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Autore: FRC Coazze    28/03/2013    1 recensioni
Che strani incontri notturni può fare una professoressa in cerca di una pozione contro il mal di testa.
Storia scritta per il Gioco Creativo n°13 "Un anno di sorrisi per Severus" del forum "Il Calderone di Severus".
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Minerva McGranitt, Severus Piton
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Storia nata da un mal di testa. Perchè cosa fa una scrittrice col mal di testa? Si mette a scrivere una storia con qualcuno che ha il mal di testa. Povera la McGranitt, però. C’era un crudele compiacimento in me mentre scrivevo :D

Potete vederla come un prequel a "Una strana serata", oppure no, è vostra libera decisione ;)

Questa storia è stata scritta per il Gioco Creativo n°13 "Un anno di sorrisi per Severus" del forum "Il Calderone di Severus".

 




Madama Baffolungo
 

 
 
 
 
 

Minerva McGranitt aprì gli occhi chiari, schiudendoli al buio della notte. La sua camera da letto era soltanto un grande mare schizzettato qui e là da macchie di grigio che prendevano le forme vaghe di un armadio, uno scrittoio, imprecisate suppellettili.

Minerva si passò con fare stanco una mano sulla fronte. Non aveva la forza di alzarsi a sedere, non aveva voglia di lasciare quel letto, quelle coperte calde, dove si stava così bene, ma quel mal di testa… Sospirò. Odiava il mal di testa di notte, quando ti attacca a tradimento. Quando si acquatta nell’ombra in attesa che tu ti accoccoli tranquilla tra le coperte, al calduccio. Aspetta quell’attimo in cui sospiri compiaciuta e gode. Oh sì, Minerva era sicura di sentirlo sghignazzare ogni tanto, come se fosse una creatura acquattata sotto il cuscino, con quella sua risatina stridula che picchiettava il buio. Era lì, come una belva in agguato in attesa che lei si addormentasse per balzarle addosso e costringerla a svegliarsi nel cuore della notte sotto i colpi del suo becco appuntito, e allora afferrarla e farla rigirare avanti e indietro nel letto, premendole la fronte nel cuscino.

Il mal di testa era il peggior male del mondo. Di questo la professoressa McGranitt era più che sicura. Se le avessero chiesto: che cosa vorrebbe cambiare di questo mondo? La sua risposta sarebbe certo stata: vorrei che il mal di testa svanisse dalla faccia della terra. Sì, certamente in quel caso il mondo sarebbe stato migliore.

Si rivoltò a pancia in giù con un movimento iroso e piantò il viso nel cuscino. Sapeva che era inutile, ma quel picchio irritante che si ritrovava nella testa era —era insopportabile. Si divertiva, il pennuto, a trapanarle cervello?

No, era inutile stare lì a rigirarsi nel letto: doveva fare qualcosa di concreto contro il picchio trapanatore. Si lasciò sfuggire un ringhio frustrato mentre si alzava dal letto, gettando indietro le coperte. Si infilò ai piedi le ciabatte e afferrò la bacchetta che giaceva tranquilla sul comodino.

«Lumos», sussurrò mentre già i suoi passi si avviavano verso il bagno. La luce fredda e azzurra della bacchetta invase la camera da letto, accompagnando l’avanzare deciso della professoressa. Poppy le aveva dato una boccetta di pozione contro il mal di testa: doveva essercene ancora un po’.

Giunta di fronte alla porta del bagno, Minerva la spinse con fare risoluto entrando nella piccola stanza. Subito sulla sua sinistra si trovava l’armadietto dove conservava le pozioni. La McGranitt ne aprì le piccole ante scure con stizza, per nulla preoccupata di interromperne il placido sonno.

Puntò la bacchetta all’interno, illuminandone i ripiani colmi di boccette e flaconi, garze e quant’altro. Cercò con attenzione l’etichetta della pozione contro l’emicrania e nel farlo notò che alcune delle bottigliette erano ormai vuote. E da tempo anche. Bah, non che fossero pozioni importanti… ciò che contava era che ci fosse la pozione che cercav —come non detto. La McGranitt non poté trattenere un sibilo felino di irritazione. Il sollievo iniziale, quando i suoi occhi avevano catturato le parole Pozione Saltapicchia sull’etichetta giallastra, era improvvisamente svanito in uno sbuffo di fumo perché… perché la boccetta era vuota.

«No, non ci credo…», borbottò la McGranitt afferrando la boccettina e analizzandola con i suoi occhi inflessibili. Non era possibile… l’unica pozione di cui aveva bisogno, tra tutte quelle contenute nell’armadietto, e la boccetta era vuota. Vuota! La agitò avanti e indietro, osservandola con intensità quasi nel tentativo di far comparire il prezioso liquido dal nulla, ma la bottiglietta rimaneva inesorabilmente, inequivocabilmente vuota. C’era soltanto una piccola goccia di pozione azzurra che faceva su e giù lungo le pareti di vetro come un bimbo abbandonato, sotto i movimenti che la mano della professoressa vi imprimeva.

La McGranitt richiuse stizzita le ante dell’armadietto e se ne tornò a passo di carica nella camera da letto, trattenendosi appena dallo sbattersi la porta del bagno alle spalle. La boccetta vuota stretta nella mano sinistra. Con un movimento svelto della bacchetta accese le candele del lampadario mentre la luce azzurra pian piano moriva, sfumando in quella più calda delle lingue pettegole di fuoco. La professoressa sbatté le palpebre sugli occhi irritati da quell’improvviso schiaffo di luce. La sua testa,  improvvisamente, parve  felice di dilettarsi nelle capriole.

Minerva si portò la mano in cui stringeva la bacchetta alla fronte dolorante, passandone il dorso sulla pelle rugosa, pensierosa. E ora? Le sole possibilità che aveva erano due: tenersi il mal di testa o andare da Poppy a chiedere della pozione. La prima era certamente da escludere, la seconda… che ore erano? La professoressa abbassò la mano dalla fronte e gettò un’occhiata all’orologio appeso alla parete, di fronte al letto: mezzanotte e un quarto. Non era poi così tardi, ma Poppy sicuramente era già andata a letto. Poteva sempre chiedere a Severus, però. Era probabile che lui fosse ancora in piedi - lavorava sempre fino a tardi quel ragazzo-, ma non era neanche detto, poteva essere già andato a letto anche lui. Sicuramente, comunque, buttar giù dal letto Poppy era il male minore, se doveva scegliere tra i due.

Poi, la professoressa venne colta da un’improvvisa, raggiante idea che riuscì a far breccia tra le schiere picchiettanti dell’emicrania per raggiungere la sua mente brillante. Poteva fare da sola. Andare nel piccolo stanzino dell’infermeria dove Poppy teneva tutte le pozioni, le polveri, le bende e tutto il resto, e prendere in prestito un po’ di Pozione Saltapicchia senza disturbare la Medimaga e, soprattutto, senza rischiare di farsi affatturare da Severus. Sì, quella era l’idea migliore.

In un  balzo fu accanto al letto. Posò la boccetta vuota sul comodino e abbrancò la lunga vestaglia di stoffa scozzese che giaceva appoggiata alla testiera. Se la gettò addosso con un movimento fluido, spense le candele con un gesto quasi annoiato della bacchetta, poi anche la bacchetta finì sul comodino a far compagnia alla bottiglietta di vetro. In un attimo, la figura dell’austera, inflessibile professoressa di Trasfigurazione era scomparsa e al suo posto ora c’era un bel gatto soriano con dei segni neri intorno agli occhi verdi brillanti, come un paio di occhiali scuri poggiati sul suo naso baffuto. A che pro andarsene in giro in giro di notte al freddo per i corridoi del castello con una bacchetta illuminata, rischiando di svegliare mezza scuola, quando puoi toccare la pietra dei corridoi con passo felpato, silenzioso, e cogliere ogni figura e ogni oggetto senza l’ausilio della luce? Risposta scontata.

La McGranitt, o meglio, la gatta zampettò svelta verso la porta che dava sul suo studio. L’anta era appena appoggiata e la professoressa non ebbe difficoltà ad aprirla quel poco che bastava per far scivolare il suo corpo longilineo nella stanza adiacente. Attraversò in fretta l’ufficio immerso nel buio fino a ritrovarsi davanti alla porta che dava accesso al corridoio. Con un movimento fluido, così normale da parere quasi innaturale, il gatto lasciò nuovamente il posto alla figura umana della professoressa: quella porta era chiusa da un incantesimo, che permetteva solo a lei e a pochi altri l’accesso, e sottoforma di gatto difficilmente sarebbe riuscita ad abbassare la dura maniglia di ottone. Ma lei non aveva certo difficoltà a passare da una forma all’altra con leggiadria e velocità. Rimase in forma umana giusto il tempo necessario per aprire e successivamente chiudersi alle spalle la pesante porta di legno, cercando di fare meno rumore possibile.

La McGranitt scivolò agilmente nuovamente sulle sue zampe felpate. Ondeggiando elegantemente, avanzò lungo il corridoio buio e silenzioso che conduceva all’ingresso del castello. Doveva per forza passare dall’ingresso per raggiungere l’infermeria, non che la cosa le importasse più di tanto… la sua priorità ora era liberarsi di quell’orribile mal di testa che le faceva torcere le vibrisse.

I suoi occhi felini coglievano perfettamente, nel buio, i muri del corridoio, lampeggiando tra la nebbia della notte come stelle curiose cadute dal cielo. Sentiva i tanti ritratti russare sopra di lei, ignari dei suoi passi svelti e morbidi. Sarebbe stata di certo una scena curiosa per un osservatore esterno, quel grande, immenso corridoio buio invaso dai respiri profondi di uomini e donne, imprigionati in una cornice, che dormivano tranquilli nelle loro coperte di colore. Ma la cosa più curiosa sarebbe senz’altro stata la protagonista di quella scena: una vecchia gatta tigrata che avanzava a passo svelto, ondeggiando, la coda tesa nell’aria, i baffi vibranti. Uno spettatore estraneo avrebbe sorriso: aveva davvero fretta quella gatta. Buffa. Sì, la scena era buffa, ma le mura scure del castello non vi facevano caso. Avevano visto tante volte quel curioso personaggio scivolare sulle pietre dei corridoi con quella coda ritta come il pennone di una bandiera, la punta leggermente incurvata da una parte come un curioso gancio. Tante volte.

La McGranitt balzò svelta verso destra appena si ritrovò davanti alla ben conosciuta biforcazione del corridoio. L’appena udibile fruscio delle sue zampe di velluto ben presto sfiorò le sponde del grande lago di buio che riempiva l’ingresso del castello, ma lei non attraversò mai quelle acque. Si fermò di scatto, le vibrisse tese, il naso intento a fiutare l’aria. Si guardò intorno. Strano… l’atrio era vuoto. Eppure… eppure c’era un odore nell’aria, un odore che aveva già sentito.

Avanzò guardinga nella grande sala vuota. Vuota, sì. Era vuota… non c’era nessuno oltre a lei… ma quell’odore era lì. Quell’odore c’era, a protendersi nell’aria come un’ossuta figura di stame e argento. Pozioni… sembrava... sì, odore di pozioni. Non avrebbe potuto definirlo in altro modo.  L’ansia della professoressa cominciò a scemare. Probabilmente Severus stava combinando qualcosa… bah, ancora ad armeggiare su un calderone in piena notte! Il ragazzo lavorava troppo. Se continuava così gli sarebbe venuto un crollo nervoso prima delle vacanze natalizie. Darsi da fare è un conto, ma così esagerava, e oltretutto Severus si sobbarcava, oltre al lavoro per la scuola, per l’Ordine e per i Mangiamorte, anche impegni assolutamente non necessari. Minerva non aveva mai sentito Severus dire di no a qualcuno che gli chiedeva un favore.

Un’improvvisa fitta alla fronte le fece subito ricordare perché si trovasse lì e, soprattutto, che era inutile starsene lì in un atrio vuoto lasciando giovialmente la testa vagare nel nulla. Ah, certo, uno non può perdersi in ragionamenti strambi quando ha il mal di testa: il picchio trapanatore ti tiene dritto sulla tua strada e ripaga ogni distrazione con una dura frustata.

Però, un momento! Se Severus stava ancora lavorando alle sue pozioni voleva dire che era ancora sveglio. E se Severus era ancora sveglio, lei non aveva più motivo di strisciare furtiva in infermeria come una gatta ladra: poteva andare direttamente da Severus e non avrebbe rischiato un affattura mento. Certo, la strada per i sotterranei era molto più lunga, ma almeno non si sarebbe resa responsabile di un furto... pur anche per un più che legittimo fine.

Silenziosa quale solo un gatto sapeva essere, la professoressa attraversò l’atrio immerso nella più totale oscurità, diretta verso la scalinata che scendeva verso i sotterranei. Scendere le scale al buio non è certo la migliore delle attività, ma il buio non è certo un problema quando si hanno gli occhi scintillanti d’un felino, peccato solo che la trasformazione non facesse scomparire anche il mal di testa.

Dunque, l’ufficio di Severus si trovava a destra appena scese le scale, giusto? Minerva zampettò giù per gli scalini di marmo e girò svelta l’angolo decisa ad imboccare quel corridoio e fu allora che lo strano, conosciuto odore acquistò improvvisamente viso e corpo.

«Severus?!», fece la McGranitt sbalordita, di fronte all’uomo seduto a terra col capo chino. Sbalordita tanto da essersi resa a malapena conto di aver abbandonato le sembianze della vecchia gatta per riprendere quelle, meno pratiche, ma più adatte alla situazione della severa professoressa. Il mal di testa passò improvvisamente e incredibilmente in secondo piano.

Una luce azzurra si accese improvvisamente nel buio e Piton si voltò di scatto verso di lei, sobbalzando, la bacchetta puntata verso la donna comparsa praticamente dal nulla. L’espressione stupita della McGranitt si enfatizzò ancora di più alla vista del volto del collega. Bianco. Ancora più bianco del solito. Incavato come se vittima recente di scalpelli di dolore. La luce della bacchetta ne distorceva, sì, i lineamenti, ma non abbastanza da negare la verità. E quegli occhi… quegli occhi neri, profondi che Minerva conosceva bene, in cui aveva visto dolore, orgoglio, forza e anche una buona dose di scherno, ora erano pieni soltanto di orrore e di paura, cerchiati da profondi segni rossi, scavati dalle lacrime nella pelle. No. Non Severus non poteva aver pianto… non era da lui… era assolutamente impossibile; Minerva stentava anche solo a credere che il suo giovane collega fosse in grado di piangere. La bocca della vecchia insegnante era spalancata almeno quando i suoi occhi azzurri, resi ancora più scintillanti dalle lenti degli occhiali e dalla luce magica. Non riusciva a parlare, la voce come congelata nella sua gola da quello sguardo.

«Severus, cos’è successo?» riuscì infine a balbettare.

«Buonasera, Minerva», fece Severus in un sussurro appena udibile, abbassando la bacchetta, «anche tu attirata dal canto delle sirene?».

Minerva lo guardò tristemente. Il serpente era velenoso anche quando era ferito e la testa le faceva davvero troppo male per permetterle di articolare una delle sue stoccate. Il picchio era riuscito ad annodarle la lingua... oppure era lo sguardo di quel giovane, seduto su un pavimento gelido di pietra in un corridoio buio e deserto?

«Che c’è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?», la punzecchiò Severus con voce rauca, senza tuttavia trovare in sé quella pungente causticità di cui sembrava possedere scorte infinite. Sembrava spossato, vuoto... solo.

Severus sentiva gli occhi fermi della sua ex insegnante fissi su di lui. Ne sentiva la preoccupazione e, per la prima volta si pentì di non aver tenuto a freno la lingua. Aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Deglutì. Abbassò il capo, lasciando che i capelli neri nascondessero il suo viso come un pudico sipario sopra il fallimento di un attore. Infine, con voce roca cominciò: «Mi dispiace, è solo che… uh… io…», non sapeva perché fosse lì, in quel corridoio desolato. Non sapeva perché avesse lasciato i suoi confortevoli sotterranei. Non sapeva cosa diavolo gli fosse passato per la testa quella sera. Sapeva solo che aveva bisogno di uscire, fuggire da quelle immagini tetre, malvagie e brutali che gli avevano turbato il sonno. Il buio... il freddo... la solitudine. Medicine, quelle e uniche.

Minerva colse il disagio del suo giovane collega e si sedette accanto a lui, preoccupata. Gli posò dolcemente una mano sulla spalla, senza preoccuparsi della possibile reazione di Severus. Sapeva che lui non amava il contatto fisico. Per questo, ciò che la stupì di più fu che Severus non reagì in alcun modo al suo tocco, anzi, pareva che a malapena si fosse accorto di quella mano sulla sua spalla. Minerva lo osservò, ancora più preoccupata.

«É successo qualcosa?», azzardò la professoressa, chinando  il capo di lato per sbirciare al di là di quel sipario nero.

Severus scosse il capo con fermezza. «No», disse piano, «è un problema mio».

«Anche tu col mal di testa?», fece la professoressa con un sorriso, cercando di sdrammatizzare.

Severus alzò il viso verso di lei, le sopracciglia tanto oblique nell’incomprensione da toccarsi sopra il suo naso. «Come?», domandò allora, ma non ricevette alcuna risposta a quella specifica domanda, perché la professoressa stava già formulando una seconda frase.

«Vieni, cerchiamo un posto più confortevole per parlare. Ti va un tè?», propose la McGranitt, cercando di suonare il più naturale possibile nonostante il peso gelido che le era calato sul cuore. Severus annuì appena, e Minerva lo aiutò ad alzarsi da terra. Fece scorrere la mano fino a posargli il braccio intorno alle spalle. Prese gentilmente la bacchetta nera dalla sua mano, dopo aver chiesto modestamente il permesso e aver ricevuto un cenno affermativo, e, con la luce azzurra ad illuminare i loro passi, condusse lentamente Severus su per la scalinata e poi verso il proprio ufficio, cercando di ignorare il dolore alle tempie fattosi ancora più acuto.

Giunti di fronte alla porta scura dell’ufficio, Minerva la aprì con un gesto della bacchetta ed entrò insieme con Severus, lasciando che la porta si chiudesse poi lentamente alle loro spalle. Non si preoccupò di accendere le luci dell’ufficio, bastava la scintilla azzurra della bacchetta di Severus per raggiungere la porticina laggiù al fondo. Accompagnò così Severus verso il soggiorno. Il giovane non disse nulla. Teneva gli occhi bassi e sembrava quasi non respirare. Era tanto che Minerva non lo vedeva così, dai primi anni in cui lui insegnava ad Hogwarts, quando ciò che gli era stato fatto e che aveva fatto sotto la maschera dei Mangiamorte era ancora vicino a lui e vivido più che mai. Allora, spesso lo vedeva così… ma c’era Albus. Lui andava sempre da Albus. Sempre Albus. Solo Albus. Ma quella sera sembrava aver messo da parte il vecchio preside. Forse, quella sera aveva solo bisogno di fuggire, pur anche in un corridoio gelido.

I suoi pensieri l’avevano intanto accompagnata nel soggiorno. Caldo, ospitale, molto più che il rigoroso ufficio della professoressa McGranitt: quello era il salotto di Minerva, semplicemente. Accese le alte candele del lampadario con un gesto della bacchetta e con la stessa diede una bella scrollata alle braci del caminetto, da cui si alzarono fiamme festose. Fece accomodare Severus sul divano di fianco al caminetto scoppiettante e gli porse nuovamente la bacchetta. Le sembrava di muovere un pupazzo, un giocattolo senza vita che si muoveva soltanto più grazie ai fili del burattinaio. A quanto pareva, quella sera la partita contro il mal di testa sarebbe stata persa per abbandono del campo.

Severus si sedette tra i cuscini del divano meccanicamente, gli occhi improvvisamente catturati dal danzare delle fiamme e ad esse inesorabilmente incatenati. Minerva lo guardò in silenzio per un attimo, poi prese un lungo respiro. «Severus», disse, «ora puoi dirmi che cosa ci facevi seduto in un corridoio in piena notte?» Sapeva che la sua voce suonava come quella di una madre preoccupata, ma… ma era davvero preoccupata, che cosa ci poteva fare?

«Mi dispiace aver interrotto la tua passeggiata notturna, Minerva», disse Severus, senza tuttavia alzare gli occhi verso di lei.

«Oh, questa poi!», fece la professoressa. «Guardati! Chiedi scusa a me?!». Si aggiustò gli occhiali sul naso, cercando di darsi un’aria più professionale, ma fu vano. Sospirò rumorosamente e si avvicinò di più a Severus. Il ragazzo non aveva intenzione di parlare con lei, almeno per il momento. I suoi occhi continuavano a fissare il fuoco come se per loro esistesse solo quello. Forse era stato convocato da Voldemort quella notte… forse era stato torturato, ferito… non sarebbe stata la prima volta. La professoressa, per un attimo, ponderò la possibilità di chiamare Madama Chips.

«Sei ferito?», chiese. Nessuna risposta.

Esasperata, la professoressa poggiò una mano sulla fronte di Severus. «Merlino, Severus, sei bollente. Sei andato da Poppy?», domanda sciocca. Certo che non c’era andato: Severus si sarebbe tirato una martellata sulla lingua piuttosto che dire a qualcuno che stava male.

«Per le sante mutande di Merlino, Severus, puoi dirmi che cosa è successo?!», esclamò esasperata dal silenzio del collega. Era preoccupata. Preoccupata a morte per lui e le faceva male vederlo in quello stato. Le aveva sempre fatto male.

«Nulla», rispose lui. «Non è successo nulla».

Minerva si inginocchiò di fronte a lui, cercando di cogliere il suo sguardo. Il pavimento era duro e certo la posizione non faceva bene alle sue povere ginocchia, ma in quel momento, le sue ossa era l’ultimo dei suoi pensieri.

«É successo qualcosa con Albus?», azzardò. Era dell’idea che il ragazzo si fosse legato troppo al preside, che coll’andare degli anni fosse diventato troppo dipendente da lui, dalla sua approvazione, dal suo affetto… o almeno da quello che Severus voleva fosse affetto.

Severus scosse il capo, tristemente, e la McGranitt fece una smorfia. Sì, Albus c’entrava qualcosa in tutto quello, ma Severus, ovviamente, negava.

«É solo che… è stato solo un incubo, va bene? Avevo solo bisogno di... di...» provò a dire Severus, ma le parole non riuscirono a nascere nella sua gola. Era così difficile esprimere certi sentimenti a volte, soprattutto per uno come lui che non era mai stato abituato a farlo. Non aveva mai avuto una famiglia, come poteva conoscere il misterioso logaritmo alla base di certi sentimenti? Neanche con Albus riusciva a parlare liberamente. Forse perché in realtà, nel profondo del suo cuore non lo voleva, aveva paura. Ma Minerva non era sciocca. Minerva aveva capito. Sorrise dolcemente.

«Capisco, Severus», disse quasi in un sussurro.

Severus parve non accorgersi di quelle parole sussurrate con una voce calda a cui non era avvezzo.

«Non volevo disturbarti. Non dovrei stare qui», disse tristemente, la voce improvvisamente carica di quell’odio che l’anziana professoressa conosceva bene, quell’odio che Severus rivolgeva a sé stesso, sempre, nella convinzione errata di non meritare nulla, neanche una goccia d’affetto.

«Oh, per favore, Severus!», sbottò Minerva, ma fu subito seguita da una smorfia di dolore. Era come se un aculeo incandescente le avesse appena perforato la tempia, si portò la mano alla fronte, massaggiandosi.

«Emicrania? Dovresti prendere qualche goccia di Saltapicchia», le disse allora Severus che non aveva mancato di cogliere il gesto. A quanto pareva aveva riacquistato il dono della parola… non che ne fosse molto dotato, comunque.

La professoressa mosse il capo verso destra levando gli occhi al cielo, mentre il dolore scemava lentamente. «L’emicrania aspetterà. Non è una priorità ora».

«E io lo sono?» domandò allora Severus con voce atona.

Minerva si alzò a fatica dal pavimento, gettandogli poi un’occhiata carica di rimprovero e di gentilezza. «Certo che lo sei», disse duramente. «Non so cosa tu possa pensare di te stesso, ma io sono fermamente del parere che tu stia almeno un gradino sopra a un mal di testa. Anche se a volte sai essere altrettanto irritante», concluse sorridendo.

Severus alzò gli occhi verso di lei. Erano ancora carichi di dolore e... disillusione? Forse, ma erano increspati dal leggero sorriso che corrugava le sue labbra, e li faceva scintillare alla luce aranciata delle fiamme, come se fossero stati sfiorati da un breve, effimero, soffio di vita.

Minerva gli sorrise. Almeno era riuscita a tirarlo un po’ su di morale. Non era una gran cosa, eppure sembrava che quella frase gli avesse fatto piacere e Minerva sapeva perché: per quanto lei ci avesse scherzato su un attimo prima, sapeva che Severus si considerava ben al di sotto di un dolore localizzato in un emisfero del cranio. Si allontanò un attimo per andare a riprendere la sua bacchetta, che aveva lasciato sul comodino in camera da letto. Tornata in soggiorno, si avvicinò alla credenza per prenderne una teiera e una bustina di tè. Tintinnii di cucchiaini e tazze e un tocco di bacchetta e il tè era pronto. La professoressa lo versò ancora fumante nelle due tazzine. Quindi prese la zuccheriera e con un gesto della bacchetta fece levitare le tazze stracolme di tè dorato verso il tavolino di fronte al caminetto, tra il divano su cui era seduto Severus e una grande poltrona verde scuro.

Lei si sedette sulla detta poltrona, prendendo con leggerezza una tazza e buttandoci dentro due zollette di zucchero. Il cucchiaino le seguì a breve, prendendo a girare il liquido dorato in un vortice caldo.

«E tu cosa ci facevi in giro per i corridoi di notte?», le domandò allora Severus, costringendola a spostare la sua attenzione dal cucchiaino all’uomo che aveva di fronte. «Non dirmi che volevi riprovare l’ebbrezza di vedere Weasley in pigiama», aggiunse questi ghignando malignamente.

La McGranitt lo guardò con occhio ammonitore. «Se avessi voluto vedere Weasley in pigiama non sarei scesa nei sotterranei. Era te che volevo vedere in pigiama, caro il mio rifornitore di Pozione Saltapicchia», gli rispose piccata.

«Beh, dovresti fare attenzione», le rispose Severus sollevando un sopracciglio, «andandotene così in giro di notte potrebbe capitare che qualcuno ti pesti la coda».

La McGranitt grugnì innervosita e preferì lasciar cadere quella discussione. Sapeva che altrimenti sarebbero andati avanti così a lungo e lei voleva godersi appieno il suo tè. E lo stesso doveva fare Severus, sempre che quel ghigno gli permettesse di berlo.

«Su», fece dunque Minerva a Severus mentre appoggiava poi il cucchiaino sul piattino di porcellana, «bevi. Un tè a mezzanotte... quando ti ricapita l’occasione?», aggiunse soffiando in un sorriso sul vapore caldo cha saliva dalla sua tazza.

Severus la guardò di sottecchi, ma sulle sue labbra sottili comparve un sorriso birbante che era riuscito a sfuggire alla presa ferma della mente e ad alleggerire la linea storta della smorfia che v’imperava. Il giovane si protese in avanti e prese la piccola tazza di porcellana bianca con... no. Quello era...?

«Che c’è, Severus? Ti fa ribrezzo poggiare le tue labbra sull’arme di Grifondoro?», gli disse furba la McGranitt, spiandolo da sopra il bordo della tazza da cui stava sorseggiando. Sembrava, in quel momento, il personaggio di una vecchia fiaba, una di quelle che si raccontano ai bambini Babbani prima di dormire. Una di quelle vecchie gatte con la veste e il grembiule che chiacchieravano amichevolmente con altre vecchie comari sorseggiando una tazza di tè fumante.

Severus sorrise a quell’immagine. Sì, era proprio una vecchia gatta. Ricordava di aver visto un’illustrazione sul libro di fiabe che sua madre gli leggeva da piccolo. Madama Baffolungo, si chiamava quel personaggio, se non ricordava male. Si portò il tè alle labbra ancora incurvate dal sorriso.

E Madama Baffolungo stava anch’ella sorridendo. Perché di fronte a lei ora c’era un giovane uomo sorridente, il cui dolore, insieme a qualunque terribile immagine il demone dei sogni avesse condotto nella sua mente, si era sciolto come ghiaccio al fumo di quella tazza di tè che gli nascondeva parte del viso. Incubi e mal di testa non erano poi così diversi, alla fine. E Minerva, a quanto pareva, aveva trovato un modo per liberarsene, almeno virtualmente: affogarli in una bella tazza di tè. E poi, il mal di testa potrà anche accanirsi contro Minerva McGranitt, ma quella seduta su quella poltrona non era lei: era solo una vecchia gatta con gli occhiali.

 





  
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