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Autore: Beads and Flowers    28/03/2013    1 recensioni
Una voce chiama Myrlene sulla montagna, durante le giornate di pioggia. A casa, sua sorella Jehanne l'aspetta in silenzio, pregando Dio di essere perdonata per un peccato che ha segnato la sua nascita.
Le due gemelle, tanto belle quanto odiate, passano le loro giornate ignorando il dolore, i colpi che il padre infligge a Jehanne, la violenza e la paura impressa nei sogni di Myrlene. Ignorano. Ignorano le innumerevoli ingiustizie che sconvolgono la loro vita, i segni che sembrano preannunciare una disgrazia, le terribili visioni che riporteranno alla luce antichi segreti.
Ignorano. Promettono. Pregano.
Ma la segreta volontà dell'Ondina le incatena ad un promessa dimenticata.
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai
Note: Nonsense | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Le Ferite nell’Acqua

 
1. Le Gemelle
 

 Love is like sailing by moonlight
Reading the stars, navigating by night
I know tomorrow I'll be closer to you
You are the one that I want
No one but you


"No One But You", di Erutan

 


 Le due ragazze erano piuttosto strane. Molti abbassavano lo sguardo quando le incrociavano per le strade del villaggio. Ma nessuno al paese di Litanie poteva negarlo: erano sorelle bellissime e di ineguagliabile virtù.
 Quando si recavano al villaggio in visita a parenti ed amici, quando tornavano a casa dal mercato del Venerdì, in Chiesa durante la Santa Messa. Sempre si erano contenute in un decoroso silenzio, limitandosi a lanciare qualche sguardo interessato ai ragazzi più giovani o discorrendo graziosamente con le loro amiche.
 Jehanne, i lunghi capelli rossi raccolti in una treccia, aveva occhi sereni e del colore di una notte senza stelle. Delle due gemelle era la più operosa, riservata e silenziosa. Sarebbe stata senz’altro preferita alla sorella, se avesse avuto entrambe le mani. Era nata senza la sinistra, e questo difetto era abbastanza grave da allontanare ogni uomo dal suo cammino.
 Il suo destino era di vivere all’ombra della sorella Myrlene, una stella caduta in quel piccolo villaggio di pastori e contadini. Tutto in lei era perfetto: i suoi splendidi capelli biondi, gli occhi neri come lune nuove, il sorriso radioso e la grazia di una danzatrice. La luce del suo volto era quella degli angeli, la sua bellezza apparteneva al Sole.
 Ma innumerevoli dicerie contaminavano la sua delicata figura. Strane usanze le erano attribuite, le sfumature di parole ambigue erano impresse sulle sue labbra. Il suo sorriso era inquietante, seppur meraviglioso, come quello di una fata in Estate.
 Erano le figlie del Vecchio Amis, un pastore che abitava in solitudine sull’Ame de la Neige, un monte ai cui piedi era stato fondato il villaggio. Il Vecchio Amis non era particolarmente ricco. Il suo gregge con contava più di trentacinque pecore.  Abitava in una casa modesta e dall’arredamento sobrio. La sua unica proprietà di qualche valore decorativo era il grazioso pozzo di pietra, accanto al quale le due sorelle solevano passare il loro tempo libero. Quel terreno era stato affidato all’uomo da una potente famiglia di proprietari terrieri, che non avevano trascorso in quelle terre più di cinque o sei mesi della loro vita. Vivevano negli eleganti quartieri di Parigi, tra balli in maschera e gloriosi frammenti della città di Olimpo, spendendo il denaro che accumulavano grazie alle fatiche dei loro sottoposti.
 Le gemelle non avevano i ricchi abiti delle loro nobili padroncine, i gioielli splendenti o le costose acconciature alla moda. Tuttavia, sapevano trovare grande gioia in semplici collane di margherite e nelle canzoni della loro infanzia. Jehanne aveva una splendida voce, ma era troppo timida per cantare in pubblico. Era sempre reclusa in un silenzio tombale, degno di un cadavere, e non lasciava mai che qualcuno udisse il suono della sua voce. Riservava quella dolce musica alla sorella, a nessun altro. Non parlava con altri se non lei.
 La madre delle gemelle era morta mentre dava alla luce Jehanne, o per lo meno così aveva detto l’anziana nutrice che le aveva cresciute. Il Vecchio Amis, invece, passava le sue giornate sulle altitudini delle montagne, pascolando il gregge. Quando tornava a casa con le pecore, la sera, mangiava velocemente il suo pasto e andava subito a letto. A volte salutava Myrlene, le faceva qualche domanda, le sorrideva. Ma non si era mai rivolto a Jehanne, se non per rimproverarla o insultarla. La ragazza, quando questo accadeva, non poteva rispondere che con il silenzio.
 “Brutta strega! Hai ucciso mia moglie, mangi il mio pane senza ripagarmi di nulla, sei malefica e rivoltante, e osi ripagarmi con una risposta? Vai a cantare ai diavoli dell’Inferno, se lo desideri!”
 Myrlene soffriva più di Jehanne stessa, quando questo accadeva. Ma cosa poteva fare? Nient’altro che chiudere gli occhi e pregare. La sua cara sorella non reagiva in alcun modo alle grida del padre. Il capo abbassato, le labbra serrate, piangeva senza emettere un suono. Con il passare del tempo aveva incominciato a credere alle malefiche parole del genitore. Era stata lei a uccidere la defunta madre, e doveva rappresentare agli occhi di tutti una maledizione divina. Era questo il suo destino, non poteva fare a meno di accettarlo. Aveva imparato a convivere con questa presunta realtà. Passava le sue notti in preghiere di perdono e di misericordia.
 Suo padre diceva che lei apparteneva all’Inferno. Diceva di essere figlia del demone Lilith. Suo padre era Satana in persona. Lei non era altro che un rifiuto dei diavoli e dei mostri. Tanto brutta da non essere accolta neanche nella casa del Male, che cosa sperava di ottenere nel mondo degli uomini se non odio e disprezzo? Jehanne ascoltava, accettava e scuoteva lentamente il capo. Aveva il terrore dell’Inferno. Aveva visto un’immagine dipinta sul muro della Chiesa. I dannati erano gettati in fiumi di ghiaccio nero, le loro membra venivano sciolte dai respiri dei diavoli, le loro suppliche erano ignorate e le loro carni straziate. Satana regnava in quella casa oscura, mangiava i corpi dei peccatori, e Lilith al suo fianco stuprava e graffiava nutrendosi del loro dolore.
 Jehanne guardava quelle pareti con occhi sgranati, carezzava le pietre dipinte, si mordeva le labbra per trattenere gemiti di terrore. Era quella la sua casa? Sì, la sua casa. Lei era il Male, lei era ciò che andava evitato e su cui bisognava sputare. Lei doveva soffrire, espiare una colpa così profonda da infettare il suo stesso sangue.
 Ma aveva paura.
 “Preferirei gettarmi nel pozzo, piuttosto che tra le braccia di Satana.”
 “Sorellina, non dire così! Tu non meriti nulla del genere. Sei l’angelo più bello del Paradiso.”
 “No, Myrlene. Io sono una delle figlie dell’Inferno, e nessuno può salvarmi se non Dio.”
 Se, per qualche motivo, la famiglia non poteva recarsi in Chiesa, Jehanne ne provava un tale rimorso da picchiarsi con una frusta di cuoio, appesa nella stalla. Myrlene, quando questa accadeva, gridava e piangeva fino a chiamare il padre, che afferrava Jehanne a la rinchiudeva in una stanza. Non le permetteva di mangiare o bere per due giorni. Quando usciva, la fanciulla era esausta e stravolta, ma uno strano sorriso era sempre impresso sul suo volto, come se avesse ricevuto un regalo inaspettato. Myrlene, alla vista di quel ghigno, piangeva in silenzio, e con il tempo aveva smesso di chiamare il Vecchio Amis quando Jehanne impugnava la frusta.
 Quando la sorellina terminava, stanca e sanguinante, Myrlene era sempre lì per sostenerla. La abbracciava, tremando e singhiozzando. Non diceva nulla. Non poteva dire nulla, perché sarebbe stato come persuadere un bambino innocente o un anziano morente. Jehanne non l’avrebbe mai ascoltata. Lei era il Male, e ne era consapevole. Ma continuava a cantare per la sorella, intrecciando per lei delicate collane di margherite.
 Myrlene cercava di resistere a tutto quel dolore, e non abbandonava mai la sorella.
 L’unica eccezione a quella sua regola erano le giornate di pioggia. Allora, la ragazza non riusciva a restare reclusa in casa come Jehanne. Una voce la chiamava. La chiamava verso la montagna, verso i ruscelli e le fonti nutrite dal Cielo. Era la voce di una danza. Una danza di acqua e di pioggia. E lei era chiamata a parteciparvi.
 Corri, corri sul monte, Myrlene! La pioggia è arrivata, e ti chiama a lei!
 A nulla servivano i rimproveri del padre, le preghiere della sorella. Myrlene non poteva fare a meno di correre attraverso le foreste montane, godere la fresca pioggia, ridere e scherzare con il suo rumore. Correva, scivolava sull’erba bagnata, affondava le mani nelle pozze e nei ruscelli. Parlava con il suo riflesso negli specchi d’acqua, distorto e confuso dalle piccole onde causate dalle gocce trasparenti. Cento, mille riflessi la circondavano, cadevano dal Cielo con sussurri assordanti. Le raccontavano le storie del Paradiso e delle fonti, delle nuvole e dei torrenti. E lei rispondeva con argentee risate.
 Quando il Sole riconquistava il suo trono celeste, Myrlene era costretta a svegliarsi da quel sogno piacevole. Ma per quei pochi minuti, per quei rari temporali, il suo cuore tornava alla sua vera natura. L’acqua era il suo elemento, la sua gioia, il suo unico conforto.
 Quando tornava a casa, stanca, i capelli e gli abiti bagnati, cercava di evitare il padre, e di andare subito a letto. Suo padre non le avrebbe mai fatto del male, e non l’avrebbe sgridata come faceva con Jehanne. Se la rimproverava, era solo perché era sinceramente preoccupato per lei. A volte Myrlene raggiungeva la sua camera, non vista dal genitore, e faceva finta di dormire. Allora, dopo qualche minuto, Jehanne entrava nella stanza. Si sedeva sul letto accanto a lei, e le parlava a bassissima voce. Sapeva che Myrlene non stava dormendo veramente? Oppure voleva semplicemente aprirsi a lei, confidarsi in quegli strani momenti di presenza assente? Gli ossimori avevano sempre caratterizzato la vita delle due gemelle, ed in momenti come quelli affollavano la mente di Myrlene come neri uccelli notturni.
 “Sorellina mia,” sussurrava Jehanne “Non lasciarmi mai più. Mi ha picchiato oggi, mentre eri via. Mi ha detto che sono sporca, che non merito di vivere. Tu credi che il papà si sbagli sul mio conto, ma la verità è diversa. Io sono un demone. Ho ucciso una donna prima ancora di venire al mondo. Dio mi odia, il papà mi odia, tutti mi additano come un mostro feroce. Solo tu non mi guardi con orrore. Myrlene, io ti amo. Non lasciarmi mai e poi mai. Io ti amo.”
 Si sdraiava accanto a lei, carezzandole i capelli bagnati. I loro respiri si univano in un ritmo regolare, e si addormentavano insieme. Al villaggio nessuno conosceva il dolore che le rendeva così unite. Tutti le vedevano come semplici, pure, bellissime sorelle da ammirare e di cui vociferare. Tutti ridevano della mano di Jehanne, ed erano gelosi del suo affascinante silenzio. Nessuno osava sfidare la grazia di Myrlene, ma sussurravano con sospetto delle sue corse nella pioggia.
 Le due gemelle, tanto belle quanto odiate. Questa era l’amara verità, che rendeva le sorelle ancora più unite. Quando udivano i pettegolezzi sul loro conto, quando notavano le mani tese nella loro direzione, quando sguardi curiosi e spaventati le esaminavano come animali sconosciuti, loro sorridevano con la gioia naturale di due bambine. Sorridevano, e pensavano al pozzo profondo, in cui mille collane di margherite erano state gettate da mani infantili. Erano state sacrificate alla Promessa. La Promessa di una futura, sincera felicità.
 “Sorella, sorellina mia. Non lasciarmi mai più.”
 “Finché il Sole illuminerà il tuo volto d’angelo, Jehanne, io non ti abbandonerò mai.”
 “Perché non mi porti con te, sulla montagna, quando piove?”
 “Perché tu non senti le voci, Jehanne. Non riusciresti a capire quello che provo. C’è qualcosa che mi chiama su quella montagna, ma non riesco a capire cosa sia.”
 “Forse è un angelo. Un angelo di Dio.”
 “Forse.”
 “Forse è la mamma.”
 “Sciocca. Che cosa dici?”
 “E’ la mamma. Per questo tu riesci a sentirla, e io no. Lei non ti odia per averla uccisa. E così ti canta tutte le canzoni che non ha potuto in vita. Ti carezza con la pioggia, i sussurri dell’acqua sono i suoi messaggi dal Cielo. La mamma ti vuole davvero molto bene, e tu sei fortunata ad avere l’amore di un angelo.”
 “Sta zitta, Jehanne. Non è la mamma che mi chiama sull’Ame de la Neige. E’ solo la mia immaginazione, nulla di più. Ascoltami, non voglio che tu dica più queste brutte cose su nostra madre. Lei non ti odia, non ti potrebbe mai odiare. Papà non sa quello che dice. E’ uno stupido a chiamarti la figlia di Satana. Tu non sei un demone, sei la mia sorellina. Ti voglio bene. Se smetterai di farti del male con quella frusta, ti prometto che ti porterò con me sulla montagna. Staremo sempre insieme, dico davvero.”
 “Ci proverò, Myrlene.”
 Ma, ad ogni Messa mancata, ad ogni insulto del Vecchio Amis, Jehanne tornava a confortarsi con il sangue delle sue ferite. E Myrlene si rifugiava nel richiamo della pioggia, nella musica e nella danza che mandava via ogni dolore.

 
 
 Una notte, quando tornò a casa dalla danza e si mise a letto, Jehanne non entrò nella camera per addormentarsi accanto a lei. Myrlene attese, attese nel buio. La sorella non venne. Non era mai accaduto prima di allora. Che cosa poteva essere successo? Myrlene si alzò, scese in silenzio al piano inferiore della casa. Jehanne non era lì. Nella calma della notte, Myrlene si rese conto di non avvertire il pesante russare del padre. Doveva essere uscito. E Jehanne? Dov’era la sua Jehanne? Avventurandosi nel freddo della notte, Myrlene cercò all’orizzonte un qualche segno della sorella. Tra le ombre oscure degli alberi, accanto al pozzo di pietra, nel recinto delle pecore: non c’era nessuno. Non una figura, non un rumore.
 Ad un certo punto, la ragazza vide una luce. Una luce proveniente dalla piccola stalla della fattoria. La ragazza si avvicinò alla costruzione, i piedi nudi bagnati dalla rugiada notturna. Dall’interno proveniva uno strano rumore. Gemiti. Myrlene esitò qualche istante sulla porta di legno, cercando di capire chi o cosa stesse emettendo quei suoni. Per un attimo, le parve di riconoscere la voce di Jehanne. Non riusciva a capire. Che cosa significava?
 Aprì la porta, tenendola leggermente socchiusa. Guardò all’interno della stanza.
 E vide.
 Suo padre, disteso sulla paglia secca. Il suo vecchio corpo era nudo. Sotto di lui, Jehanne guardava il vuoto, una mano premuta contro la bocca. Una o due lacrime le solcavano il viso. Nulla di più. Non si dibatteva, non cercava di scappare. Restava semplicemente lì, mentre il Vecchio Amis si muoveva sopra di lei.
 “Brutta puttana. Schifosa, viscida puttana. Hai ucciso mia moglie, figlia di Satana? Be’, ecco il mio messaggio per l’Inferno. Che tu possa morire. Lurido verme, che tu possa morire!”
 Jehanne si lasciò scappare un gemito di dolore. Suo padre la colpì alla bocca, e sputò sul suo volto.
 “Muori! Vai all’Inferno!”
 All’Inferno.
 La mano di Myrlene tremava. Il suo braccio, il suo corpo, il suo cuore, tutto tremava dal ribrezzo e dalla vergogna. Codarda. Era una codarda. Perché non fermava suo padre? Perché non aiutava Jehanne? Che cos’era quell’apatia negli occhi della sorella, perché non chiamava aiuto o cercava di liberarsi?
 Codarda.
 Myrlene era una codarda.
 Chiuse la porta alle sue spalle. Corse piangendo verso casa.
 Si rifugiò nella sua stanza, nascondendosi tra le coperte del letto. Gridò. Cercò un cuscino, lo morse con rabbia, e soffocò un altro urlo. Il grido le morì in gola, ma le lacrime continuarono a scendere copiose sul volto della ragazza. Singhiozzando come una bambina, Myrlene si rannicchiò su se stessa, pensando al vuoto negli occhi di Jehanne.
 Momenti, minuti, ore. Il tempo passava con una lentezza straziante. Il mondo intero scorreva nella mente di Myrlene, come sabbia in una clessidra. Solo dopo molti dolorsi sospiri, la ragazza riuscì finalmente ad addormentarsi.
 Sognò.

 
 
 Una figura camminava nella foresta. Avvolta in un vecchio mantello, barcollava sotto il peso della neve. Teneva qualcosa tra le mani, fasciato con stracci e bende macchiate di sangue. L’uomo ansimava dalla fatica e dal freddo. Piccole nuvole di vapore salivano al Cielo dalle sue labbra. I suoi piedi, nudi sul suolo innevato, erano lividi e rigidi come pezzi di ghiaccio. Gli occhi distanti di Myrlene osservavano la scena come da una finestra offuscata dalla nebbia. Aveva riconosciuto il luogo: era l’Ame de la Neige. Sotto a quel mantello, lei in qualche modo lo sapeva, c’era suo padre. Il vecchio pastore si stava recando alla fonte più alta della montagna.
 Che cosa stava tenendo in mano? Perché aspirava a quella meta? Myrlene decise di seguirlo, delicata e silenziosa come uno spirito di cristallo.
 Dopo molti minuti raggiunsero un piccolo specchio di acqua ghiacciata, ed il Vecchio Amis si fermò. Si chinò sulla fonte, afferrò una piccozza che teneva legata alla cintura e prese ad infrangere la superficie del ruscello. Aveva gettato rudemente al suolo il mucchietto di bende, e gli dava le spalle. Myrlene voleva avvicinarsi al fagotto per osservarne il contenuto, ma che cosa avrebbe fatto se suo padre si fosse voltato? Nonostante la concezione che aveva di quell’atmosfera onirica, temeva comunque la figura meschina del genitore.
 Si nascose tra alcuni cespugli di rovi, e guardò in silenzio la scena. Aveva freddo. La notte era oscura, e la foresta a lei così cara in quel momento appariva come un luogo sinistro e minaccioso. C’era qualcosa di strano nell’aria, tra le spine delle piante invernali, nella profondità ghiacciata della fonte. Qualcosa, o qualcuno.
 Il Vecchio Amis aveva scavato una piccola buca in quella dura barriera. Le immobili acque erano come immerse in un torpore mortale, pronte a risvegliarsi nella furia di uno Stige terrestre. Myrlene si sentiva attratta da quella pozza oscura. Era la sensazione di una vertigine sull’orlo di un pozzo profondo.
 Improvvisamente, riconobbe la voce. Stridula, potente e musicale. La avvertiva più forte che mai, in quel sogno frutto di un’illusione. Non proveniva dal Cielo, ne’da una pioggia immaginaria o dalla neve che li circondava.
 No.
 Era l’acqua oscura della fonte. L’acqua le stava parlando.
 Il Vecchio Amis aveva raccolto da terra l’oggetto abbandonato. Lo teneva con poche dita, ad una certa distanza dal suo corpo. Sembrava disgustato da ciò che le bende nascondevano, quasi si trattasse della carogna di un ratto. Portò il fagotto alla fonte, tenendolo sospeso sopra la pozza di morte. Fu allora che Myrlene udì un gemito provenire dal mucchietto di stracci. Il gemito di un bambino, un’esile richiesta di aiuto. Una piccola mano, rosea e paffuta, si agitava timidamente nell’aria. La ragazza non ebbe esitazioni nel riconoscerla.
 “Jehanne!”
 Gridava, gridava. Nessun suono usciva dalle sue labbra. Doveva fare qualcosa, doveva salvare Jehanne. Ma come fare? Il suo corpo era inchiodato al suolo, paralizzato dall’orrore. Il Vecchio Amis sorrise, deliziato dai gemiti della piccina.
 “Torna all’Inferno, lurido verme.”
 Lasciò cadere la bambina. Le acque nere la inghiottirono.
 “Jehanne! Jehanne. Perdonami, Jehanne.”
 Le bende ed i pezzi di stoffa che avvolgevano la bambina si sciolsero nell’acqua, e si dispersero trascinate dalla forza invisibile della sorgente. Il corpicino esamine galleggiava nella tranquillità della morte. Gli occhi di Myrlene erano accecati dalle lacrime. Era stanca, confusa e terrificata. Non capiva. Non riusciva a capire. Guardava il cadavere di sua sorella.
 Così piccola. Era così piccola…
 Perché quel sogno uccideva Jehanne prima del tempo? Che cosa voleva significare, quale segreto le voleva rivelare? Quale peccato aveva commesso la sua sorellina?
 Myrlene guardava. Piangeva e guardava. E vide. Vide gli occhi sbarrati di Jehanne, i suoi radi capelli rossi di neonata. Vide i suoi piedini e le sue piccole gambe, abbandonate al dolore del gelo. Vide il suo piccolo ventre nudo, le sue braccia delicate, la sua mano destra.
 E vide.
 Vide la mano sinistra.
 In quel sogno, Jehanne aveva entrambe le mani. Ma come poteva essere? La nutrice aveva sempre raccontato che la bambina era nata senza la mano sinistra al momento del parto. Che cosa significava quella visione? Che non si trattasse di Jehanne? No, era proprio lei, ne era sicura. Non sapeva come potesse riconoscere sua sorella in quella bimba nata da poco, ma per qualche ignoto motivo Myrlene ne era assolutamente convinta: era Jehanne.
 Stava ancora cercando di risolvere quel mistero, quando le acque della fonte si risvegliarono. Gli striduli sussurri della Voce si erano fatti acuti urli di rabbia. Le acque nere della sorgente, innalzandosi dalla pozza come ignobili demoni dell’oltretomba, si agitavano in grandi onde di spuma nera, innalzandosi verso il Cielo con grazia e furore. Stavano chiamando il nome del Vecchio Amis con terribili grida.
 Il liquido cristallo nero lo scherniva con la voce di uno spirito.
 Una voce.
 Una voce di donna.
 No, non era una donna.
 Ma erano parole.
 Parole.
 Parole fatte di aria ed acqua, che nessuno aveva potuto pronunciare se non uno spirito. E fu allora che la vide. Fu allora che vide la bellezza stregata del demone.
 Era comparso tra le acque agitate del ruscello, veloce e maestoso come la Morte stessa. Il suo corpo era diafano e del colore delle perle più pure, screziato di acquamarina e schegge dorate. I suoi bianchi capelli si confondevano con la schiuma allegra delle onde, fluttuando nell’aria imitando i serpenti della Medusa. Nei grandi occhi neri l’iride e la pupilla erano totalmente assenti, lasciando la liscia profondità di un’oscura pietra lunare. Era come se gli occhi fossero stati estratti dalle orbite, per essere immersi nel colore della notte e restituiti con un sorriso al demone delle acque. Le labbra esangui del mostro erano piegate in una smorfia vagamente simile ad un ghigno.
 
 “
Uomo mortale, sciocco essere privo di alcun intelletto! Perché hai gettato questo sporco essere nelle mie acque? Osi infangare il mio ruscello con il corpo di un sacrificio indegno! Lurido essere, devi esser punito dalla mia furia segreta. Io che uccido i miei nemici e premio i miei amanti, lo spirito di questa sorgente! Il mio nome è stato oltraggiato dall’azione di un piccolo insetto come te. Sporco umano, sarai spedito all’Inferno dal veleno del mio bacio. Così imparerai a sfidare il nome di Avent, l’Ondina!”
 
 Myrlene osservava quella scena, gli occhi ricolmi di orrore, nascosta tra cento rovi e mille lacrime confuse. Cercò di urlare, ma l’unica voce che risuonava nel freddo della notte era quella del demone. Il demone che per sedici anni l’aveva chiamata a sé, sulla montagna.
 


 Myrlene si svegliò, aprendo di scatto gli occhi nel buio della sua stanza. Ansimò, confusa e spaventata. Cercò con la mano una candela da accendere, un sostegno a cui aggrapparsi. Le lacrime precedenti al sonno si erano asciugate con il passare del tempo, ma la paura e lo sdegno erano ancora vivi nel suo cuore.
 Tutto era buio. La ragazza tese una mano sul comodino di legno, cercando con occhi di cieca una semplice candela. Non riuscì a trovarne. Probabilmente ve ne sarebbero state al piano inferiore. Cercò di alzarsi, ma in quel momento avvertì una presenza sul letto. Qualcuno era seduto ai piedi di Myrlene, le mani sul grembo, l’espressione celata dall’oscurità.
 Jehanne.
 Il feroce ricordo di ciò che era stato tornò, crudele nella sua improvvisa comparsa. Myrlene non sapeva cosa fare. Restò perfettamente immobile, gli occhi fissi sulla sagoma nera della sorella. Avrebbe tanto desiderato non essersi svegliata, agitata nel sonno, richiamare l’attenzione su di sé con quell’urlo che aveva accompagnato il suo risveglio. Avrebbe dato qualsiasi cosa per far credere alla sorella che lei, in realtà, stava ancora dormendo. Troppe domande danzavano nella sua mente, troppe verità che avrebbe tanto voluto tacere ed ignorare. Ma un terribile senso del dovere la spingeva a rivelare tutto quello che sapeva alla sorella. Lei aveva visto il Vecchio Amis, quella notte, violare il corpo di Jehanne, e sapeva che questo non escludeva atti precedenti.
 Aprì debolmente la bocca per confessare il peccato scoperto. Ma la timida domanda di Jehanne le impedì di proseguire, riempiendola di sorpresa:
 “Myrlene, stai dormendo?”
  Perché le rivolgeva quella domanda? Non l’aveva sentita, quando aveva tentato di alzarsi per scendere al piano inferiore? Aveva urlato e singhiozzato al suo risveglio, l’aveva guardata con occhi spalancati nella notte oscura.
 “Se non stai dormendo, allora non dire nulla.”
 Avvertì la sorella chinarsi su di lei, cercando con le dita il suo volto. La mano di Jehanne era morbida e fragile. Le sfiorava con delicatezza gli occhi, le guance, le labbra. Il suo respiro era calmo e regolare, ma vibrava di paura ed esitazione.
 “Myrlene.”
 “Tu…”
 “Myrlene, ti prego. Non parlare. Non dire nulla. Facciamo finta che tu stia dormendo, che questo sia un sogno. Ti prego.”
 Sulle labbra di Myrlene, la mano tremante di Jehanne ricordava i pulcini impauriti che i ragazzi del villaggio squartavano per gioco.
 “Ci hai visto, non è vero? Il papà ed io.”
 La risposta era il silenzio. Era ciò che entrambe desideravano, in quel momento.
 “L’ha fatto altre volte. All’inizio non volevo, urlavo e cercavo di scappare. Lui era più forte di me, ed io avevo solo dieci anni. Pioveva. Tu eri sulla montagna. Non eri lì per mandarlo via. Ho capito che l’unica cosa da fare era sopportare, senza emettere un suono. In questo modo tutto sarebbe finito prima, e lui mi avrebbe lasciato andare. In quel momento avevo giurato a me stessa che ti avrei detto tutto, che saremo fuggite insieme, che non saremo mai più tornate in questo luogo orribile. Ma tu sei tornata dalle montagne sorridendo. Sorridevi, Myrlene, sorridevi con gioia pura e sincera. Ti ho guardato negli occhi, quel giorno. Ti guardai, pronta a rivelarti tutto, a chiederti in ginocchio di fuggire via con me. Ma i tuoi occhi, Myrlene, risplendevano nella luce dell’Estate, e capii che tu non sapevi, che non avresti mai saputo che cosa si provava e che cosa volesse dire. Myrlene, io allora compresi di amarti. Compresi, e non dissi nulla. Ho aspettato nel dolore per sei anni, sempre esitando, sempre tacendo. E tu, finalmente, hai respinto la musica della pioggia per me. Sei tornata per me, Myrlene. Ed io posso finalmente dirti che ti amo.”
 “Jehanne…”
 Le loro labbra si sfiorarono nella pallida imitazione di un bacio. La mano di Jehanne carezzò delicatamente i capelli della sorella, avvertendo il morbido calore di quei riccioli dorati. Le sue labbra si spostarono sulla fronte di Myrlene, e questa volta il bacio fu più concreto e sicuro.  
 “Posso dormire con te, stanotte?”
 Myrlene annuì, ed avvertì il corpo della sorella accoccolarsi timidamente accanto al suo. Si abbracciarono con tenerezza, ed entrambe chiusero gli occhi, provate dalla stanchezza e la paura. Un improvviso pensiero portò Myrlene a cercare la mano della sorella, solo per vederla, toccarla, capire che era una ed una sola. La trovò, avvertì che si trattava della mano destra. La sinistra mancava.
 “Jehanne.”
 “Sì?”
 “Tu sai cos’è un’Ondina?”
 “Era una delle fate che compariva nei racconti della nostra nutrice. Se incontrava degli uomini, li uccideva. Oppure si infatuava di loro, e li baciava in cambio di ricchi sacrifici.”
 “Si tratta di una favola?”
 “Sì. Una favola.”
 “Allora è così semplice.”
 “Myrlene, un giorno fuggiremo insieme?”
 “Insieme. Te lo prometto.”
 Myrlene sorrise. Una favola. Quel sogno era il frutto di una favola, un’illusione generata dal ricordo di una bimba impaurita. Non era nulla di cui preoccuparsi. Strinse a sé il corpo di Jehanne, e si preparò ad abbracciare le più belle realtà di un mondo onirico.
 Ti porterò via di qui, tesoro mio. Devi solo pazientare un poco.
  Si addormentarono insieme, cullate dal ritmo dei loro respiri.





Angolo dell'Autrice:

Oh, mio Dio, il blocco dello scrittore è improvvisamente scomparso! Cosa più unica che rara (grazie, Thomas Mann, grazie per aver scritto La Morte a Venezia!), chissà se potrò scrivere ancora abbastanza per finire questa storia? A proposito, se avete consigli, rimproveri, critiche o commenti da fare perché non mi lasciate una  allegra recensione o un messaggio privato? Io stessa ho molti dubbi: il rating è quello giusto? C'é qualcosa che doveva essere chiaro e invece l'ho espresso in maniera confusa? Errori (orrori) di ortografia? Oppure ho magicamente indossato il guanto della perfezione e questa storia vincerà il premio Nobel? Be', sempre megli puntare in alto che mangiare patatine fritte intinte nell'elettricità.
Comunque, questa è la canzone da cui ho tratto la citazione a inizio capitolo. 'No One But You', cantata dalla fantastica Kate Covington.
http://www.youtube.com/watch?v=10vtevd__IM
Dunque dunque dunque, grazie mille a tutti voi! Spero che questa storia continui, lo spero davvero, ma dubito di essere nella corretta sanità mentale per farlo. Fatemi sapere che cosa ne pensate! A presto,
Beads.








 

   
 
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