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Autore: LaniePaciock    29/03/2013    4 recensioni
Solo i pensieri di un padre che farebbe di tutto per riportare a casa la sua bambina.
[rating giallo causa linguaggio]
[spoiler 5x15-5x16]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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“Essere amati profondamente da qualcuno ci rende forti;
amare profondamente ci rende coraggiosi.”
Lao-Tzu


“Resta in macchina, Castle” gli ordinò Beckett. Non era uno dei suoi soliti comandi. Era diverso. Il tono lasciava intendere paura e ansia. Ma non doveva preoccuparsi. Questa volta avrebbe fatto esattamente come lei chiedeva. Non avrebbe sopportato di entrare in quella casa e scoprire che il tizio che cercavano, Stevens, non era lì, che avrebbero dovuto ricominciare di nuovo. No, non ci sarebbe riuscito.
Annuì piano, quasi assente, lo sguardo perso da qualche parte sul cruscotto davanti a lui. Il suo volto non lasciava intendere le sue emozioni, ma la mascella contratta e le rughe sulla sua fronte parlavano per lui. Kate annuì in risposta, mordendosi il labbro inferiore. Senza dire altro, uscì dall’auto.
Fu solo a quel punto che Rick alzò un poco lo sguardo per seguire con gli occhi Beckett, Esposito e Ryan avviarsi velocemente al palazzo davanti a lui. Li osservò aprire le fondine delle pistole appena prima di entrare. Quando sparirono all’interno del portone, si mise in attesa.
Mister Castle, you need to stay positive…”
La voce dell’agente Harris dell’FBI gli riempì la testa mentre osservava i passanti attorno a lui. Positivo. Come poteva essere positivo? Dove avrebbe trovato al forza? La sua bambina era stata rapita! La sua bambina… la sua Alexis…
“They took Alexis, too…”
Quelle sue stesse parole continuavano a rimbombargli in testa. Seguite sempre dalla stessa domanda: perché? Perché sua figlia? Perché non aspettare che Sara El-Masri fosse da sola e poi rapirla? Era un pensiero estremamente egoista, lo sapeva, ma perché non farlo? Possibile che fosse seriamente nel posto sbagliato al momento sbagliato? Eppure era quasi sicuro che le avessero trovate grazie al video blog di sua figlia… Seguivano Alexis perché sapevano che aveva quella pagina in internet, nella speranza che dicesse qualcosa su Sara? Oppure volevano proprio lei? Ma perché lei?
I can’t imagine what they’re going through right now…”
Aveva fatto appena in tempo a dirlo per i genitori di Sara, che il mondo gli era crollato addosso. Ora sapeva perfettamente come ci si sentiva. Sua figlia era stata rapita. Una delle sue peggiori paure si era materializzata con forza brutale contro di lui.
“I can’t believe this is happening…”
Lo aveva sussurrato a Kate quando l’aveva abbracciato al distretto. Quando le aveva fatto notare che la Gates avrebbe potuto vederli e lei aveva risposto che non le importava. In un altro momento, un qualunque altro momento, avrebbe fatto i salti di gioia. Ma non in quello. L’aveva stretta a sé perché aveva avuto bisogno di sentire il suo calore, la sua forza, la sua speranza. Perché lui all’improvviso ne era rimasto senza.
Gli occhi gli divennero lucidi per l’ennesima volta quel giorno. Sbatté le palpebre più volte per allontanare le lacrime, un groppo in gola tale che quasi gli impediva di respirare. Tirò su col naso e si mise a guardare le persone che passeggiavano tranquille fuori dal finestrino, ignare del suo dramma.
“Alexis is her father’s daughter. She is strong, and she is smart, and she is going to get through this…”
La voce di sua madre gli riempiva le orecchie. Sì, lei era forte e intelligente. Lei ne sarebbe uscita… doveva uscirne. Non avrebbe sopportato di andare avanti senza la sua bambina. Non ci sarebbe riuscito. Parte di lui sarebbe scomparsa con lei.
Castle, listen to me -”
“Don’t. Don’t promise me you’ll find her unless you can do it, because… I would never forgive you...anymore than I’d ever forgive myself.”
Le parole che aveva detto a Kate gli tornarono alla mente. In quel momento si era odiato. Ma lui conosceva il lavoro della polizia. Non voleva altre promesse. Voleva che la sua detective mettesse tutta sé stessa in quel caso. E sapeva che l’avrebbe fatto. Ma non voleva altre cazzate come “la troveremo, andrà tutto bene”. Non gli servivano. Lui rivoleva solo la sua bambina indietro. Non sarebbe mai riuscito a perdonare Kate se gli avesse promesso che la sua Alexis sarebbe tornata per poi invece trovarla… no, non voleva pensare a quello. Non doveva pensare a quello. Perché se solo l’avesse immaginato, aveva paura che sarebbe potuto accadere. Se solo avesse provato ad ascoltare quelle promesse, a dar retta a tutti i loro “andrà bene”, per poi vedersi infrangere ogni cosa davanti, non se lo sarebbe mai perdonato.
All’improvviso il suono del suo cellulare lo fece sobbalzare. Si passò una mano sugli occhi e rispose.
“Castle, abbiamo trovato Stevens” gli disse Beckett. “È in casa della sorella e come immaginavamo è ferito e quasi impossibilitato a muoversi per la perdita di sangue. Ora devo interrogarlo e…”
“Posso salire?” le domandò interrompendola. Ci fu qualche secondo di silenzio.
“Sì, vieni pure” rispose la donna alla fine. “Ti aspetto.”
“Grazie” mormorò lo scrittore. Chiuse la chiamata e si rinfilò il cellulare in tasca. Non sapeva se essere eccitato dalla scoperta o rassegnato al peggio. Non sapeva cosa avrebbe potuto dire Stevens. Non sapeva cosa aspettarsi.
Come un automa scese dall’auto e si diresse al palazzo. Entrò e chiamò l’ascensore per salire al piano in cui sapeva abitare la sorella dell’uomo. Perché il tempo sembrava passare insieme così veloce e così lento?
“What’s in the van??”
Il ricordo di quel momento terribile si fece strada nella sua testa mentre saliva.
“Lanie, whose blood is that? Did someone die in there? Lanie, did she die in there?!
Attimi di terrore. Terrore puro. Tutto quel sangue… E la sua bambina era stata lì dentro. Non avrebbe mai dimenticato quelli che furono non più che una manciata di secondi di attesa e che gli sembrarono l’eternità. Non credeva di essere mai stato più sollevato in vita sua quando Lanie gli aveva detto che il sangue non era di Alexis.
L’ascensore si fermò al piano con un piccolo sussulto. Scese e andò verso l’unica porta aperta del pianerottolo. Incontrò subito Esposito e Ryan che interrogavano una donna. Doveva essere la sorella di Stevens. Nel sentirlo entrare gli fecero un cenno con la testa.
“Beckett è da quella parte” lo informò Ryan indicandogli un piccolo corridoio laterale. Sembravano entrambi ansiosi. Castle fece un piccolo cenno d’assenso col capo, quindi si diresse lentamente verso il luogo indicato. Alla seconda porta notò Kate appoggiata allo stipite, le braccia incrociate, le labbra serrate, il viso pensieroso. Dall’interno sentì provenire un lamento e intravide, dalla porta semiaperta, una stanza con al centro un letto. Sopra vi era steso un uomo che respirava faticosamente. Aveva la camicia aperta e un largo cerotto bianco attaccato al torace che si stava rapidamente arrossando. Douglas Stevens.
Avrebbe voluto avanzare ancora, ma si bloccò come se il pavimento all’improvviso fosse stato pieno di colla. La detective dovette accorgersi di lui in quel momento perché alzò gli occhi. Forse per il lungo respiro che aveva preso quasi inconsciamente per calmarsi. Beckett si staccò subito dalla porta e gli venne incontro. Vedeva chiaramente che voleva dirgli qualcosa, ma sembrava indecisa sul come farlo. Lui la anticipò. Sapeva già cosa voleva chiedergli.
“Ti aspetto qui…” mormorò con gli occhi fissi su Stevens. Non aveva idea di quale avrebbe potuto essere la sua reazione in quel piccolo spazio con uno degli uomini che avevano rapito sua figlia. Era meglio farlo interrogare da Beckett. Se poi non avesse voluto parlare… beh… magari gli avrebbe dato un piccolo aiuto a sciogliersi la lingua.
Kate si morse il labbro inferiore e annuì. Quindi prese un respiro e si girò verso la camera. Entrò lasciando la porta spalancata in modo che il suo partner potesse sentire. Castle si appoggiò con la schiena al muro accanto alla porta e puntò lo sguardo davanti a sé in modo da non dover vedere l’uomo all’interno. Voleva disperatamente sapere e allo stesso tempo non voleva sapere nulla. Stevens doveva parlare. A ogni costo. Se ci fosse stata anche una minima pista da seguire, una minima speranza, lui l’avrebbe seguita a testa bassa. Nessuno avrebbe potuto mettersi in mezzo. Non l’avrebbe accettato. Non l’avrebbe permesso. Ma se invece avesse detto che sua figlia era… Il respiro gli si bloccò in gola. Scosse appena la testa. Aveva sentito la detective iniziare a parlare. Doveva ascoltare. Non poteva farsi prendere da quei pensieri. Non ora. Doveva restare lucido per Alexis. Per lei.
Girò appena la testa in direzione della porta, senza guardare però all’interno, e si mise in ascolto. Aggrottò appena le sopracciglia. Qualcosa non quadrava. Perché c’era solo la voce di Kate?
“The girls that you took, where are they?”
Silenzio. Rispondi Stevens. Ti prego, rispondi.
“Where’s your partner, Roger Henson?”
Ancora silenzio. La voce di Kate era dura, ma l’uomo sul letto sembrava che neanche l’ascoltasse. Non parlava.
Rispondi.
“Who put the two of you up to this?”
Rispondi, bastardo.
“I got nothing to say.”
Stronzate.
Rick strinse la mascella e rialzò gli occhi di fronte a sé. Stevens sapeva. Ma non parlava. Perché quel bastardo non parlava?
Sentì Beckett provare a convincerlo a sputar fuori quello che sapeva.
“Well, then you’re gonna go down for all of it. You were driving the van. That’s murder, two counts of kidnapping. Do you know how many years you’re gonna be in jail for? It’s in the triple digits.”
Rick sentì un lieve spostamento all’interno ed ebbe un piccolo moto di speranza.
Sì, Stevens, sarebbe stato un numero a tre cifre la tua prigionia. Ti fa paura? Bene. Ora rispondi.
“Tell us were the girls are. That’s your only hope.”
Rispondi!
“Let me know when my ambulance gets here.”
Figlio di puttana.
L’idea della prigione non era abbastanza. Il tono di Stevens era strafottente. Troppo per i gusti di Castle. Troppo per un uomo il cui unico informatore non vuole parlare. Troppo per un padre che farebbe di tutto per ritrovare sua figlia.
Non riuscì a trattenersi.
“I’d like a minute with him.”
Il tono era spento e terribilmente serio. Con una nota di disperazione e rassegnazione forse. Con la coda dell’occhio, Rick notò Beckett annuire piano. Lo raggiunse alla porta e uscì dalla camera, passandogli davanti senza una parola. Il fatto che non gli avesse chiesto nulla, fece capire subito allo scrittore che non l’avrebbe fermato. Aveva il suo silenzioso appoggio.
Castle entrò nella camera lentamente, senza alzare mai lo sguardo sull’uomo disteso sul letto. Chiuse la porta dietro di sé e fece scattare la serratura. Il rumore secco che provocò, sembrò molto più chiassoso nel silenzio. Come un colpo di pistola.
Rick era certo che i detective là fuori non lo avrebbero fermato. Ma loro non sapevano ancora fino a che punto potesse spingersi. Voleva evitare qualsiasi interruzione se l’uomo dietro di lui non avesse voluto parlare.
Stevens si mosse sul letto a disagio. Era convinto che non avrebbe potuto toccarlo. Ma il silenzio creatosi mentre entrava era troppo teso e pesante per mantenerlo. Inoltre la calma dello scrittore metteva paura.
“I just said I don’t want to talk…”
Dichiarò infatti velocemente. Il tono era ansioso e allarmato. Si stava agitando. Aveva intuito che c’era qualcosa che non andava. Conosceva la legge, visto che ci si era già scontrato. Nessun poliziotto poteva chiudersi a chiave in una stanza con un sospettato e senza un testimone.
“…so you can’t question me.”
Castle si girò lentamente verso Stevens mentre quello continuava a parlare. Ora che l’uomo aveva interrotto quel silenzio teso, sembrava di nuovo più sicuro di sé.
“I have rights. I’m not gonna say anything without a lawyer.”
“I’m not a cop.”
Rick lo interruppe bruscamente senza alzare la voce. Una semplice costatazione per fargli capire chi aveva davanti. Una pacatezza quasi glaciale nel tono che nascondeva una disperazione pronta a esplodere. Solo un lieve tremito della voce poteva farlo presagire.
Stevens lo guardò aggrottando le sopracciglia, più sorpreso che altro.
“Then who are you?”
“You remember the girl with the red hair?”
Replicò con un’altra domanda. Aveva ancora lo stesso tono piatto e terribile nella voce. Ma doveva fargli capire esattamente chi era, per fargli presagire fino a che punto si sarebbe spinto se non avesse aperto bocca.
“I’m her father.”
La voce gli uscì appena strozzata. Stevens sgranò gli occhi. Il suo respiro, già pesante, si fece più ansimante. Forse finalmente aveva capito. Forse avrebbe parlato. Perché lui non sarebbe uscito da quella stanza senza una risposta. Ottenuta in un modo o in un altro.
“Please know, I will do whatever it takes to get her back.”
Doveva capirlo. Doveva saperlo. Perché lui avrebbe fatto qualunque cosa per lei.
“Those police outside are my friends.”
Lo disse quasi in un sussurro. Un sussurro che fece deglutire e impallidire l’uomo davanti a lui.
“My daughter’s friends, too... So it’s just you and me.”
Nessuno poteva più salvarlo. Non da lui.
Stevens ansimò più di prima e si agitò sul letto. Il suo sguardo iniziò a vagare freneticamente in giro come per assicurarsi che davvero nessuno sarebbe potuto arrivare in suo soccorso.
Castle vide il dubbio, l’incertezza e la paura farsi strada nei suoi occhi. Forse non avrebbe dovuto torcergli neanche un capello. Forse avrebbe parlato da solo. Sperò che bastasse la sua sola presenza. Non voleva arrivare a toccare quell’uomo. Ma se le circostanze l’avessero richiesto, non avrebbe esitato. Neanche per un secondo. Per lei.
“If you touch me, I’ll press charges!”
Allora non aveva capito. Avrebbe potuto pure denunciarlo. Avrebbe anche potuto farlo sbattere in prigione o fuori dagli Stati Uniti o anche fuori dal mondo. Ma lui avrebbe avuto quell’informazione su sua figlia. A qualsiasi prezzo.
“I don’t care.”
Era arrivato il momento. Stavano perdendo tempo prezioso per Alexis. Aveva messo le carte in tavola. Gli aveva detto chi era e gli fatto capire chiaramente che nessuno dei due sarebbe uscito da quella stanza se lui non avesse avuto una risposta.
Ancora una volta l’agitazione di Stevens lo rese internamente speranzoso. Aveva paura di lui. Era ferito e non poteva scappare. E Castle si ergeva su di lui disperato, pericoloso e senza freni.
“Where are they?”
“I’m just a driver. I-I don’t know anything!”
Cazzate. Tutte cazzate. Tira fuori la verità, stronzo. Non costringermi a tirartela fuori a forza.
“You know Henson ditched the van for the black Yukon.”
Lo sapeva ovviamente. Non aveva bisogno di rispondere. Rick poteva leggerglielo in faccia meglio di un libro aperto.
Iniziò ad avvicinarsi lentamente al letto. Stevens d’istinto cercò di farsi più indietro, sudando e ansimando sempre più pesantemente, gli occhi agitati sgranati e puntati sullo scrittore.
"So where did he go? Where did he take the girls?”
Castle cercò di mantenere la sua voce sotto controllo, ma la nota di tensione fu ben riconoscibile stavolta. Non aveva più pazienza. Non aveva più tempo.
Stevens fece un breve cenno nervoso di diniego con la testa, come se la sua domanda non avesse risposta possibile. Guardò verso la finestra laterale della camera, sperando forse in un qualsiasi aiuto esterno. Ma non ci sarebbe stato nessuno. Nessuno lo avrebbe aiutato. Nessuno lo avrebbe salvato da lui se non gli avesse detto esattamente quello che voleva sapere.
“I won’t ask you again. Where did he take the girls?”
Ormai c’era solo disperazione nel suo tono di voce sussurrato e quasi rotto dall’angoscia. Doveva sapere. Subito.
Rispondimi, figlio di puttana. Dimmi dov’è mia figlia.
Ma Stevens scosse di nuovo la testa, agitato. Non avrebbe parlato. Neanche per paura. Quella consapevolezza investì Rick come un macigno. E per lui questo fu troppo.
Chiuse gli occhi.
Non si era mai spinto oltre il punto a cui sarebbe arrivato quel giorno. Ma non aveva alternativa. Stevens non voleva parlare. Aveva tentato di chiederglielo civilmente. Ci aveva provato. E aveva fallito. Non restava altro da fare. Perché non sarebbe uscito da quella camera a mani vuote. Era troppo disperato. Quell'uomo non sapeva cosa sarebbe stato in grado di fare un padre per sua figlia. Non gli dava altra scelta. Glielo avrebbe mostrato.
Strinse la mascella.
Stava per diventare uno dei personaggi che più odiava dei suoi libri. Il cattivo. Ma per salvare chi amava, a nulla sarebbero servite le suppliche o le minacce. Stevens gli avrebbe detto quello che voleva sapere. A costo di aprirgli a mani nude quel buco che già aveva nel petto. Si sentiva crudele. Si sentiva spietato. Ma per Alexis, per lei, avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Riaprì gli occhi.
Vide Stevens ansimare e sudare come mai alla vista del suo sguardo. Uno sguardo determinato. Glaciale. Pericoloso. Temibile.
L’uomo cercò di tirarsi indietro sul letto, ma era inutile. Non sarebbe bastato a sfuggire da lui. Non avrebbe mostrato pietà. Non stavolta. Per lei.
 
Castle aprì la porta velocemente. Lo scatto della serratura doveva aver attratto subito l’attenzione di Beckett, perché un attimo dopo se la ritrovò davanti nel piccolo corridoio fuori dalla stanza. Dall’interno provenivano respiri pesanti intervallati da gemiti di dolore.
“Le ha portate a Cold Spring al 74 di Goblin Street” le comunicò subito. La detective annuì e tirò fuori il cellulare per dare l’indirizzo al capitano Gates in modo da mandare immediatamente degli agenti sul luogo.
Con il telefono attaccato all’orecchio lo osservò. E i suoi occhi si puntarono quasi subito sulle mani dello scrittore. Rick la vide irrigidirsi mentre attendeva risposta dall’altro capo del cellulare. Abbassò lo sguardo per seguire quello di lei. E capì ciò che l’aveva impressionata. Le sue mani erano rosse di sangue. Un sangue non suo. Non se ne era nemmeno accorto tanto era concentrato nel far sputare fuori quelle poche parole a Stevens.
Non fece niente per nasconderle comunque. La detective non l’aveva fermato prima e anche ora sembrava quasi rassegnata da quello che vedeva. Non gli chiese né disse niente. Alzò solo gli occhi e li puntò nei suoi per un lungo istante. Aveva uno sguardo strano. Aveva… aveva paura di lui? Un secondo dopo però Castle capì di aver sbagliato. La sua musa non aveva paura di lui. Aveva paura per lui. Perché dopo quello che era appena accaduto sapeva che non si sarebbe più fermato. Non finché non avesse ritrovato sua figlia.
In quel momento il capitano Gates dovette rispondere perché Beckett spostò la sua attenzione sulla chiamata.
“Capitano, sono Beckett. Abbiamo un indirizzo” comunicò subito. Glielo ripeté e iniziò ad annuire involontariamente mentre ascoltava attenta il capitano. Poi si ricordò di Rick ancora davanti a lei. Con gli occhi gli indicò la porta chiusa davanti a lui. Castle la guardò interrogativo per un momento. Quindi si diresse verso la porta e la aprì. Era il bagno.
Annuì piano, senza voltarsi. Sentiva lo sguardo della sua donna su di sé. Entrò meccanicamente, quasi senza rendersene davvero conto, e con il gomito si chiuse dietro la porta. Non voleva lasciare altre tracce delle sue atrocità in giro.
Una volta chiuso fuori il mondo da quella stanza, Rick si guardò intorno. Il bagno era piccolo, pulito e completamente bianco. Così candido e lustro da dargli quasi un senso di claustrofobia. Perché lui si sentiva sporco come mai. Estremamente fuori posto in quel luogo. Sudicio non solo nelle mani, ma anche nello spirito.
Alzò lentamente le braccia e le guardò. Delle piccole gocce di sangue caldo colavano ancora dalle sue mani per andare a spiaccicarsi silenziosamente sul pavimento bianco accanto ai suoi piedi. Sulle dita invece delle macchie più rossastre indicavano i punti in cui il sangue si era già seccato.
Deglutì più volte a vuoto davanti a quella vista, la gola secca, il cuore in tumulto. Poi si riscosse. Come un automa, andò al lavandino e aprì il rubinetto dell’acqua fredda. Lentamente, ma con estrema cura, iniziò a rimuovere il sangue già in parte incrostato sulle sue mani e sotto le sue unghie. Quando furono abbastanza pulite, prese il sapone e lo strofinò forte su di esse. L’impegno che stava mettendo nel controllare ogni più infima piega della sua pelle era quasi maniacale.
Qualche minuto dopo le sue mani erano immacolate, solo un po’ arrossate per lo sfregamento continuato ed energico. Ora quelle erano pulite. Ma lui continuava a sentirsi sporco. Di una cosa però era certo. L’avrebbe rifatto altre mille volte se avesse voluto dire arrivare più vicino a salvare la sua bambina.
In quel momento qualcuno bussò alla porta e la aprì piano. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere chi era. Il profumo di ciliegie gli aveva fatto subito riconoscere la persona appena entrata.
“Castle…” mormorò piano Kate poggiandogli una mano sul braccio. Lo scrittore aveva ancora lo sguardo fisso e inespressivo sulle sue mani. “Rick...” lo richiamò ancora dolcemente. “Andiamo al distretto. La Gates ha già informato l’FBI e messo tutti a lavoro per trovare quel dannato posto. Appena scopriranno esattamente dov’è, manderanno gli agenti.” Attese una risposta dal suo partner che però non arrivò. L’uomo aveva la mascella contratta, lo sguardo fisso sulle sue mani e gli occhi che minacciavano di diventare lucidi.
“E se… e se fosse troppo tardi?” sussurrò con voce spezzata Castle. Avrebbe voluto correre lui stesso a quell’indirizzo, ma la paura folle di quello che avrebbe potuto trovare al suo interno lo bloccava sul posto come se avesse avuto cemento armato attaccato ai piedi.
Percepì Kate muoversi a disagio accanto a lui. Un momento dopo però sentì il suo tocco leggero sulle mani. Un brivido gli attraversò la schiena a quel contatto. Beckett gli tolse delicatamente dalle mani il sapone che ancora stringeva. Quindi lo tirò appena verso di sé per farlo girare e gli portò le mani al viso, costringendolo così a guardarla negli occhi.
“La troveremo, Rick” sussurrò la donna decisa. “Viva” precisò il secondo dopo. Castle prese un lungo respiro per calmarsi. Come poteva saperlo lei? Le aveva già detto che non voleva promesse! Come se gli avesse letto nel pensiero, Beckett continuò. “Non è una promessa, Castle. È una constatazione.” Lo scrittore aggrottò appena le sopracciglia, confuso. “Alexis è una ragazza forte. E se ha anche un centesimo della tua intraprendenza e cocciutaggine, allora non mollerà.” Un piccolo sorriso scappò dalle labbra dello scrittore. Kate mosse leggermente i pollici in modo da carezzargli le guance e insieme pulirgli le due lacrime che erano sfuggite al suo controllo. “La troveremo…” mormorò ancora la donna. Cercava di infondergli speranza dove ormai vedeva solo disperazione. Cercava di dargli forza contro la rassegnazione.
Rimasero per qualche attimo immobili, semplicemente a guardarsi. Quindi Castle deglutì e annuì piano. Beckett gli sorrise appena. Un sorriso triste. “Andiamo.”
 
Il viaggio in auto fu silenzioso. Accompagnarono prima Stevens, ancora sanguinante, in ospedale insieme alla sorella che non aveva voluto lasciarlo solo. Quando arrivarono, due agenti chiamati da Ryan erano già lì ad attenderli per tenere d’occhio l’uomo. Né Stevens né la sorella avevano accennato minimamente a quello che era successo nella camera da letto. Castle non sapeva bene con quali argomenti i detective li avessero zittiti, ma a lui non importava. L’unica cosa che voleva era essere libero di ritrovare sua figlia. Poi avrebbero pure potuto sbatterlo in cella per il resto dei suoi giorni.
Una volta arrivati al distretto, sia Beckett che Ryan parcheggiarono insieme nel sotterraneo. Poi però Esposito e il suo partner li precedettero sull’ascensore. Avevano notato infatti la detective rimanere un po’ indietro con lo scrittore. Sapevano che era un momento particolarmente doloroso per lui e volevano lasciargli qualche momento di tranquillità con la sua donna.
“Ehi…” lo chiamò dolcemente Kate una volta che i due furono scomparsi alla loro vista. Non c’erano altre persone in quel momento nel garage. Rick, che si stava sistemando con occhi assenti la giacca su un braccio, alzò lo sguardo su di lei. La osservò avvicinarsi e prendergli il viso tra le mani. Negli occhi della sua musa leggeva una voglia irrefrenabile di consolarlo, di dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma anche una grande impotenza. In quel momento infatti non potevano far altro che aspettare notizie dall’FBI e ci sarebbe voluto probabilmente ancora un po’ di tempo prima che arrivassero anche solo all’indirizzo indicato. “Stai bene?” domandò piano la donna preoccupata. Rick sorrise appena. Un sorriso triste e stanco. Kate lo osservò per qualche secondo, per nulla convinta di quello che vedeva. Quindi attirò appena il viso dell’uomo verso di lei e gli lasciò un piccolo bacio sulle labbra. Poi gli passò le braccia attorno al collo e lo abbracciò.
Rick si irrigidì un momento, sorpreso, ma poi contraccambiò la stretta con forza, affondando il viso nei suoi capelli. Dopo qualche secondo sentì alcune gocce d’acqua scivolargli lungo le guance e il naso. Lacrime. Non si era neanche accorto di avere iniziato a piangere. Neanche un singhiozzo era fuoriuscito dal suo petto. Ma non c’è la faceva più. Stava per scoppiare. Era terrorizzato. E il suo interrogatorio con Stevens l’aveva scosso più di quanto pensasse. Ma doveva essere forte per la sua bambina, per Alexis. Per lei.
Prese un respiro profondo, inalando l’odore ormai più che familiare di ciliegie di Kate, e si staccò. Già gli mancava il contatto con il corpo caldo e rassicurante della sua musa, ma non poteva cedere. Non ora.
Tirò su col naso e si pulì gli occhi e la faccia dai residui di lacrime, sotto gli occhi ansiosi della detective.
Aveva appena ripreso il controllo di sé che l’ascensore dietro di loro si aprì, rivelando la figura agitata del capitano Gates. Beckett la guardò sorpresa e allarmata. Se era scesa fin nel sotterraneo per recuperarli, allora qualcosa doveva essere successo nel frattempo. Il capitano li chiamò e li invitò a salire velocemente.
Durante il viaggio fino alla sezione omicidi, li informò che l’indirizzo che gli avevano dato era quello di una tenuta agricola sulla Route 301, a circa cento chilometri a nord da loro, e che gli agenti, capitanati da Harris, sarebbero arrivati a momenti sul posto. Castle si stupì di quella celerità, ma insieme gli diede una scintilla di speranza. Possibile che quell’incubo stesse davvero per concludersi?
Una domanda che poteva mandarlo in panico però gli premeva nella gola.
“And what will they do then?”
“Whatever is necessary to recover Alexis and her friend. But I’ll let you know the moment I have any news.”
Rick deglutì e annuì piano. Che altro poteva dirgli? Ma in fondo era proprio quello che voleva sentire. Che avrebbero fatto qualunque cosa. La ringraziò e il capitano, con un ultimo cenno della testa, si avviò al suo ufficio.
Ci fu qualche attimo di silenzio in cui lo scrittore si perse nei suoi pensieri. La voce di Kate però li interruppe bruscamente. In fondo non ne fu dispiaciuto. Se avesse rimuginato ancora su quella storia da solo, sarebbe arrivato a pensare solo il peggio. E non poteva permetterselo in quel momento.
“Do you want a coffee?”
Dopo quello che aveva appena passato?
“No, thanks. My adrenaline will suffice.”
Si allontanò dalla detective per andare a raggiungere Esposito alla sua scrivania. Era vero. L’adrenalina della giornata gli bastava. Ora sentiva che le cose si stavano muovendo, che stavano arrivando forse più vicini alla sua bambina. Lui doveva muoversi con loro. Doveva sapere.
Beckett chiese al detective se aveva novità sulla casa, mentre anche Ryan li raggiungeva, ed Esposito li informò che non aveva proprietario e che era sotto pignoramento dal 2009. Inoltre gli comunicò che era vuota e isolata.
A quella notizia Rick si fece più pallido e preoccupato. Isolata. Voleva dire che se anche le ragazze avessero urlato, nessuno le avrebbe sentite. Voleva dire che il minimo movimento intorno alla casa sarebbe stato notato. Voleva dire che la vista di un solo agente al di fuori, avrebbe potuto far rischiare la vita di sua figlia.
Beckett dovette leggergli subito quei pensieri in faccia perché si affrettò a rassicurarlo.
“Look, the FBI knows what they’re doing. They’re trained in hostage rescue. Alexis is in the best possible hands.”
A quelle parole Rick annuì piano. Sapeva che la sua musa aveva ragione. L’FBI aveva bene in mente come muoversi. Ma questo non voleva dire che fosse meno preoccupato.
Come ulteriore conforto, Ryan alzò la radio che aveva in mano.
“I’m tied into state police dispatch. Feds are on the scene now.”
Rick annuì nervoso. Erano arrivati. Ora non restava che aspettare.
Con un sospiro andò a sedersi sulla scrivania di Beckett in modo da avere una buona visuale dell’ufficio della Gates. Il capitano all’interno si muoveva impaziente intorno al telefono sul suo tavolo. Ryan l’aveva raggiunta con l’auricolare della radio attaccata all’orecchio e la teneva informata sugli sviluppi.
Con la coda dell’occhio notò Kate sedersi poco lontano da lui. Il suo sguardo però rimase fisso sull’ufficio del capitano. Era immobile e terribilmente concentrato. Non avrebbe saputo dire da quanto tempo fosse bloccato lì. Non aspettava altro che uno squillo di quel maledetto telefono e insieme sperava che non suonasse mai. Appena la Gates avesse alzato il ricevitore infatti, avrebbe avuto notizie su sua figlia. In bene o in male. E aveva un terrore cieco di questa seconda possibilità.
“The minute she knows you’ll know.”
La voce di Kate lo fece sobbalzare. Aveva dimenticato che era accanto a lui. Sospirò.
“I wish that minute was now. It’s all happening too fast and too slow at the same time.”
Non aveva senso nasconderle ciò che sentiva. Rimanere nell’incertezza è una cosa orrenda. Non sapere nulla di quello che accade e sentirsi completamente impotenti.
Rimasero qualche attimo in silenzio in cui Rick riprese a controllare nell’ufficio del capitano. Sembrava che niente fosse cambiato.
“Tell me what happened with Douglas Stevens.”
Quella richiesta lo fece irrigidire. La voce di Beckett sembrava sicura e allo stesso tempo timida. Castle rivide di nuovo quello sguardo che aveva già notato in precedenza negli occhi della sua musa: paura. Paura per lui.
Distolse lo sguardo e lo puntò di nuovo nell’ufficio della Gates. Rispose senza guardarla.
“I appealed to his humanity.”
Rick sapeva già che non gli avrebbe creduto. La detective doveva aver sentito chiaramente le urla di Stevens al di fuori della stanza. Ma in effetti in qualche modo era vero. Si era appellato alla sua umanità. Quella fisica. Di essere umano che prova dolore.
“I don’t think you had that side of you.”
Le parole di Beckett erano poco più che sussurrate, ma lo colpirono a fondo. Rick strinse di nuovo la mascella e tornò a guardarla negli occhi. Il suo sguardo era serio. Davvero non credeva possibile che lui fosse capace di tanto? Non mostrava spesso quel lato di sé, eppure la donna avrebbe dovuto ormai sapere che chiunque avesse osato minacciare qualcuno che amava non avrebbe avuto vita facile. Doveva ricordarle di quando aveva preso a cazzotti, fino a farlo sanguinare, Lookwood pronto a spararle un paio di anni prima? O di quando le aveva nascosto che stava indagando da solo sugli assassini di sua madre per proteggerla? O di quando era entrato nella sua casa in fiamme per ritrovarla? O delle volte che le aveva salvato la vita incurante della sua?
“Well, when it comes to the people I love, I do.”
 
Castle rimase ancora diversi minuti immobile in attesa di un segno da parte di quel maledetto telefono. Neanche Beckett si era mossa dalla sua postazione accanto a lui. E per tutto il tempo aveva sentito gli occhi di lei su di lui. All’improvviso Kate si alzò e gli si parò davanti, oscurandogli la vista dell’ufficio del capitano. La guardò sorpreso e un po’ irritato.
“Il telefono non scapperà a nascondersi quando squillerà” gli disse la sua musa con un piccolo sorriso. Vedendolo sospirare, tornò a un tono più serio. “Castle, la Gates ti avvertirà subito. Vieni con me” aggiunse poi allungandogli la mano. “Hai bisogno di riposarti un momento.” Lo scrittore la osservò combattuto per qualche attimo. Sentiva che aveva bisogno di togliersi da quella posizione scomoda e di staccare per un po’ gli occhi da quel telefono. Ma allo stesso tempo aveva paura che non appena si fosse mosso sarebbe successo qualcosa. Kate capì subito il suo conflitto interiore e gli fece un’altra proposta. “Se preferisci possiamo restare qui, ma che ne dici se almeno ci mettiamo un po’ più comodi?” disse indicando con un cenno del capo la sua sedia e quella usata di solito da lui accanto alla scrivania.
Rick le sorrise appena come ringraziamento, sollevato. Quella soluzione gli piaceva di più. Prese la mano che Kate gli tendeva e si alzò. Strinse per un momento la presa su di lei, prima di lasciarla andare. Avrebbe voluto tenerla per mano, aggrapparsi a lei quasi, sentire il suo calore e conforto sulla pelle, ma era ancora conscio di dov’erano.
Fece il giro del tavolo e aiutò Beckett a spostare le sedie in modo che fossero una davanti all’altra di fronte alla scrivania e con la sua puntata verso l’ufficio della Gates. Si sedette poi stancamente su di essa e si passò nervosamente una mano tra capelli. Voleva che quell’incubo finisse, che la sua bambina tornasse a casa. La sua bambina… forse sarebbe stato meglio dire la sua donna. Perché quello ormai era diventata Alexis: una donna. Lui però l’avrebbe sempre vista come quel fagotto che gli avevano messo in mano alla sua nascita.
Perso nei suoi pensieri, percepì comunque Kate sedersi davanti a lui. Gli prese la mano. Quel semplice gesto lo confortò. Erano in mezzo al distretto, la Gates avrebbe potuto vederli, ma a lei, alla sua musa, non importava. Osservò le loro mani unite. Le aveva mai detto di quando era nata Alexis? Perché non l’aveva fatto? Eppure era uno dei ricordi più belli che avesse.
“You know, I still remember… when Alexis was born they handed me this tiny person, all bundled up.”
La sua voce era poco più che un sussurro, in modo che solo la sua donna potesse sentire. Kate sorrise dolcemente alla sua descrizione della piccola Alexis appena neonata.
“She just… stared at me. And when I looked down at her, this feeling hit me. Like I’d been struck by lightning.”
Non avrebbe mai dimenticato quel momento. L’esiguo peso della sua bambina fra le braccia. Il calore sprigionato dal suo piccolo corpo che gli era entrato subito nel cuore, riscaldandolo in meno di un attimo. I suoi occhietti blu curiosi e già spalancati su di lui.
“It was love. That instant, inexplicable love you can only feel for your child. In that moment I knew. I knew my life had changes forever.”
Sorrise appena. In quell’attimo la sua vita era cambiata. Aveva preso una svolta così radicale e speciale che non lo avrebbe mai creduto possibile. Il sentimento che gli era nato per quel tenero fagotto era qualcosa di unico che non sarebbe mai scomparso né diminuito. Ricordava bene il pensiero che aveva avuto all’epoca, di aver creato qualcuno di così bello e insieme così fragile. Qualcosa che avrebbe dovuto proteggere. Sempre.
Il suo viso si rabbuiò.
“And now it’s about to change again.”
Aveva fatto appena in tempo a dirlo che il telefono nell’ufficio della Gates squillò. Scattò in piedi e la raggiunse senza quasi dare neanche il tempo a Kate di realizzare la cosa. Si fermò a pochi passi dal capitano, sollevato e insieme terribilmente preoccupato per quella chiamata. Sentì Beckett arrivare dietro di lui. Attese, impaziente e nervoso, che la Gates finisse la chiamata. Quando il capitano mise giù il telefono pochi attimi dopo, gli sembrò che il mondo si fosse fermato in attesa della risposta alla sua silenziosa domanda. Aveva anche smesso di respirare.
“The farmhouse was empty. Alexis and Sara are not there.”
Quella notizia lo colpì come un macigno. Si aspettava una notizia buona o una cattiva. Non aveva pensato a mezze possibilità. Non aveva pensato di non poter ancora conoscere la sorte della sua bambina. Da un lato ne fu sollevato. Dall’altro schiacciato. Quando sarebbe finito quell’incubo?
 
Andò insieme a Beckett al cottage sulla Route 301. Doveva controllare di persona che l’agente Harris e il suo gruppo non avesse tralasciato neanche uno spiraglio in cui potesse essere stata nascosta sua figlia. Una volta arrivato, gli confermarono che non c’era traccia delle ragazze. Dovevano però essere passate per forza da lì perché due giacche, una verde e una grigio chiaro, erano state ritrovate abbandonate. E la prima era di Alexis.
Harris ipotizzò che il cottage fosse solo una tappa di passaggio verso un altro luogo in cui nasconderle. Inoltre gli disse che molto probabilmente i rapitori erano professionisti. A quanto pareva infatti c’erano delle telecamere esterne che avevano ripreso ogni singolo istante della loro irruzione, mandando poi le immagini in streaming a un indirizzo IP anonimo. Lo stesso che aveva visitato il sito di Alexis con il quale avevano saputo dove prelevarle. Con quasi zero possibilità di rintracciarlo.
Castle era sempre più sconvolto da queste rivelazioni. Perché dei professionisti avrebbero dovuto rapire due ragazzine? Anche se avessero voluto dei soldi come riscatto, perché prendersi tutto quel disturbo? Perché non chiamare semplicemente e chiedere una somma in denaro? Sarebbe stato tutto molto veloce perché sia lo scrittore che il padre di Sara avrebbero pagato immediatamente qualsiasi cifra.
La cosa che lo sorprese, sconvolse e terrorizzò di più però fu la scoperta di un cadavere all’interno della casa: quello di Roger Henson. L’uomo, che da una telecamera avevano scoperto essere uno dei rapitori delle ragazze, in quel momento era davanti a lui legato a una sedia con una pallottola in testa e senza più unghie. Solo dita rosse con sangue rappreso. Sentì a malapena Harris dire che i torturatori sapevano bene quello che facevano. A lui martellava in testa una sola domanda: perché?
“I don’t understand. Henson was working for the kidnappers. Why would they torture him?”
“I don’t know.”
La risposta di Harris non gli piacque per niente. Non poteva sperare di liquidarlo con un ‘Non lo so’.
“Well, then what do you think? What is your best guess as to what this mean for Alexis? For the girls?”
Se prima aveva cercato di mantenere un tono pacato, ora il terrore e la rabbia trasparivano da ogni parola. Se avevano fatto questo a un loro complice, doveva sapere cosa sarebbero stati in grado di fare quei bastardi a sua figlia.
“It means getting them back may be a little more complicated.”
Riportò lo sguardo terrorizzato sul cadavere davanti a lui. Dovevano ritrovare Alexis e Sara. Subito.
 
Il ritorno al distretto fu ancora più silenzioso e teso di quando avevano accompagnato Stevens in ospedale. Castle era completamente perso nei suoi tetri pensieri. Beckett aveva cercato all’inizio di farlo parlare o reagire, ma nulla era servito. Così aveva finito per rimanere in silenzio anche lei, preoccupata per il suo uomo e per la sorte delle due ragazze. Dopo aver visto una scena del genere poteva solo immaginare quale fosse lo stato d’animo del suo partner.
Rick fu contento che la detective non avesse insistito a voler parlare. Voleva solo svegliarsi e scoprire che era tutto un sogno, che in realtà la sua bambina era tranquilla a casa addormentata nel suo letto. Ma sapeva lui stesso che non era così. Lo scrivere libri gialli e il lavorare con Beckett lo avevano portato a venire a patti con la cruda realtà e a pensare ogni possibile scenario. Anche e soprattutto i peggiori.
Una volta arrivati al distretto, si andò a sedere senza una parola sulla scrivania di Kate davanti alla lavagna bianca usata per gli omicidi. La foto di sua figlia attirava il suo sguardo come un magnete. Era sorridente lì. Gli sembrava quasi che i suoi occhi azzurri lo guardassero e per un attimo poteva fantasticare che lei fosse lì, davanti a lui. Quasi poteva arrivare a sentire il suo profumo leggero. Ma poi vedeva il suo nome, ‘Alexis Castle’, scritto a grandi lettere all’altezza del suo collo chiaro e il mondo gli crollava di nuovo addosso. Vedere la sua immagine su quella lavagna era un incubo che lo aveva perseguitato spesso. E il sapere di non poter fare niente, di poter solo attendere gli eventi, lo faceva impazzire.
Rimase da solo a fissare quella foto per non avrebbe saputo dire neanche lui quanto tempo. Doveva essere tardi però perché attorno a lui non percepiva più i rumori giornalieri del distretto. Solo quiete.
“There are hopeful signs here, Castle.”
La voce della sua musa non lo sorprese. Inconsciamente aveva percepito il suo avvicinamento. Forse per il rumore caratteristico dei suoi tacchi. O per il profumo di ciliegie che sprigionava. O per l’aroma di caffè che aveva iniziato ad aleggiare per l’aria.
“They’ve gone out of their way not to harm the girls. They want them alive.”
Sì, le volevano vive, ma per quanto tempo? Un’ora? Un giorno? Una settimana? Fino a un eventuale riscatto? Per quanto tempo?
“That’ll give us time to track down whoever is behind this.”
Castle aggrottò le sopracciglia.
“How?”
La voce gli uscì rotta e sentì gli occhi farsi lucidi. La sua domanda dovette far colpo su Kate perché rimase in silenzio. Questo gli diede qualche secondo per cercare di riprendere un tono meno disperato.
“Our main suspect is dead. The only thing Stevens knew is where the farmhouse is, and…”
Puntò ancora una volta gli occhi sull’immagine di sua figlia sorridente. Perché lei? I rapitori non avevano ancora chiesto nessun riscatto, né altro. Cosa volevano? Chi erano?
“We have no idea who we’re looking for.”
La voce quasi gli morì in gola. Non sapendo cosa cercare, difficilmente sarebbero mai arrivati a una soluzione. Quei bastardi erano professionisti. Non avevano fatto errori. Non avevano lasciato tracce. E loro non avevano nessuna pista da poter seguire.
“The FBI is searching the farm for evidence.”
Beckett parlò a bassa voce, come se questo potesse rassicurarlo o calmarlo. Non avrebbero trovato niente e lo sapeva.
“They’re canvassing the area for witnesses that might have seen whoever was on the property.”
Rick scosse la testa, come a ritenere impossibili quelle parole.
“All of which is just another way of saying that we’re back to square one.”
La sua risposta fu allo stesso tempo sarcastica e disperata. La voce quasi gli tremava e aveva gli occhi lucidi. Non c’è la faceva più. Era stanco e preoccupato. E ogni secondo che passava si sentiva più lontano dalla sua bambina invece che più vicino.
Udì Beckett muoversi dietro di lui. Appena lei si portò davanti alla sua vista, abbassò lo sguardo. Non voleva leggere la pietà nei suoi occhi. Non voleva altre rassicurazioni.
“Won’t be the first time.”
Il sussurro di Kate gli fece alzare di nuovo gli occhi su di lei. Gli stava sorridendo dolcemente.
“We’re gonna solve this, Castle.”
Avrebbe dato qualunque cosa perché ancora una volta la sua detective avesse ragione.
“We will find a way. We’ve done it before with less to go on. You know who told me that?”
Rick abbassò lo sguardo e annuì piano. Certo che sapeva chi aveva detto quella frase.
“I did.”
La voce gli uscì spenta. Come avevano potuto esserci stati dei giorni in cui era così fiducioso?
“In a fit of irrational optimism.”
Alla sua uscita Kate sorrise appena. Poi tornò più seria.
“Castle, go see your mom.”
La guardò stupito. Cosa?? Lo stava mandando via? Ma non poteva!
La sua musa insistette.
“Go home, get some rest. Come back in the morning. No one is giving up here.”
Rick scosse la testa e si alzò in piedi.
“No, I-I can’t. I’m…”
Kate gli mise davanti uno dei due contenitori da caffè che aveva tenuto in mano fino a quel momento.
“Here’s a decaf. It’s for the road.”
Lo scrittore non la guardò, gli occhi fissi sulla bevanda. Lei aveva già deciso per lui che doveva tornare a casa. Forse aveva ragione, aveva bisogno di riposare, ma sarebbe voluto restare. Si sentiva già abbastanza impotente al distretto. A casa si sarebbe sentito ancora peggio. Voleva esserci per le prime notizie in arrivo su sua figlia. Ma non voleva lottare anche contro di lei. Non ne aveva la forza. Beckett lo stava mandando via per riposarsi e lo sapeva. Ma lui si sentì ugualmente scacciato.
Annuì appena e le prese il contenitore dalle mani, bene attento a non sfiorarle la pelle neanche per sbaglio.
“Thank you.”
La ringraziò con un tono da cui traspariva chiaramente il fastidio per quella richiesta. Una breve occhiata alla faccia della detective gli diede conferma di quanto l’avesse colpita quel tono. Sembrava stupita e combattuta. Voleva dirgli qualcosa, glielo leggeva chiaramente in volto. Ma lui non le diede il tempo di aprire bocca. Voleva che tornasse a casa? Allora a casa sarebbe tornato. E senza voltarsi indietro.
Si girò e prese la strada per l’ascensore senza dire altro, il contenitore di caffè quasi abbandonato in mano.
 
Mezz’ora dopo Castle entrò al loft. Sua madre gli venne incontro preoccupata per sapere se c’erano novità. Gli fece male doverle raccontare quello che era accaduto durante il giorno. Dalla scoperta del luogo in cui si nascondeva Stevens, al cottage in mezzo al nulla con le giacche di Alexis e Sara all’interno insieme al cadavere di uno dei rapitori. Evitò di dirle dell’interrogatorio che aveva condotto personalmente sul’autista del furgone usato per il rapimento. Non era il caso di turbarla più del necessario. Alla fine la abbracciò stretta e ancora una volta fu lei a rassicurarlo sul ritorno di Alexis. Da dove prendesse tutto quell’ottimismo per lui era un mistero.
Martha gli fece mangiare a forza qualcosa per tenerlo su, quindi offrì del cibo anche agli agenti dell’FBI presenti per monitorare i suoi telefoni in caso di chiamata dai sequestratori.
Come lo scrittore aveva sospettato, lo stare in casa contribuì solo a farlo stare peggio. Tutto ciò che gli ricordava Alexis era intorno a lui. Non aveva la voglia, né la forza di fare niente. Voleva che quel giorno orrendo finisse e allo stesso tempo non finisse mai, perché la sua bambina poteva non avere un giorno di più.
Si accasciò stancamente su una poltrona del salone e appoggiò un gomito sul bracciolo, la testa sulla mano. Tirò quindi fuori il cellulare dalla tasca e lo lasciò sul tavolino accanto a lui. Poi, senza neanche rendersene conto, chiuse gli occhi e si assopì.
Dopo quello che gli parve qualche secondo, un suono cadenzato e particolare lo fece risvegliare. Automaticamente puntò gli occhi sul cellulare davanti a lui. E si rizzò immediatamente. Il telefono lampeggiava e stava squillando! Ma… per una chiamata su Skype??
Senza pensarci un secondo di più si alzò, prese il telefono e si diresse subito dagli agenti FBI, che già si erano messi in azione sui loro computer per rintracciare la chiamata.
“Were you expecting someone to Skype you?”
“No.”
Il numero era sconosciuto. Forse finalmente i rapitori avevano deciso di farsi vivi.
Aspettò impaziente un segno dagli agenti quando fossero stati pronti. A un cenno di uno prese la chiamata. Il cuore iniziò a martellargli forte nel petto e un’ondata di sollievo lo travolse quando il viso di Alexis comparve sullo schermo del cellulare.
“Alexis!”
Dio, la sua bambina era viva!!
“Daddy?”
La sua voce! Quanto gli mancava la sua voce! Ma qualcosa non andava… il suo tono era spaventato. Doveva essersi liberata, ma non era ancora fuori pericolo.
“Oh, my God! I tried to call 911 but it wouldn’t go through.”
Alexis parlava veloce e piano, terrorizzata. I suo capelli rossi erano scompigliati intorno al volto. Fisicamente però sembrava stare bene.
“Baby, are you okay? Where are you?”
Il sollievo e la preoccupazione facevano a pugni nella voce dello scrittore. Doveva trovarla. Subito. Prima che la scoprissero e fosse troppo tardi.
“I don’t know!”
Era nel panico. Dio, avrebbe voluto teletrasportarsi ovunque fosse e abbracciarla forte.
La vide guardarsi intorno, gli occhi sgranati dalla paura, prima di tornare a fissarsi su di lui.
“The phone’s about to die… I-we’re-we’re in some building. We are locked in a room but we got out.”
“Where? What building?”
Prima avessero capito dove stavano, prima sarebbero riuscite a recuperarle.
Avanti, piccola, dove sei??
“What’s out-what’s outside the window?”
“Nothing! I can’t see anything outside. The windows are covered up.”
Appena detto questo, la vide girarsi all’indietro in ascolto. Era tesa e quasi tremava. Rick stava male al solo vederla in quello stato.
“They’re coming.”
La sua voce era diventata appena un sussurro. Una constatazione disperata. Fu una coltellata al cuore per lo scrittore.
“They’re coming. They found out we’re gone.”
A quelle parole le ordinò l’unica cosa che gli venisse in mente.
“Baby, get out of there. Get out of there now.”
Che faceva ancora lì?? Doveva scappare!! Alexis, corri!!
“Go! Go!”
Finalmente Alexis lasciò il telefono e sparì velocemente fuori dalla sua visuale. Una strana immagine, come di un muro di cemento graffiato, gli si parò davanti al suo posto, ma non vi badò. Rivolse subito la sua attenzione agli agenti dell’FBI. La chiamata era durata sicuramente abbastanza perché la rintracciassero. Doveva esser durata abbastanza. Perché doveva sapere subito dov’era.
“Can you tell where the call’s coming from?”
“Tracking now.”
La risposta non gli bastò. Gli agenti lavoravano velocemente ai loro computer, ma ancora non erano arrivati a un luogo. Perché non l’avevano già rintracciata?? Dovevano sbrigarsi! Sua figlia era in pericolo!
Quei pochi secondi di attesa furono tra i più lunghi della sua vita. Poi finalmente ci fu un segnale del monitor con una risposta. Ma la faccia dell’agente che la lesse era confusa.
“This can’t be right.”
Cosa??
“Why? What is it?”
“This says that the call originated from a cell tower in… Paris, France.”
Castle passò alternativamente lo sguardo attonito tra i computer e l’agente. Parigi?
 
Il resto della nottata fu un inferno. Rick non sarebbe riuscito a chiudere occhio neanche volendo, nonostante la stanchezza. Il pensiero di Alexis così terrorizzata lo stava uccidendo. Gli agenti avevano provato a ridurre il campo di provenienza del segnale in ogni modo con scarsi risultati. Non erano riusciti a ricavare niente nemmeno dal video. Le pareti potevano essere di un posto qualsiasi e i rumori in sottofondo erano quasi irriconoscibili. Gli El-Masri erano già stati avvertiti della tentata fuga delle ragazze dall’FBI. Nel giro di qualche ora, alle prime luci dell’alba, erano già di nuovo riuniti al distretto per capire come procedere con questi nuovi sviluppi.
Quando Castle era arrivato, aveva trovato Beckett già lì ad aspettarli insieme alla Gates e all’agente Harris. Si era chiesto se Kate avesse dormito almeno un po’ al distretto o non avesse dormito affatto. Le leggere occhiaie camuffate dal trucco l’avevano fatto propendere per la seconda ipotesi. Internamente la ringraziò per questo.
Harris li fece radunare nella sala riunioni del distretto. Lo scrittore sperò che finalmente fossero arrivati a una qualche risposta, ma la faccia dell’agente non presagiva nulla di buono. Senza giri di parole prese subito la parola, ancora stupito dalla scoperta del luogo del rapimento.
“They’re in another country. How is that possible?”
“We don’t know. But clearly the kidnappers were working for outside interests. The voices on the call have been identified as Egyptian.”
Ezigiani… Gli El-Masri erano egiziani, quindi non era difficile fare due più due. L’estorsione, i soldi, non c’entravano nulla.
“This isn’t a kidnapping for ransom, is it?”
La domanda era rivolta a tutti, ma Castle guardò chiaramente verso Anwar El-Masri. Il tono era quasi sarcastico. La disperazione, più che la rabbia, era malamente nascosta dalla sua voce. Rick vide l’uomo chiudere gli occhi alla sua constatazione, quasi si fosse appena accorto che quello che era stato era successo a causa sua.
Un pensiero infimo nella sua mente gli diede ragione e diede la colpa a lui per il rapimento della sua bambina. Era lui a essersi fatto nemici in Egitto. Sua figlia era capitata in mezzo per caso. Stava vivendo un incubo per colpe non sue. Ma ora che avevano scoperto la nazionalità dei rapitori e il luogo in cui tenevano nascoste le ragazze, doveva per forza essere a conoscenza di qualcosa, un motivo per cui erano lì.
Why are they in Paris?”
“I don’t know.”
Cosa? Scherzava? Come poteva non sapere! Doveva sapere!
La voce di Anwar era stanca, distrutta, ma Rick ci fece poco caso. Lo attaccò di nuovo con più forza e rabbia.
“They took your daughter there and my daughter along with her. There must be a reason.”
“I don’t know!”
Ancora una volta non percepì minimamente il tono colpevole e disperato di El-Masri. Non volle sentirlo. Non poteva non sapere. La vita di sua figlia poteva essere appesa con un filo alle sue conoscenze.
Senza dargli respiro, gli diede addosso di nuovo con ancora più rancore.
"They are covering their tracks! Why?”
“Please!”
La voce rotta dal pianto della moglie lo fece rinsavire.
"They have our daughter, too.”
Si sentì un verme. Nella sua furia aveva parlato senza pensare che la sua non era l’unica figlia rapita. Abbassò lo sguardo e si calmò, sentendosi all’improvviso terribilmente stanco. Si appoggiò con le mani sul tavolo, la testa bassa. Possibile che non ci fosse nessuno che potesse dargli una sola, maledetta risposta?
Un attimo dopo Harris disse al capitano Gates di far vedere loro un identikit. A quanto pareva un vicino aveva visto un uomo uscire dalla tenuta subito dopo il rapimento delle ragazze. Castle alzò la testa a quell’affermazione. Che fosse uno dei bastardi che avevano rapito la sua bambina? O forse era anche lui lì per caso? Avrebbero potuto riconoscerlo?
Il capitano passò agli El-Masri l’identikit, ma entrambi dichiararono di non riconoscerlo. Diede una copia anche allo scrittore. Il disegno rappresentava un uomo piuttosto anziano, capelli corti, un poco di barba, sopracciglia scure, bocca sottile, naso un po’ largo. Lo osservò per qualche istante. Poi scosse la testa. Non l’aveva mai visto. Un altro buco nell’acqua. Un’altra persona senza nome.
Esaminò di nuovo il ritratto, quasi sperando che un nome spuntasse all’improvviso da solo fuori dal foglio. Sentì Kate sospirare frustrata e stanca accanto a lui un attimo prima di prendere parola. Era la prima volta che lo faceva da quando erano lì riuniti.
“So what’s our next step?”
“The Skype call was made over a cellular data network. So we have isolated the signal to a 30 square kilometer area.”
A Rick si formò un groppo in gola alle parole di Harris. Trenta kilometri. L’intera città di Parigi in pratica. Kate espresse il suo stesso pensiero.
“30 square kilometers is the whole city.”
“I know. But hopefully and analysis of the video will give us a clue as to where they’re being held. In the meantime we’re reaching out to the embassy to establish– ”
Cosa?? Stavano ‘contattando’?? Non si stavano muovendo già??
Interruppe bruscamente Harris, più stupito che arrabbiato.
“Reaching out? What does that mean?”
“There are certain protocols we have to follow before we can move forward. Permissions we have to get.”
Castle prese un respiro prima di parlare, cercando di calmarsi. Capiva di cosa parlava l’agente. Alexis e Sara erano in un paese straniero su cui non avevano giurisdizione. Avevano bisogno del permesso dei francesi per poter operare a Parigi. Un’altra domanda però gli premeva in gola. Avevano bisogno di fare in fretta. Quanto tempo avrebbero perso?
Dopo un momento si decise a chiederlo.
“And how long will that take?”
“A day or two at the most.”
La risposta di Harris lo lasciò incredulo. Lo guardò come se fosse impazzito.
“A day or –”
Stava scherzando, vero? Le ragazze erano in pericolo! Dio, avevano anche cercato di scappare! Quanto potevano essere clementi quei bastardi? Dovevano muoversi! Era questione di ore! Non potevano permettersi di perdere giorni!
“Our daughters are out there right now. They need our help right now!”
Attaccò Harris ad alta voce senza riuscire a trattenersi. Il tono disperato, rabbioso e incredulo. Il tono di un padre a cui stavano negando la possibilità di recuperare il prima possibile la sua bambina.
“If you want to help your daughter, you’re going to have to be patient.”
Di nuovo. Doveva essere paziente, doveva aspettare. Non ne poteva più. E non ne poteva più neanche di sopportare tutta quella calma di Harris. Se solo si fosse lasciato andare era sicuro che avrebbe girato attorno al tavolo e preso a pugni l’agente fino a lasciarlo tramortito a terra. Sentiva lo stesso sentimento letale che aveva avuto in quella camera con Stevens. Solo che ora non poteva sfogarlo. Il non fare niente l’avrebbe ucciso perché prima o poi sarebbe esploso.
Strinse i pugni e la mascella, uno sguardo omicida puntato su Harris. Rimase a fissarlo qualche secondo. Poi senza preavviso si girò e uscì dalla sala riunioni. Se l’avesse avuto sott’occhio ancora l’avrebbe picchiato. Sapeva che era il suo lavoro, ma se l’agente gli avesse detto di nuovo di stare calmo l’avrebbe ucciso.
Rick si mosse avanti e indietro per la piccola hall del distretto, sentendosi come un animale in gabbia. Non sapeva cosa fare per salvare la sua bambina. Si sentiva impotente e l’FBI non lo stava certo aiutando.
All’improvviso un pensiero lo colpì e si fermò di botto. Alcuni poliziotti lo guardarono curiosi e preoccupati tra una scartoffia e l’altra. Tutti conoscevano la sua situazione al momento, quindi nessuno gli chiese niente del suo comportamento. E lui certo non si diede pena di dare spiegazioni. Anche perché non ne aveva tempo. Un’idea così semplice e scontata gli era balzata per la testa. Come aveva fatto a non pensarci prima? Forse perché aveva creduto che l’FBI sarebbe riuscito in qualcosa. Eppure era così semplice…
Scosse la testa e aggrottò le sopracciglia. Non era vero, non era così facile. Per fare quello che gli era appena venuto in mente, avrebbe dovuto lasciarsi il resto alle spalle. Tutto il resto. Ma per Alexis, per lei, avrebbe potuto farlo.
Si passò stancamente una mano sulla faccia e tra i capelli. Poi lanciò un’occhiata verso la sala riunioni dove intravide, tra le persiane semichiuse, la figura di Kate che parlava con il capitano Gates. Lei lo avrebbe capito? Avrebbe capito il perché della sua scelta? E sua madre? Avrebbe capito?
Sospirò e andò a sedersi su una delle sedie nel corridoio lì vicino, lo sguardo perso sul pavimento. Sarebbe stata la scelta migliore? Lasciare tutto e andare a cercarla? Una voce nel suo cervello gli diede subito la risposta che cercava: sì. Ma il suo cuore era diviso. Parte di lui sarebbe rimasto in America, a New York. Sempre.
Alzò lo sguardo dritto davanti a sé. Avrebbe aspettato ancora qualche ora, nella speranza di qualche nuovo sviluppo. Poi sarebbe andato.
Qualche secondo dopo percepì Kate uscire dalla saletta accanto. Non si mosse di un millimetro, troppo preso dai suoi pensieri.
“Hey.”
Il suo fu appena un mormorio dolce accompagnato da una tazza di caffè. Si sedette accanto a lui mentre gliela passava. Rick tese la mascella e strinse tra le mani la tazza calda. All’improvviso si rese conto che aveva bisogno di lei, di Kate, della sua presenza, del suo conforto. Doveva raccontare a qualcuno della telefonata di Alexis. Doveva dirle quello che sentiva, le sue emozioni. Oppure queste lo avrebbero mangiato vivo dall’interno.
Attese qualche secondo prima di parlare, il tempo di mettere insieme qualche parola che le desse l’idea di quello che stava provando. Il suo sguardo era ancora perso e fisso davanti a lui.
“She sounded so scared.”
Il solo dirlo gli strozzò per un attimo le parole in gola. Il ricordo della voce terrorizzata di Alexis sarebbe stato un suo incubo per molti anni a venire, ne era certo.
“I could hear it in her voice, just like when she was a little girl.”
Come quando credeva che i mostri fossero nascosti sotto il suo letto e correva da lui nel suo pigiamino colorato per ogni minimo rumore sospetto. Come quando c’erano i temporali e lei si andava a intrufolare spaventata sotto le coperte del lettone, piangendo e stringendosi contro di lui. Come quando lui e Meredith avevano divorziato, quando lei non sapeva dove lui fosse e scoppiava a piangere terrorizzata dall’idea che anche lui volesse abbandonarla. Ogni volta era riuscito a consolarla. Stavolta non aveva potuto abbracciarla né confortarla. Non aveva potuto salvarla. Non aveva potuto fare niente.
“And there was nothing I could do.”
“She wasn’t hurt, Castle. That’s what matters. That’s what we hold on to.”
La voce di Kate era poco più che un sussurro. Cercava di infondergli coraggio, speranza. Ma lo scrittore non ne poteva più di rassicurazioni e consolazioni. Voleva solo una cosa ormai. E glielo disse.
“I just want her home.”
Il suo tono era spezzato, stanco. Un attimo dopo aver pronunciato quelle parole, sentì la mano di Kate stringersi alla sua. Lui si aggrappò a lei quasi fosse un’ancora di salvezza. Al momento era il suo unico conforto. Ancora una volta non pensò che erano distretto, che qualcuno avrebbe potuto vederli. Lui aveva bisogno di lei e lei stava cercando di aiutarlo quanto poteva. Fisicamente e mentalmente.
“We’re not giving up yet.”
Kate era sicura delle sue parole. Poteva percepirlo chiaramente dal tono. Lei non si sarebbe arresa. Nessuno si sarebbe arreso là dentro.
“Hey.”
Il richiamo del capitano Gates, molto più informale e sbrigativo del solito, li fece voltare verso di lei.
“They just called El-Masri with terms.”
Appena Rick capì il senso di quelle parole, scattò in piedi e seguì il capitano di nuovo nella sala riunioni. Kate era subito dietro di lui. Il cuore iniziò a battergli veloce. Possibile che finalmente avessero deciso cosa chiedere per le due ragazze?
Già da fuori la sala sentirono chiaramente Anwar El-Masri discutere ad alta voce con l’agente Harris. Qualcosa sul fatto che non gli importava nulla che fosse troppo presto e che non sarebbero mai stati in posizione in tempo. Appena entrò, si infilò nella conversazione senza indugi, ma con ansia per le possibili risposte.
“What did they say?”
“It was a ransom demand. 15 million euro from anti-Mubarak dissonance. They set an exchange three hours from now.”
Harris aveva risposto con tono seccato. Evidentemente era quello il problema. Le tre ore non erano abbastanza visto che solo mezz’ora prima parlava di giorni per avere i permessi da Parigi.
Beckett chiese il luogo dello scambio, mentre Anwar tirava fuori da una tasca il cellulare. L’agente le rispose che era a Parigi, lungo la Senna. Poi Harris si rivolse di nuovo a El-Masri con tono autoritario e spazientito, sperando forse di poterlo far ragionare.
“Mr. El-Masri, you have to let me contact the local authorities.”
“No!”
La risposta dell’uomo fu istantanea e brutale. Aveva smesso anche di digitare sul telefono per guardare Harris in faccia e fargli capire chiaramente che lui avrebbe fatto quello scambio per riavere sua figlia.
“They were clear. They see police, my daughter dies. We’ll pay to get her back.”
C’è l’aveva fatta. Avrebbe pagato per riavere sua figlia indietro. Ma a Castle premeva conoscere un’altra notizia.
“Did they –”
Le parole gli si bloccarono in gola. Dovette deglutire per continuare.
“Did they say anything about Alexis?”
Lo chiese piano, temendo la risposta. Fu la moglie di Anwar, Lina, a togliergli un peso dal cuore.
“Anwar insisted. And they’ve agreed to release both our daughters.”
Fu in quel momento che Rick si accorse di aver trattenuto il respiro. Scambiò una mezza occhiata con Kate. Forse c’era speranza. Forse avrebbe riabbracciato presto la sua bambina.
Un attimo dopo si sentì quasi male. Era stato uno stronzo. Aveva dato la colpa del rapimento di sua figlia all’uomo che aveva insistito con i rapitori per riavere anche Alexis e che stava pagando anche per lei.
Con la testa bassa, come un cane con la coda tra le gambe, si avvicinò a El-Masri.
“If there is anything I owe you –”
“You owe me nothing.”
Anwar era calmo e speranzoso. Rick capì che in fondo pensava davvero di essere stato un po’ il responsabile del rapimento delle due ragazze.
L’uomo gli mise una mano sulla spalla come incoraggiamento e gli sorrise. Forse nel giro di qualche ora entrambi avrebbero riabbracciato le proprie figlie. Lo scrittore cercò, grato, di ricambiare il suo sorriso, ma gli uscì tirato. Era un po’ sollevato, ma finché non avesse avuto la sua bambina tra le braccia, non si sarebbe mai convinto della fine di quell’incubo.
In quel momento la Gates chiese chi avrebbe fatto lo scambio visto che la polizia non avrebbe dovuto essere coinvolta. Anwar El-Masri replicò subito che sua moglie aveva una sorella a Parigi e che suo marito avrebbe fatto lo scambio. Castle notò con la coda dell’occhio Harris scuotere la testa irritato e rassegnato.
Prima che gli El-Masri uscissero dalla sala riunioni per telefonare, Rick si fece di nuovo sentire.
“Thank you.”
C’era vera gratitudine stavolta nel tono. Anwar stava facendo tutto questo non solo per sua figlia, ma anche per Alexis. Se tutto fosse andato bene, gli sarebbe stato grato per sempre.
“Just pray these men are honorable.”
Rick lo guardò preoccupato mentre usciva. Non dovevano abbassare la guardia. La loro unica speranza era che consegnassero entrambe le ragazze al cognato. Se non l’avessero fatto, l’incubo non sarebbe terminato.
Spostò lo sguardo su Harris. Potevano fidarsi? Avrebbero lasciato davvero le ragazze? L’agente sembrò leggergli quella domanda negli occhi perché disse con tono rassegnato che delle telecamere di sicurezza, in cui sarebbero entrati, coprivano l’area in cui sarebbe avvenuto lo scambio e che almeno avrebbero potuto vedere chi erano i rapitori.
Castle passò le tre ore seguenti alternando momenti di rabbia e sconforto a momenti di speranza e sollievo. Aveva paura che qualcosa potesse andare storto, che i rapitori ritrattassero all’ultimo, che non si presentassero o che riportassero solo i corpi delle ragazze. In quegli attimi si chiudeva nel suo mutismo, oppure iniziava a inveire contro quei figli di puttana che le avevano sequestrate. Allo stesso tempo però sperava con tutto il cuore di poter finalmente vedere sua figlia al sicuro, di poterla riabbracciare, di poterle dire quanto l’amava. In quegli istanti addirittura un piccolo sorriso gli spuntava sulle labbra, nonostante continuassero a esserci rughe di preoccupazione sulla sua fronte.
Kate lo confortò in ogni momento. Rimase con lui ogni attimo. Lo calmò quando gli venne voglia di distruggere tutto. Gli ridiede speranza quando la sua sparì. Sorrise con lui quando il pensiero che presto avrebbe potuto rivedere la sua bambina lo colpì.
Poi le tre ore passarono e la fatidica ora arrivò. All’improvviso la voce di uno degli agenti li chiamò all’interno della stanzetta da dove, da quasi un’ora, stava tentando di entrare nei sistemi delle telecamere di sicurezza di Parigi. La stanza era buia. Solo la luminosità dello schermo la rischiarava.
Appena Rick entrò, vide il megaschermo del distretto diviso in quattro parti con immagini da angolazioni differenti dello stesso punto sotto un ponte sulla Senna. Si sedette velocemente appena dietro l’agente che li aveva chiamati, il cuore in gola, gli occhi che non si erano spostati di un millimetro dalle riprese davanti a lui. Sentì Kate prendere posto vicino a lui. Gli El-Masri si sedettero nelle altre due sedie dopo di lei. Non provava altro che ansia e nervosismo in quel momento. Vide che non c’era ancora nessuno sugli schermi. L’immagine cambiò per un attimo, mostrando un’altra zona. Poi tornò di nuovo nel punto di prima. Un’auto nera si era materializzata nel primo riquadro in alto. Harris, in piedi appena dietro di loro insieme alla Gates, se ne accorse subito.
“There. Can you get any closer?”
L’agente pigiò sul palmare sulle sue gambe e la telecamera zumò. La figura di un uomo appena uscito dall’auto nera venne ingrandita e divenne riconoscibile. Lina El-Masri identificò subito il cognato, Achmed.
Qualcosa però non andava. Rick se lo sentiva. Era una strana sensazione. C’era qualcosa di troppo… scenico? Il punto di vista dalle telecamere era ottimo. Tanto ottimo da sembrare un palco di teatro su cui giravano gli attori.
“This doesn’t even seem real. Like some kind of show.”
Il suo fu poco più che un mormorio, ma abbastanza forte da far girare Kate verso di lui.
Achmed fece qualche passo in avanti, prima di arrestarsi quando un furgone sbucò all’improvviso nell’inquadratura. Il camioncino si fermò esattamente nella parte buia sotto il ponte. Appena lo fece, Achmed tornò velocemente verso l’auto per recuperare un grosso borsone scuro dal sedile posteriore. Nel frattempo quattro uomini vestiti di nero e con il passamontagna uscirono dal furgone. Tre erano armati di mitragliette e le puntarono su Achemd. Un quarto andò direttamente a controllare i soldi nel borsone.
Rick credeva di non essere più capace di respirare. I suoi occhi passavano instancabili e nervosi da un’immagine all’altra. Dov’erano le ragazze? Dov’era sua figlia? Perché non le portavano fuori?
Appena quello che sembrava il capo finì di controllare i soldi, fece un gesto brusco ai suoi verso Achmed. I sequestratori gli puntarono subito le armi addosso con più forza di prima e l’uomo si inginocchiò subito a terra con le mani sulla testa. Lina El-Masri gemette nel vedere quella scena. Harris non perse tempo e diede subito ordini.
“Get the Paris police on the phone, now.”
Un agente stava già per chiamare quando Anwar lo bloccò.
“No, no, no! Wait, wait. Wait.”
Rick si girò verso l’uomo per capire perché diavolo l’avesse fermato, ma lo vide con gli occhi incollati allo schermo. Puntò di nuovo lo sguardo sui video. I sequestratori stavano arretrando con i soldi, lasciando Achmed inginocchiato vicino alla sua auto. Ora forse le avrebbero liberate. Dovevano liberarle!
Ma quelli risalirono sul furgone e partirono a gran velocità.
“No. No!”
La voce rotta di Lina esprimeva le stesse emozioni dello scrittore. Appena il camioncino fu passato davanti ad Achemed però, lo videro alzarsi e correre verso un punto cieco delle telecamere. In un attimo era sparito.
Rick lo cercò in ogni punto dello schermo senza trovarlo, l’ansia che gli cresceva in corpo ogni secondo di più. Perché se ne erano andati così di corsa? Dov’era finito Achmed? Dov’erano le ragazze? Dov’era sua figlia?
“Where – where are they? Where are the girls?”
Gli sembrò che il cuore stesse per rompergli le costole tanto batteva forte.
Ci fu ancora qualche secondo di panico. Poi finalmente due figure uscirono dalla zona cieca delle telecamere passando sotto il buio del ponte. Appena furono alla luce del sole, riconobbero subito Achmed che teneva stretta Sara e la portava velocemente alla macchina. Osservarono lo zio abbracciare la nipote.
“He has her. She’s safe.”
La voce di Anwar era sollevata. Non c’era più un grammo della preoccupazione che lo aveva attanagliato fino a quel momento. La stessa cosa però non valeva per Rick.
Non andava bene. Non andava bene per niente. Sara era salva, sì, e una piccolo parte di lui ne era felice. Ma dov’era Alexis? Dov’era la sua bambina?
Cercò con gli occhi in ogni punto dello schermo, sperando di vederla saltar fuori all’improvviso da un angolo, sentendo nel frattempo gli El-Masri abbracciarsi e piangere rincuorati. Ma quel miracolo non avvenne. E il cuore gli si spezzò.
“Where’s Alexis?”
Non sentì il silenzio creatosi attorno a lui. Non sentì più niente.
 
Poco meno di un’ora dopo era seduto nella saletta dove di solito lui e Beckett parlavano con i parenti delle vittime oppure facevano qualche interrogatorio informale. Era il luogo più tranquillo che aveva trovato per riflettere. Gli El-Masri avevano il diritto di gioire del rilascio della loro figlia. Ma lui non ne avrebbe sopportato la vista. Così semplicemente si era rintanato là dentro, prendendo posto su una delle poltrone, e non si era più mosso.
Quando Kate entrò nella stanza per dargli le ultime informazioni, si stupì internamente di aver già trovato l’unica soluzione possibile, quella che gli era venuta in mente ore prima: partire. Non l’avrebbe detto a Beckett, a sua madre o ad altri. Avrebbero tentato di fermarlo. E lui non voleva perdere ulteriore tempo a litigare con loro.
La voce di Kate gli arrivò quasi lontana, perso com’era nei suoi pensieri. Era calma e dolce, poco più che un sussurro.
“Agent Harris just spoke with Sara. She and Alexis were separated after the escape attempt and that was the last time that she saw her.”
Era ovvio. In due erano riuscite a scappare. Da sole le probabilità di un’ulteriore fuga diminuivano sensibilmente. Ma non era questo a preoccuparlo. I rapitori erano egiziani. Avevano fatto tutto questo per Sara. Alexis era solo un peso.
“They got what they wanted. She’s of no value anymore.”
La sua voce uscì estremamente atona e rassegnata, lo sguardo spento fisso davanti a sé. Quasi non si riconobbe lui stesso.
“You don’t know that.”
“Yes, I do.”
Non poteva dirgli che non sapeva. Non a lui. Non in quel momento in cui gli sembrava di essere più lucido che mai. Non poteva fare altro. Nessuno sarebbe stato in grado di aiutare sua figlia in quel momento. La polizia, l’FBI, sarebbero stati tutti d’intralcio con le loro pratiche burocratiche. Non poteva più perdere tempo. Voleva partire e allo stesso tempo rimanere. Perché delle due facce del suo cuore, una era a Parigi, l’altra esattamente accanto a lui.
Avrebbe voluto salutare Kate, ma non poteva. Aveva paura che se solo l’avesse guardato negli occhi, lei avrebbe capito le sue intenzioni.
Si alzò in piedi all’improvviso, senza voltarsi, recuperando silenziosamente la giacca.
“Where’re you going?”
“To tell my mother. She doesn’t know yet.”
Vero in parte. Voleva tornare a casa per rivedere un’altra volta sua madre. Per salutare silenziosamente anche lei. Ma forse non l’avrebbe neanche fatto se non fosse stato che il suo passaporto era al loft.
“I’ll go with.”
“No.”
Nel suo tono Kate dovette percepire così tanta disperazione e decisione sotto forma di indifferenza che non replicò nulla.
“I need to do this alone.”
Quindi, senza aggiungere altro, si allontanò lentamente da Kate e dal distretto.
Tornò a casa come un automa. Una volta arrivato davanti alla porta del suo appartamento, si accorse di non ricordarsi neanche se aveva fatto la strada a piedi, in auto o in taxi. Non che gli importasse qualcosa.
Aprì la porta del loft con le chiavi. C’erano ancora agenti dell’FBI sparsi per tutto il piano. Eppure a lui la casa sembrò più vuota che mai. Appena sua madre lo vide, gli corse incontro. Dalla sua faccia, capì che qualcosa si era mosso al distretto. Con un tono di voce completamente atono, le raccontò cosa era accaduto nelle ultime ore. Si stupì di scoprire, lanciando un’occhiata distratta al suo orologio da polso, che erano a malapena le dieci del mattino.
Appena ebbe concluso il racconto, Martha si portò le mani davanti alla bocca. Vedeva che era sul punto di piangere. Doveva essere arrivata alle sue stesse conclusioni. Alexis era diventata un peso per i rapitori. E dei pesi ci si sbarazza. Ma lui non l’avrebbe permesso.
“Richard…” tentò di dire sua madre con voce rotta, vedendo all’improvviso uno scintillio sospetto negli occhi del figlio.
“Non ora, mamma.” La scostò e si diresse verso il suo studio. “Mi cambio e poi… torno al distretto.” Non poteva dirle la verità. Nemmeno a lei. Senza guardarla né aggiungere altro, si infilò nel suo studio e chiuse la porta. Quindi andò in camera sua e si cambiò velocemente, mettendosi qualcosa di comodo per il volo. Non prese borsoni né altro. Non era un giro di piacere. Per quel tipo di viaggio bastavano i soldi.
Qualche minuto dopo tornò nello studio. Lanciò un’occhiata alla porta controllando che fosse sempre chiusa. Quindi si avvicinò alla sua scrivania e aprì un cassetto. La prima cosa che si ritrovò davanti fu una foto incorniciata di lui e sua figlia. Come se il suo cuore avesse tempo per sopportare altre pugnalate come quella. Tirò su col naso e trattenne a stento le lacrime, prendendo delicatamente l’immagine.
Sto venendo a prenderti, tesoro…
Si pulì velocemente gli occhi con una mano, posando con l’altra la cornice sulla scrivania. Era per lei che lo stava facendo. Sua madre e Kate ne avrebbero sofferto, ne era certo. Ma era anche altrettanto certo che avrebbero capito. Perché lui non poteva vivere senza di loro. Nessuna di loro.
Alzò un paio di carte e finalmente, in fondo al cassetto, lo vide: il suo passaporto. Lo prese e se lo infilò in tasca velocemente, temendo che qualcuno entrasse all’improvviso e lo fermasse. Ma nessuno fece la sua comparsa dalla porta. Risistemò le carte nel cassetto e vi rimise di nuovo, con estrema delicatezza, la cornice sopra. Passò lievemente un indice sul volto sorridente della figlia. Gli occhi gli divennero di nuovo lucidi. Ricacciò indietro le lacrime e chiuse il cassetto con forza. Non poteva crollare adesso. Una volta tornato insieme a sua figlia avrebbe anche potuto farlo. Ma in quel momento gli serviva tutta la lucidità che fosse riuscito a racimolare.
Prese un paio di respiri profondi per calmarsi. Quindi tornò alla porta dello studio e l’aprì. Vide sua madre seduta su una delle poltrone con lo sguardo fisso davanti a sé. Era immobile, ma con le mani stava torturando un fazzoletto di carta fino a farlo a pezzi per il nervosismo.
Fece appena in tempo a fare un paio di passi che Martha lo sentì e sollevò la testa verso di lui. Si alzò e lo abbracciò all’improvviso, lasciandolo stupito.
“Non perdere la speranza, Richard…” mormorò piano contro la sua spalla. “Non perderla mai.” Il cuore riprese a battergli forte e le lacrime minacciarono di nuovo di sopraffarlo. D’istinto la strinse a sé con forza.
Qualche secondo dopo però si ricordò del suo intento. Delicatamente si scostò dalla madre e le sorrise appena. Un sorriso terribilmente vuoto e spento.
“Devo andare, mamma” disse solo. Le lasciò un bacio sulla fronte, quindi recuperò al giacca e uscì dal loft senza voltarsi indietro.
Appena chiusa la porta dietro di sé, si fermò sul pianerottolo per prendere un grosso respiro profondo. Stava per lasciarsi dietro tutto. Ma per Alexis, per lei, lo avrebbe fatto. Aveva già torturato. Arrivare in capo al mondo sarebbe stata una bazzecola.
Con questo pensiero, si staccò dalla porta e salì in ascensore. Meno di due minuti dopo era già su un taxi diretto all’aeroporto. Si chiese quanto tempo ci avrebbero messo a capire che era sparito. Probabilmente un po’. Sua madre non gli avrebbe chiesto niente se anche si fosse fermato al distretto tutto il giorno e Kate non lo avrebbe certo biasimato se avesse voluto rimanere a casa. Entrambe le donne pensavano che sarebbe stato con l’altra. E invece stava andando a recuperare la sua più piccola donna di casa.
Tre quarti d’ora dopo era all’aeroporto internazionale J. F. Kennedy. Pagò il tassista e si addentrò nella hall delle partenze. C’era un gran viavai di gente per quell’ora, ma se ne curò poco. Scansò tutti cercando di farsi vedere in faccia il meno possibile, in modo da non correre il pericolo di essere riconosciuto da qualcuno.
Al check-in chiese del primo volo per Parigi. La ragazza al banco gli disse che il primo partiva nel giro di mezz’ora per l’aeroporto Charles de Gaulle. Comprò un biglietto e si avviò velocemente al gate indicato. Non avendo bagagli, dovette fare solo i controlli sulla persona. Per fortuna in quel momento sembrava esserci poca gente all’ispezione pre-imbarco.
Salì sull’aereo giusto cinque minuti prima del decollo. Si sedette e fin da subito guardò fuori dal finestrino. Era già stato in Europa e sapeva che il volo sarebbe durato circa nove ore, compreso lo scalo all’aeroporto di Heathrow in Inghilterra.
Lanciò a malapena un’occhiata ai suoi compagni di viaggio. Accanto a lui c’era un uomo vestito piuttosto elegante, giacca e cravatta, probabilmente in viaggio d’affari, con una piccola ventiquattrore sotto i piedi. Oltre questo invece c’era una giovane donna già intenta a leggere un grosso libro. Sorrise appena. Se ci fosse stata Alexis avrebbero passato il tempo a pensare chi avrebbero potuto essere quelle persone, chi andavano a incontrare, cosa andavano a fare, se erano spie russe o americane in incognito. Era un gioco che avevano fatto spesso nelle lunghe traversate, ad esempio quando lei lo accompagnava a una presentazione di un nuovo libro in un'altra città. Gli venne un groppo in gola. Avrebbe più scherzato con la sua bambina in quel modo? L’avrebbe più vista sorridere?
Prima che questi pensieri lo soffocassero riportò il suo sguardo fuori dal finestrino. Stavano partendo. La pista iniziò a muoversi veloce e l’aereo vibrò. Pochi secondi ed erano in volo nel cielo di New York. La città si mostrò rapidamente sotto di loro. Con gli occhi cercò di trovare casa sua o il distretto. Ma sapeva che non sarebbe mai riuscito a vederli da quell’altezza. Il suo pensiero volò a Kate. Non l’aveva neppure salutata decentemente. Era andato via come un ladro nella notte. Senza una parola o un sussurro. Ma aveva dovuto farlo. Alexis, la sua bambina, aveva bisogno di lui. E lui aveva tutta l’intenzione di riprendersela.
Appena poté, si slacciò al cintura e si sistemò un po’ più comodamente sullo stretto sedile, reclinando la testa all’indietro. Si sentiva stanco, ma sapeva che, nonostante la notte insonne, non sarebbe riuscito a chiudere occhio. Rimase semplicemente a osservare il cielo che si oscurava sempre più, perso nei suoi pensieri, immaginando il momento in cui avrebbe riabbracciato la sua piccola Alexis.
 
Quando scese all’aeroporto Charles de Gaulle, l’orologio nella hall degli arrivi segnava le tre di notte passate. Uscì all’aperto e un venticello freddo gli si insinuò sotto la giacca. Rabbrividì appena.
Fermò un taxi e gli diede l’indirizzo di un albergo appena dentro Parigi. Durante la corsa osservò prima la campagna e poi il profilo della città sfilargli davanti. Ma in realtà non vide nulla. Stava già pensando a cosa avrebbe dovuto fare appena l’alba fosse spuntata. Era intenzionato a vedere il luogo in cui era avvenuto lo scambio e voleva parlare con un suo vecchio amico che forse avrebbe potuto aiutarlo.
Una volta arrivato all’albergo, pagò il taxi e scese. Prese una camera per una sola notte. Voleva restare il meno possibile, il tempo di trovare la sua bambina e partire, ma non sapeva se avrebbe dovuto muoversi per la città durante la notte.
Attese con impazienza le poche ore che lo separavano dalla luce del giorno. Continuò per tutto il tempo a vagare per la stanza come un’anima in pena con mille e più pensieri per la testa. Di tanto in tanto sentiva il suo cellulare suonare, ma non rispondeva mai. Era sempre Kate. Dopo le prime due chiamate a vuoto iniziò a lasciargli dei messaggi vocali in cui gli chiedeva di richiamarlo. Ascoltò comunque ogni suo messaggio, come se il solo sentire la sua voce potesse renderla più vicina. A ogni nuovo messaggio la voce di Kate diventava sempre più stanca e preoccupata. Doveva essere tardi. Chissà che ore erano a New York. Chissà cosa stava facendo. Non aveva il coraggio di richiamarla. Voleva che smettesse di telefonargli, ma allo stesso tempo sperava che continuasse. Voleva sentirla. Voleva sentirla disperatamente. Ma non poteva.
Era così preso dai suoi pensieri che si accorse solo in un secondo momento della luce che filtrava dalla finestra. Si alzò, si passò una mano nei capelli e prese un lungo respiro. Quindi uscì dall’albergo.
Era già per le strade di Parigi da mezz’ora quando il suo cellulare squillò ancora una volta. Sospirò appena. La chiamata stavolta veniva da casa. Non poteva non rispondere. Pigiò il tasto verde.
“Castle.”
“Richard! Where are you?”
La voce di sua madre era un misto di preoccupazione e rabbia. Rick fece finta di niente. Ma sapeva che non sarebbe durato a lungo. Quel tono era un chiaro segno che qualcosa dovevano aver scoperto. Replicò atono.
“I’m at the precinct with Beckett. Why?”
“Don’t lie to me, Richard. Beckett is here, your passport is gone.”
Appunto. Strinse la mascella. Kate era andata al suo appartamento per cercarlo e non l’aveva trovato. E sua madre aveva fatto due più due con la sua sparizione nello studio di quando era passato.
“Now what the hell do you think you’re doing?”
Come, non era ovvio? Si sarebbe ripreso sua figlia. Avrebbe fatto tutto il possibile per riaverla. Avrebbe fatto tutto quello che doveva fare. Per Alexis. Per lei.
"Getting my daughter back.”

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Xiao!! :D
Lo so, avrei dovuto scrivere un altro capitolo di How I Met (e lo farò non temete! XD) ma avevo questa storia in mente da quando ho visto la 5x15... la scena di Castle torturatore mi ha colpito tantissimo e volevo provare a buttare giù quali avrebbero potuto essere i suoi pensieri in quei momenti... In realtà la storia doveva fermarsi a Rick che torturava descrivendo anche la scena), ma poi le mie due consulenti Katia e Sofy (spoiler-free per il 100° ep, che ringrazio ancora una volta per la loro pazienza ;D) mi hanno detto di evitare di scrivere quella parte e invece di andare avanti... e così eccoci qui! XD
Ok, beh, spero vi sia piaciuta... non è particolarmente allegra lo so, ma ci volevo scriverla e questa è la conseguenza! X)
Buona Pasqua a tutte!! ;D
Lanie
  
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