno di pericoli che sembra tutto uguale albero dopo albero».
«Su una cosa ti sbagli, non è tutto uguale» intervenne Ray, che nel frattempo era tornato alla sua postazione e stava osservando con minuziosa attenzione il paesaggio, confrontandolo con delle foto, «infatti penso di aver appena riconosciuto la loro posizione».
Columbia s'illuminò.
«Dici davvero?»
«Non ne sono sicuro al cento per cento, ma direi che vale la pena provare» annuì lui, allontanandosi dallo schermo per permettere alle ragazze di individuare il punto sulla mappa, «anche perché se non lo facciamo potrebbero vedersela molto brutta».
«Aspetta, e quando li troviamo cosa facciamo?»
«Be', li portiamo alla base, mi sembra ovvio» rispose aggrottando le sopracciglia.
«No, vabbé, questo è sottinteso, ma non possiamo tenerli qui per sempre, non abbiamo abbastanza soldi, cibarie e letti. Possiamo anche organizzarci e prepararne qualcun altro, e magari qualcuno può anche andare a fare la spesa di tasca sua, ma non possiamo tenerli rinchiusi sottoterra fino alla fine dei loro giorni, qualcuno verrà a cercarli o potrebbe insospettirci non vedendoci» lo incalzò.
«Columbia ha ragione, il nostro piano ha delle falle» convenne la bionda, «ma d'altra parte, che altro possiamo fare?»
«Io potrei portare Alicia a casa mia e spacciarla per una mia vecchia amica che ho conosciuto durante un viaggio, dubito che a mia madre possa venire in mente che sia una fuggitiva ricercata da un possibile assassino» propose la prima, «però metti che quello si crea una storia e viene a sporgere denuncia in città - a quel punto che facciamo?»
«Okay, okay, ho capito, dobbiamo rivedere seriamente i nostri progetti» acconsentì Ray, calmandole con un gesto delle mani.
«Ma non ora; non ne abbiamo il tempo materiale» precisò, lanciando un'occhiata allo schermo, dove il roscio si era fermato ed accasciato contro una roccia muschiosa, in un paesaggio ancora più brullo e desolato. Lindsey tacque e si avvicinò.
«Questo posto lo conosco» mormorò corrugando la fronte e poi allontanandosi, «è a nord dello chalet».
«Aspetta, che cos'è quello?» la bloccò Columbia, indicando con un dito una sagoma in avvicinamento.
«Non ci credo, come diavolo ha fatto a trovarli?» boccheggiò Lindsey, colta alla sprovvista.
«Non ne ho idea, ma non posso aspettare un minuto di più» esclamò la riccia, schizzando in piedi e correndo verso la scaletta, estraendo le chiavi dalla tasca.
«Columbia, aspetta; è pericoloso» esclamò Ray, facendo per alzarsi, ma la bionda gli serrò una mano sul braccio e scosse il capo.
«Lasciala andare, ha ragione» sussurrò, sentendola armeggiare con la serratura e aprire il portellone.
«Fammi almeno andare con lei» insistette il ragazzo, sentendosi completamente inutile, «metti che succeda qualcosa, metti che il motore si rompa, metti che incontri traffico e si annoi ad aspettare da sola, metti che--».
«Se dovesse succedere qualcosa, la tua presenza lì non potrebbe cambiar nulla, mentre invece qui la differenza la faresti» ribatté.
Il portellone si chiuse violentemente e l'impatto fece sobbalzare il riccio, che ingoiò un nodo alla gola e rilassò i muscoli, sospirando.
«D'accordo» annuì, «vediamo di renderci utili». Si alzò e tornò alla sedia, leggermente più pallido. L'uomo era scomparso dallo schermo e i due avevano ripreso a respirare, sebbene impercettibilmente, e il riccio si sentì come se avesse appena mandato l'amica al macello inutilmente. Sperò con tutto sé stesso che sarebbe tornata presto e senza un graffio, ma un brutto presentimento gli avvolgeva lo stomaco e gli ricordava quello di cui quell'uomo era capace. Si strizzò le palpebre fra le dita e Lindsey gli mise una mano sul braccio, scuotendolo delicatamente e guardandolo negli occhi con apprensione.
«Resto io qui, va a bere qualcosa» mormorò, ricevendo un'occhiata grata da parte del ragazzo, che si alzò e si accasciò sulle coperte. Non avrebbe avuto pace finché Columbia non fosse tornata alla base e ne erano entrambi più che consapevoli, ma forse avrebbe potuto mostrarsi di una qualche utilità mentre lei non c'era, così da riuscire a velocizzare il suo ritorno. Si tirò in piedi e andò a aprire il mobile che conteneva i fascicoli coi dati raccolti negli ultimi anni, le pagine gialle e quelle bianche, gli annuari scolastici e la mappa della città , e si chiese se nel controllarli la prima volta non avessero tralasciato qualcosa d'importante. Agguantò un paio di fascicoli e li portò alla scrivania, dove cominciò ad esaminarli e non si accorse dell'ombra che aveva oscurato il viso di Lindsey.
Aveva perso completamente il contatto visivo con Gerard.



Note: okay, probabilmente è troppo corto rispetto agli altri capitoli però va bene, insomma, non scrivevo cose serie da settembre, quindi è un risultato piuttosto accettabile. Avevo preparato altre due bozze che avevo sviluppato anche abbastanza a lungo, però erano banali da far schifo quindi alla fine le ho abbandonate e bam, ho proprio smesso di scrivere per qualcosa come quattro mesi. L'altro giorno mi sono svegliata in piena notte per la febbre e avevo l'idea in testa, quindi sotto consiglio di una mia amica l'ho sviluppata ed ecco qua. Visto il tempo fra l'ultimo capitolo e questo il mio stile è cambiato, però bene o male penso di ricordarmi abbastanza i caratteri dei personaggi. Oddio boh non so che dire, siate buoni ciao
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > My Chemical Romance / Vai alla pagina dell'autore: Pwhore