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Autore: Bambu    17/10/2007    8 recensioni
Ma lui non sapeva se poteva credere all'evidenza dei suoi occhi o del suo udito. Dopotutto, lei non si era alzata per lui quando era stata emessa la sua sentenza, né mai, dopo di allora.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Harry Potter e il suo universo appartengono a JK Rowling e agli aventine diritto. Io mi limito a prenderli, per un poco, in prestito.

Note varie: Eccomi di nuovo qua con un'altra one-shot di Bambu.
Non ho dimenticato The One Who Knows, che verrà aggiornata entro la fine del week-end, ma era ormai ora che tirassi fuori dalla cartella l'ultima traduzione completata a settembre (e, presumibilmente, l'ultima, almeno per quest'anno).
Di Bambu ho già detto tutto in Swing Time (e ne approfitto per ringraziare tutti coloro che hanno recensito, grazie! ♥), quindi vi lascio solo con il link alla versione originale di questa fic: [Link]

Kit05


A Emanuela, perché è lei e, se non ci fosse, questo lavoro non esisterebbe.


A Life Sentence

5 giugno 2009


Drip… drip… drip…

L’odore rancido dell’acqua stagnante ed impregnata di batteri assaliva le sue narici nella scura cella. La sagoma di una brandina in metallo ed una latrina in ferro si stagliavano un poco nella luce opaca che filtrava, nello spazio angusto, da un’apertura stretta nello spesso muro, ad oltre dodici piedi di altezza dal terreno. Era troppo, troppo in alto per poter essere raggiunta, anche se fosse stato possibile spostare la brandina sotto la grezza fenditura nella solida pietra. In questo orrido loco di reclusione, i giorni si confondevano con le notti e con le settimane, e i mesi, e gli anni.

Non c’era concezione del tempo, nessuna visita a ricordargli che una volta era stato qualcun altro… qualcuno con la mente non devastata dalle essenze non morte, insane e spettrali dei Dissennatori che pattugliavano il palazzo di dura pietra dell’Inferno. Un tempo, aveva vissuto nel lusso, principe viziato di una famiglia patrizia e temuta, e sua madre gli aveva spedito ogni giorno leccornie e altre piccole cose per ricordargli che era amato. Un tempo, era stato l’invidia dei suoi compagni di Casa e il desiderio di giovani streghe, bramose per la sua attenzione ed ancor più per il suo tocco. Un tempo, era stato anche molto altro. Ma tutte queste memorie gli erano sfuggite una ad una, estorte dal suo cervello da quegli esseri avidi e glaciali che lo tenevano prigioniero, che gli succhiavano via la sua umanità finché di lui non fosse rimasto altro che un vuoto cencio di carne, ossa e nervi.

Drip… drip… drip…

Un perpetuo e lento fluire d’acqua trasudava dalle pareti in pietra della sua prigione, raccogliendosi fino a formare gocce abbastanza grandi da poter cadere… rimpolpando la piccola pozzanghera in un angolo della sua cella. Il ticchettare di quelle gocce era il modo in cui aveva imparato a contare il passare del tempo, in quel luogo. Era quello che gli impediva, nello scontare la sua sentenza, di sprofondare nella più completa pazzia.

All’inizio, dopo che la sua mente intontita si fu riscossa dallo shock del suo imprigionamento, aveva passato settimane a strepitare e gridare contro l’ingiustizia e l’oltraggio della sua carcerazione, certo che sarebbe stato liberato. Poi, mentre i Dissennatori si nutrivano delle sue emozioni, era caduto nell’apatia per un tradimento che non si sarebbe mai aspettato. I ricordi felici, custodi gelosamente come tesori, furono i primi ad essergli estirpati. Ed un indistinto periodo di tempo era trascorso con lui furioso, mentre ogni singola memoria lancinante veniva estratta dalla sua psiche, dal caveau serrato della sua mente, per inondarlo di rabbia, desiderio e paura per ogni singola immagine che veniva divelta… giorno per giorno, goccia per goccia.

Una guscio vuoto dalla forma scheletrica, eternamente ghiacciato; questo era quello che rimaneva di lui.

Non più un oggetto di fantasie… ora sarebbe, invece, stato l’immagine negli incubi di bambini che non sapevano che il vero incubo era quello che passava costantemente davanti ai suoi, di occhi; a braccarlo, a saccheggiare quell’ammasso appassito e derelitto che era tutto ciò che rimaneva della sua anima.

Drip… drip… drip…

Era stato allora, quando null’altro che piccoli frammenti di ricordi erano rimasti nel suo essere, che aveva imparato a contare le gocce d’acqua. Quattro-mila-due-cento-sessanta-quattro gocce in un giorno d’estate e fino a nove-mila-ottocento-trenta-tre gocce d’inverno. E sempre, sempre, l’urlo del vento che ululava intorno a quell’isola che avrebbe chiamato casa fino alla fine dei suoi giorni.

La colazione veniva servita dopo nove-cento-cinquanta-sette gocce, la maggior parte dei giorni. Il porridge d’avena era denso, e due volte al dì veniva allungato con pezzettini tagliuzzati di carne. All’inizio aveva gettato la propria ciotola contro il muro, pretendendo un vitto migliore. Lui, che era stato servito nei tavoli più eleganti della Gran Bretagna magica, si era ridotto a mangiare farinate… se era fortunato.

In quei primi giorni, aveva mangiato il proprio porridge e poi s’era immediatamente messo a fare ginnastica, per mantenere la propria forza e il proprio fisico, aspettando che il giorno del suo rilascio fosse pianificato. Ma, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese… dopo così tanto tempo che aveva perso la cognizione del tempo, non era stato liberato. Al contrario, era stato lasciato da solo, e le sue memorie ed emozioni erano state saccheggiate, un banchetto per i Dissennatori.

Ora, si stringeva su se stesso in un angolo del suo scuro tugurio, a contare le gocce d’acqua – il pranzo tra la goccia due-mila e due-mila-quattro-cento – ad aspettare il pasto successivo, ad odiare l’arrivo del pasto successivo perché avrebbe significato l’arrivo dei Dissennatori a portarglielo… a succhiare via un’altra memoria come tributo al suo sostentamento.

Drip… drip… drip… Mille-otto-cento-quaranta-sei…

Aveva perso la speranza, in qualche momento nel passato. Forse non poteva nemmeno ricordarsi davvero cosa fosse la speranza, solo che avrebbe dovuto averla… una volta che avesse saputo cosa fosse. Ma quei giorni gli erano stati estirpati.

I motivi esatti e definiti della sua incarcerazione erano stati sottratti dalla sua memoria. Al loro posto, era rimasto il perpetuo ripresentarsi dell’immagine di una donna slanciata, con lunghi capelli color platino che le circondavano il viso come una corolla di luce, distesa scomposta su un pavimento di marmo verde, il sangue a colarle da uno squarcio in gola ed a formare una pozza sotto il suo capo, striando i suoi folti capelli. Un grido angosciato, strappato dalle corde vocali di qualcuno… ora quel grido era tanto spesso il suo, nella cella, quanto il mero ricordo di lui che gridava in quell’ingresso… lui, afflosciato sulle proprie ginocchia, a prendere tra le proprie braccia quella donna, le sue mani inzuppate con quel sangue denso, coagulante, puro.

Quella donna bellissima, il cui volto era devastato nella terrificante rigidità della morte, era quella stessa moglie da esibire orgogliosamente al pubblico, che aveva spedito leccornie a un ragazzo a scuola, portando avanti una tradizione di famiglia. Nel ricordo e nel presente, rochi ed echeggianti singhiozzi potevano essere sentiti. Quella donna aveva sacrificato la propria bellezza e grazia per la vita privilegiata di lui. Non gli era mai importato che la sua famiglia portasse le effigi della pazzia: una sorella folle per le brutalità di Azkaban, un’altra traditrice del sangue, per aver sposato un Babbano. Quei fatti non avevano più alcun significato per lui. L’unica realtà che ricordava era come si era dissanguata fino alla morte, e come lui non fosse stato capace di salvarla. Aveva solo stretto il suo corpo sempre più rigido tra le braccia e aveva urlato il proprio dolore.

Ed era così che era stato trovato, inginocchiato nella pozza del sangue di sua madre, le sue mani rosse, i suoi abiti inzuppati. Non immaginava che un corpo senz’anima potesse essere così leggero.

L’unica domanda che gli era stata rivolta era stata ‘Perché?’

Drip… drip… drip…

Perché, invero?

Quella domanda l’aveva perseguitato fin dall’istante in cui l’aveva trovata. Perché non aveva capito che sarebbe stata un obiettivo? Perché non era stato capace di salvarla? Perché non aveva usato la sua bacchetta per salvarla? Perché non aveva immediatamente chiamato gli Auror?

Tutto quello che riusciva a ricordare era che era stato troppo tardi. La sua epifania era giunta troppo tardi. Aveva scelto da che parte stare troppo tardi. S’era dimenticato di essere vulnerabile attraverso la sua unica debolezza... la sua famiglia. Troppo tardi... per lei... per lui.

Non aveva avuto una sola possibilità di mostrare il suo valore, di mostrare la propria lealtà a coloro che avrebbero potuto salvarlo. A coloro in cui aveva sperato, in quei primi e terrificanti giorni, per la sua salvezza. Invece, era stato imprigionato in attesa del processo. Era stato veloce e senza pietà. La sua mente era in uno stato di torpore per il dolore e la terribile, terribile colpa. Le uniche parole che aveva mormorato in propria difesa erano state che era troppo tardi.

Nessun altro aveva parlato a sua discolpa. Aveva sperato e aspettato e guardato attorno e perso il proprio cuore. Era stato condannato ad Azkaban, nelle stanze dell’orrore su un’isola lontana. Remota, glaciale, inumana.

La tomba del cadavere di suo padre.

Drip... drip... drip...

Una prigione in cui era stato condannato a vivere per il resto dei suoi giorni, guscio vuoto e isolato dell’uomo che un tempo aveva voluto raddrizzare i torti della sua famiglia. Ma nessuno dei suoi desideri precedenti sembrava più avere senso, ora. Era rimasto solo con amari rimpianti, paura e la perpetua immagine senza vita di sua madre giacente, morta, ai piedi delle scale, ad aspettare che lui la trovasse in una splendida mattina di primavera.

Si rannicchiò in una posizione fetale e dondolò, lentamente, in modo lenitivo, il suo unico conforto in un’esistenza da incubo. Dimenticato... non amato... non rivendicato*. Dopo un poco, alla goccia due-mila-cento-uno, quel giovane mago, prematuramente invecchiato, si addormentò. Era insolito che si addormentasse nel mezzo della giornata; raramente saltava un pasto. C’era una tenace determinazione che scorreva ancora sotto il guscio della persona che era stata, che l’aveva fatto rimanere vivo, e relativamente sano in un posto dove così tanti, tra i suoi vicini di cella, erano morti o avevano perso le loro menti.

Due-mila-cento-ottanta-nove.

Si addormentò. Da solo, al freddo, spoglio.

Drip... drip... drip...

Lo stridio rude di un’arruginata porta di metallo che veniva sbloccata ed aperta lo svegliò dal suo sonno inquieto. I suoi lunghi capelli, una volta lucenti e delle stesse tonalità chiare di sua madre, erano sporchi – grigi e gracili – appiccicati in ciocche disordinate sulla sua schiena. Gli coprivano tutta l’ampiezza delle spalle, come un mantello che riparasse dal freddo.

L’alone di una candela annunciò l’entrata di un essere nella sua cella e fu uno shock per quegli occhi da così tanto tempo abituati all’oscurità. Si mise una mano di fronte al volto, come scudo, gracidando per la novità accolta con timore. Da che si ricordava, non aveva pronunciato null’altro che stridii e urla.

Nessuno era mai venuto a visitarlo.

Non riusciva a discernere il profilo della figura che stava entrando nella sua cella. Ma la candela che illuminava la sua piccola prigione era incandescente, mentre metteva in mostra le pareti grezzamente costruite, i rivoli oscuri e scintillanti di umidità costante e l’umida e stagnante pozza in un angolo.

Un sussulto ed un singhiozzo soffocato giunsero alle sue orecchie. Non era un Dissennatore, sebbene riuscisse ad avvertirne l’artica presenza, appena al di là della cella. Una voce di donna – qualcosa che stuzzicò dei frammenti di memoria – ordinò alla creatura di allontanarsi.

Si rintanò in un angolo della brandina, respingendo la luce che portava un esile tremolio di calore nella sua prigione ghiacciata. Il cuore gli si strinse nel petto, e la sua gola era così occlusa che non riusciva a parlare, o a gridare, o a piangere.

La luce si mosse e sembrò fissarsi in un unico punto. L’inclinazione gli suggeriva che fosse stata posta sul pavimento. La brandina si incurvò sotto il peso di un altro corpo, e, pur non volendo, lui tremò.

“Oh Draco,” il suo sussuro, nell’altrimenti silenziosa stanza.

Draco... era questo quello che era?

Drip... drip... drip...

Misurava il tempo, e contava, aspettando il suo destino. La sua mente riportò automaticamente a galla i numeri. Tre-mila-quattro-cento-ottanta-nove. Contava le gocce anche durante il sonno.

“Mi riconosci?” Il suo sospiro, delicato, ansante, a spezzare il silenzio rotto solo dallo sgocciolare dell’acqua.

Non poteva rispondere. Non si ricordava come rispondere. Riusciva solo a ricordare l’immagine di sua madre, morta, il ticchettio dell’acqua, e questa voce di donna... che stuzzicava un’emozione dimenticata. Lei... lei era qualcosa che avrebbe dovuto dimenticare, ma il ricordo era indistinto... strappato dalla sua coscienza nei primi mesi della sua prigionia.

Ma, nascoste negli opachi recessi della sua mente, un sussulto di memoria pizzicò il suo cervello... una memoria di un tempo in cui la sua mente non era ancora stata violentata. Lei incarnava qualcosa... era il più felice dei suoi ricordi. Di quei pochi e corti mesi in cui, ventitreenne, s’era guadagnato l’amore di una donna.

Fece ricadere le mani scheletriche dal proprio volto, i suoi occhi che pian piano diventavano più a loro agio nella luce. Strizzò le palpebre in quel bagliore, cercando di vedere il proprio visitatore. Lei era seduta al capo opposto della brandina: una giovane donna con capelli color mogano e profondi occhi castani. Era magra... troppo magra... lui pensava che non avrebbe dovuto essere così magra. Ma non riusciva a ricordare con chiarezza.

Le immagini nella sua mente erano sbiadite, un'ombra spettrale della realtà. Ciononostante, c'era qualcosa in quella donna che lo chiamava. Un dolore non familiare che gli stringeva il petto.

Drip... drip... drip...

Un freddo gelido, pietrificante, si diffuse sulle pietre della cella, e lui gemette in agonia. Riconosceva quel dolore, quel sentimento per questa donna. Aveva avuto felici ricordi di lei... ne aveva tenuto uno... nascosto... protetto da quel poco di sano che rimaneva nella sua mente. Nella lotta per riconoscerla, l'aveva riportato alla luce, e il sapore lussureggiante del ricordo aveva richiamato il Dissennatore.

Rabbrividì per il terrore.

Una sagoma velata era sospesa sotto la volta della porta della sua cella, i suoi artigli, piagati e scagliosi, che tentavano di raggiungerlo.

"Expecto Patronum!" urlò la strega sulla sua brandina. Una lontra argentata, brillante, scattò dalla punta della sua bacchetta, il Dissennatore respirò l'aria, il vento, e sfuggì davanti a quel luminoso artefatto, rintocco della sua morte.

Quattro-mila-cinque-cento-tre.

Drip... drip... drip...

Si voltò verso la strega sulla sua brandina, il suo corpo intorpidito dal dolore per i muscoli da troppo tempo inutilizzati. Ricordava questa strega... i suoi occhi enormi, luminosi... il suo nome era nascosto sotto uno strato di dolore, paura e la miseria della sua recente esistenza. Si guardò intorno, alle numerose fiamme brillanti che formavano una figura circolare su qualunque cosa fosse quella che la donna aveva portato con sé nella sua cella.

Erano candele, tante, piccole candele; ventinove in tutto, brucianti in cerchio.

"Buon compleanno, Draco!"

Era il suo compleanno? Lui era Draco?

Qualcosa, in fondo alla sua mente, rispose sì alla seconda domanda, ma non sapeva la risposta della prima.

Alzò gli occhi verso i suoi, solo per rendersi conto che le nuove gocce, che aveva sentito e contato, erano le sue lacrime. Ruscelli di acqua salata rigavano le sue guance e gocciolavano dalla linea decisa della sua mascella in una piccola pozza che s'era formata nei suoi palmi rivolti verso l'alto - quasi in supplica o per un’offerta.

La voce di lei era soffocata dalle lacrime. "Ti ricordi di me?"

Lui scosse le spalle. Si ricordava di lei. Era parte di quella memoria... quella che aveva lottato perché rimanesse nascosta in tutti quei giorni, notti, mesi, anni.

La sua voce si screpolò e si spezzò... non riusciva a controllarla. Era rotta, lui era rotto. "Her... Her... mione?"

"Sì," singhiozzò, e poi arrestò l'abbraccio con cui avrebbe voluto stringerlo, mentre lui si ritraeva, disabituato al tocco, all'affetto, od anche solo alla presenza di un'altra persona.

La guardò mentre si sforzava di rimettersi seduta all'estremità della brandina e strofinava via le lacrime dal volto.

Drip... drip... drip...

Guardava dappertutto tranne che a lei. Aveva paura. Paura di quello che avrebbe potuto significare il ritorno a quella che un tempo era stata la realtà, ma che ora era persa in un turbine di memorie sfocate e mezze dimenticate. Come sarebbe stata la realtà? Cosa sarebbe stato lui? Uno spettro, un mago, un fantasma?

E lei era uno spettro, un fantasma, un'ombra?

I suoi occhi furono nuovamente attratti da lei, che si alzava dalla brandina per accucciarsi di fianco alle brillanti candele adornanti… una torta. Con destrezza mosse la sua bacchetta ed una scheggia di nostalgia gli trafisse il cuore… si ricordava vagamente di aver avuto anche lui una bacchetta, un tempo. Ricordava di aver brandito una bacchetta con lei al suo fianco.

La guardò con attenzione, incerto se dovesse o meno fidarsi di lei… se lei fosse un’allucinazione o no.

Cercò nelle tasche del suo soprabito, finché non estrasse dei piatti e dei coltelli. Poi, depose abilmente, le candeline fiammeggianti a lato e divise in fette il dolce glassato. Gli porse un’abbondante porzione di torta, ma lui non sapeva cosa dovesse fare con essa. Si limitò a fissarla.

“Andiamo, Draco, è la tua preferita. Madama Chips mi ha aiutato a prepararla con abbastanza cioccolato curativo e pozione Pepper Up per aiutarti.”

Continuò a fissarla, incerto se fosse un sogno, o se fosse davvero il rilascio che aveva così tanto voluto e temuto… sapendo che mai sarebbe arrivato.

Drip… drip… drip…

Quattro-mila-nove-cento-ottanta-due.

Allungò l’esile e ossuta mano verso il piatto, e sentì l’ansito di lei… un mezzo inalare, un mezzo singhiozzo. Fu attento a non sfiorarla, e portò a sé il piatto così velocemente che la forchetta cadde sul pavimento, rumorosa nell’altrimenti silente stanza. Non importava. Non aveva usato una posata in così tanto tempo che le sue dita erano divenute i suoi unici utensili.

Avidamente addentò il primo boccone, non gli importava se fosse avvelenata o meno. Tutto era meglio di quella morte promessa e stagnante.

Non era avvelenata.

Era paradisiaca. Ricco cioccolato nero si sciolse nella sua bocca, la traccia calda della Pozione diffondeva impetuose scosse alle sue viscere, facendosi poi strada verso le sue perennemente ghiacciate estremità. Era quasi doloroso.

Al circolare della pozione nel suo sistema ed al diffondersi dell’effetto benefico del cioccolato contro la sua malinconia e la sua depressione, le sinapsi nel suo cervello iniziarono a rianimarsi, scintillando a nuova vita, connettendo cellule e tessuti, ristorando i suoi processi mentali. Del fumo iniziò ad innalzarsi dalle sue orecchie.

La torta era sostanziosa, troppo sostanziosa per il suo sistema, ma leccò le briciole dal piatto e guardò la strega per averne ancora.

Lei non era più sul letto né vicina alla brandina. Era seduta, sulle ginocchia, ai suoi piedi, i suoi occhi ricolmi di lacrime.

“Di più,” gracchiò.

“Dopo che hai bevuto qualcosa. E poi dobbiamo vedere se riesci a camminare.”

“Perché?” chiese. La domanda che l’aveva tormentato per un tempo apparentemente infinito era l’unica parola che riusciva a pensare di balbettare.

“Ti sto portando a casa, Draco.”

La speranza si rovesciò in lui, ma la paura, che avrebbe richiesto anni per scomparire, era più persistente. “Questo… tu… questo non è reale. Tu non sei reale.” Le voltò le spalle.

Drip… drip… drip…

“No! Draco… è reale… Io sono reale.” La sua voce era sconvolta. E poi silenzio. Se l’avesse guardata, l’avrebbe vista mordersi il labbro inferiore, fare a pezzetti un fazzoletto per l’agitazione, sanguinare, quando il morso divenne troppo forte.

Cinque-mila-due-cento-uno.

Lo toccò. Leggermente, con tenerezza, a mala pena. Ma lui lo sentì e balzò fuori dalla sua branda, girandosi per guardarla, l’adrenalina che pompava ancor più il cioccolato e la pozione nei meandri del suo corpo. La sua mente stava rischiarandosi un poco.

“Her… mione?” Appoggiò la schiena contro il muro, in parte per sostenersi, in parte per avere le spalle coperte contro un attacco.

“Sì, amore. Sono davvero io.” Fece un passo verso di lui, ma non lo toccò. “Sono davvero venuta a portarti a casa.”

“Io… non… ho… casa. Andata.” Non poteva tornare in quel luogo, il luogo con il pavimento in marmo verde e il cadavere di sua madre.

“Verrai a casa con me. Sei libero, Draco. Le carte della tua grazia sono state firmate ieri.”

“Ma… nessuno… tu… non mi ha creduto. Non sei venuta.”

Il petto di lei fu scosso da convulsi singhiozzi. “Io ti ho creduto! Sapevo che non eri stato tu.”

“Non eri… là. Non hai… parlato per me. Non sei venuta.” Sollevò le proprie mani per tenerla lontana da sé.

Quelle erano i ricordi che gli erano rimasti, incoerenti, sfocati, ma sufficientemente lancinanti perché i Dissennatori potessero prosperare sulla disperazione della sua angoscia. Erano rimaste, quando ogni memoria felice era stata risucchiata dal suo cuore, tanto tempo prima. I giorni sereni in cui s’era innamorato di una strega che aveva odiato. La gioia dello scoprirsi ricambiato. Della loro fugace felicità. O della possibilità di costruire una vita insieme.

Era andato al Maniero, quel giorno di primavera, per chiedere la benedizione di sua madre. Invece, la sua vita era stata distrutta fin nelle fondamenta. E Hermione non era venuta al suo processo. Non l’aveva mai più rivista dal giorno del suo arresto, fino ad allora. Era quella consapevolezza che l’aveva ferito così profondamente e che i Dissennatori avevano lasciato intatta. Oltre al dolore per la perdita della madre, l’evidenza che Hermione non gli aveva creduto l’aveva quasi ucciso.

“Non potevo.” Lei evitò i suoi occhi.

Se possibile, il cuore di lui andò in frantumi una volta ancora.

Drip… drip… drip…

“Non volevi, vuoi dire.” Il suo tono era duro. Le sue corde vocali, così poco utilizzate, inflessibili dopo così tanto tempo.

Hermione si ritrasse, come se l’avesse colpita. “Non potevo,” gridò. “Io… tu… Io non volevo dirti questa parte, non ancora. Volevo darti più tempo. Non sapevo nemmeno se ti saresti ricordato di me. Ma se non ti fossi ricordato, come avrei potuto dirtelo?”

“Cosa? Dirmi cosa? Che non mi credevi? Che non mi amavi? Che era tutta una menzogna?” L’amarezza che aveva avvelenato la sua anima trovò voce nelle sue parole, ed il suo tono guadagnò forza a ogni sillaba. “Era un qualche piano di… di,” ricercò nel suo cervello quei nomi a lungo dimenticati, “Potter? Silente?”

“NO! Draco, non è così.” La sua mano era stesa; una supplica.

La ignorò. Le sue gambe iniziarono a tremare, non più abituate a supportare il suo peso, e Draco scivolò lungo la parete, accasciandosi in un ammasso scheletrico di quello che un tempo era stato un uomo vigoroso e bello.

La mano di Hermione volò a coprirle le labbra, e nuove lacrime sgorgarono, seguendo i tracciati già solcati in precedenza sulle sue gote. “Non è quello che è successo.” La sua voce era strozzata e rotta.

Draco poteva comprendere ‘rotto’. “Allora dimmelo, Hermione, cos’è successo?”

Drip… drip… drip…

Cinque-mila-sei-cento-venti-sette.

La giornata era quasi finita. Presto il conto sarebbe ri-iniziato, partendo da zero con la prima goccia del nuovo giorno. Presto lei se ne sarebbe andata, un filamento della sua immaginazione. Non aveva mai immaginato del cibo in precedenza, però, e la saliva gli riempì la bocca al ricordo del sapore della torta al cioccolato.

La voce di lei fu minuta e spaventata, quando parlò. Ma riusciva comunque a sentirla. Interferiva con il suo contare.

“Non sono venuta a trovarti… non potevo aiutarti quando sei stato arrestato perché ero in ospedale.”

Si accigliò. C’era qualche altra memoria, qualcosa di affossato in profondità, forse… o più probabilmente era qualcosa che gli era stato sottratto, avidamente estorto dalla sua mente.

“Perché?” Ancora quella domanda. Solo che questa volta, sembrava che fosse lui quello a chiederla in continuazione.

Invece che rispondergli, gli fece lei una domanda. “Cosa ti ricordi, Draco? Di noi? Cosa ti ricordi di noi?”

Guardò la sua forma snella, una donna minuta con capelli indomati e un indomabile spirito. E mentre la pozione e il cioccolato infondevano la loro magia, ricordò. L’aveva sempre notata, fin dai tempi in cui era una ragazza. Lo irritava, sfidava il comodo giudizio che aveva del mondo. La sua opinione su di lei ad un certo punto era cambiata, dopo che s’erano diplomati, e s’era ritrovato con lei in un’operazione per conto del Ministero della Magia. Avevano lavorato come compagni, invece che avversari. Lui stava facendo del proprio meglio per redimere il nome della sua famiglia dopo la guerra, e lei aveva appena iniziato a costruirsi una reputazione solo per se stessa. Avevano cooperato e lavorato bene insieme, e nel corso dei due anni di quel progetto, nuovi sentimenti erano nati tra loro.

“Pensavo che mi amassi,” accusò.

“Ti amavo… ti amo…” I suoi occhi erano spalancati, luccicanti. Si potevano ancora leggere i suoi sentimenti sul suo volto.

Ma lui non sapeva se poteva credere all’evidenza dei suoi occhi o del suo udito. Dopotutto, lei non si era alzata per lui quando era stata emessa la sua sentenza, né mai, dopo di allora.

“Provalo. Dimmi perché eri in ospedale?”

“Se non ricordi… come posso spiegare io… come…” Il suo mento si indurì, come se si stesse preparando per ricevere un colpo. Aprì la bocca, ma un’intensa e frigida disperazione s’infiltrò nella cella e, una volta ancora, una mano decadente e decrepita, ladra di felicità, si avvicinò a loro.

Hermione si voltò di scatto, i suoi abiti volteggiarono intorno a lei, sfiorando le ginocchia di lui. Raccolse tutto la sua determinazione e si spostò davanti a lui… per proteggerlo dai Dissennatori… due che volteggiavano appena oltre la soglia. La bacchetta di Hermione era puntata nella loro direzione… erano stati attratti dalle forte emozioni che venivano emanate dal quel piccolo cubicolo in pietra.

Sul pavimento, Draco rabbrividì, rinforzato un poco dal cioccolato e dalla pozione che aveva preso, ma non abbastanza. Uggiolò in agonia quando la piccola scintilla di memoria che aveva così accuratamente nascosto venne risucchiata sulla superficie del suo cervello. Il suo urlo galvanizzò la determinazione della strega nell’impedire ai Dissennatori di avvicinarsi a lui.

Il suo Patronus scacciò quei visitatori non voluti; Draco sapeva che il suo tempo si stava esaurendo. Lei se ne sarebbe andata, e se quella che diceva era la verità, forse… solo forse, lui se ne sarebbe andato con lei.

Drip… drip… drip…

Lei si girò a guardarlo una volta ancora, il suo collo in una posa risoluta. “Volevo aspettare a dirtelo, almeno che ricordassi qualcosa in più; non sono potuta venire a vederti dopo il tuo arresto, né ho potuto parlare in tua difesa al processo perché il giorno in cui tua madre – Narcissa – è stata uccisa, io sono stata attaccata.”

Draco si ritrasse.

Il pensiero che potesse essere stata ferita non gli era mai venuto in mente. Aveva pensato il peggio di lei, sostenuto dalla mancanza di visite e di supporto che aveva ricevuto. Nel suo stato confuso, aveva creduto che la donna che amava l’avesse abbandonato al suo destino.

“Stai… cosa… cosa è successo?” Era vitale che lo sapesse. C’era qualcosa che non riusciva a ricordare… qualcosa che rendeva quell’informazione importante.

“Sono stata buttata giù dal secondo piano del Ministero… dal mio ufficio, da Rodolphus Lestrange. Stava cercando vendetta per la cattura di Bellatrix. Solo la fortuna ha salvato la mia vita. Ginny era lì per accompagnarmi dal gin – ad un appuntamento con un dottore quella mattina. Era all’ingresso quando sono stata lanciata dalla finestra. È riuscita ad attutire la mia caduta, ma sono dovuta rimanere in ospedale per molto tempo. La tua sentenza è stata emessa e tu sei stato portato qui prima che io sapessi che tu fossi stato arrestato o che potessi arrangiare una difesa per te. Mi dispiace tanto per Narcissa, Draco.”

Ma c’era di più. Lui sapeva che c’era di più. Non riusciva solo a ricordare cosa fosse. “E?”

“Sono rimasta incosciente per giorni, e poi ci sono state delle complicazioni. Ho avuto bisogno di tempo per sistemare la mia vita, per recuperare e trovare le risorse per presentare un appello. Ho dovuto ingaggiare degli investigatori. Harry ha dato una mano, ed io ho dovuto cercare sostegno per noi… er… per me. Sto lavorando per la tua grazia da cinque anni.”

Lui non registrò nemmeno l’ammontare del tempo trascorso. Tutto quello che aveva sentito era “Harry”, “sistemare la mia vita,” e “noi.” Nient’altro. Nulla del resto era importante.

“Noi?” chiese. Stava per lasciare quel dimenticato buco d’inferno solo per non avere nulla da cui andare? Era stata la sua più grande paura, uno degli incubi che avevano piagato le sue notti nei primi mesi, prima che le perpetue immagini del cadavere di sua madre gli riempissero gli occhi.

Lei distolse lo sguardo, e lui si sentì come se quel che rimaneva del suo cuore gli fosse stato strappato dal petto.

Cinque-mila-otto-cento-novanta-quattro.

“Noi?” chiese, di nuovo. Forse non voleva sapere la risposta. Forse avrebbe preferito rimanere lì… dove sapeva cosa l’avrebbe atteso ogni nuovo giorno.

“Noi,” rispose dolcemente. “Blaise ed io. Ho dovuto cercare delle entrate per sostenerci.”

La morte dovrebbe essere più rapida, pensò. Forse avrebbe potuto chiamare i Dissennatori per nutrirli con la sua agonia finché non fosse rimasto altro. Avrebbero potuto infossare le sue ossa accanto a suo padre.

“Blaise? Tu… vivi con Blaise?” La sua voce era a pezzi, quel che rimaneva della sua fragile speranza carbonizzato dal pensiero che il suo più vecchio amico avesse usurpato il suo posto.

“Sì, Draco, vivo con Blaise. Blaise Draco Malfoy… nostro figlio.”

Il suo capo si alzò così velocemente che colpì contro la grezza pietra del muro. Quello era… quello era il ricordo che aveva custodito così attentamente, tanto da essere stato quasi completamente reciso. Hermione era incinta del loro figlio, quando sua madre era stata uccisa.

“Figlio?” La sua voce era spezzata.

“Sì, sono entrata in un travaglio prematuro a causa della caduta e sono stata tenuta in stasi per guarire fino a quando non ho potuto partorire. Per tre mesi sono rimasta incosciente al San Mungo. Il mio bacino s’era fratturato e una strega non può prendere la Skele-Gro durante la gravidanza.”

La sua memoria stava ritornando… era solo al sesto mese di gravidanza quando sua madre era stata assassinata. Avevano intenzione di sposarsi prima che il bambino fosse nato.

C’era qualcos’altro. C’era ancora qualcos’altro.

“Hai usato Malfoy? Hai dato a lui – a nostro figlio – il mio nome?” La speranza sembrava starsi riformando, prendendo sostegno.

“Sì. È un nome che avevo sperato di portare io stessa. Porta i nomi del suo padrino e di suo padre. È un piccolo bimbo incredibile, Draco, e non avevo intenzione di dirtelo finché non avessi iniziato a ricostruire i tuoi ricordi.”

“Dove… dov’è?” Draco non riusciva a crederci. Sentiva la vita iniziare a mettere radici nel suo cuore, un desiderio di fuoriuscire davvero da quelle quattro mura, per vedere suo figlio. Per credere in Hermione. Per costruire una vita con la sua piccola famiglia. Lei aveva creduto in lui. Gli aveva donato un figlio… il loro figlio.

“È con Ginny e Harry. Hanno una figlia, Lily, che è poco più piccola di Blaise. Lui ti conosce. Gli ho raccontato tutto di noi, e dell’uomo che è suo padre.”

La paura si fece nuovamente strada in lui. Come avrebbe potuto vedere suo figlio in quelle condizioni? Era un mostro, qualcosa con cui spaventare i bambini. “No. Non posso vederlo.”

“Draco! Cosa – certo che puoi vederlo.”

“Non così.” Mostrò le sue ossute mani davanti a sé e lottò per rimettersi in piedi, ignorando la mano che lei gli aveva porto. Era ancora più alto di lei, ma era molto più magro e non assomigliava più all’uomo orgoglioso, intelligente e tagliente di cui lei si era innamorata.

Era diverso, leso.

“Naturale, non così,” disse animatamente. “Dobbiamo rimetterti un po’ in carne, prima, e devo portarti fuori da qui. Perché credi che Blaise sia da Harry e Ginny? Ho programmato tutto.”

Il suo ansito secco suonò come un colpo di tosse strozzato. Era una risata arrugginita e desueta. Ricordava. Ricordava i suoi programmi, i suoi grafici colorati e le sue tabelle. Era naturale che lei l’avesse programmato. Come se quello fosse stato un segnale, Hermione gli allungò un piccolo piattino con un’altra fetta di torta.

“Devi prenderne ancora un po’. Per piacere, Draco. Ti prego, vieni a casa.”

Accettò il piatto e la grossa fetta di torta. Si rese conto che, accettandola, stava facendo il primo, irrevocabile e doloroso passo per riprendere il controllo della propria vita. Tra un morso e l’altro di quel cioccolato nutriente, chiese, “Come… com’è il suo aspetto? Di nostro… mio… figlio.”

Hermione sorrise ed estrasse una sciupata fotografia dalla sua tasca. Con un colpo di bacchetta la ingrandì finché non fosse a grandezza d’uomo – per un bimbo di cinque anni.

Un piccolo bimbo con riccioluti capelli biondi, occhi grigi e il mento affilato, lo stava salutando da un poggio erboso di fronte a un piccolo ed accogliente cottage. In una mano teneva stretta la vecchia Nimbus di Draco, e stava vestendo una versione in miniatura dell’uniforme Serpeverde di Quidditch di suo padre. Nell’altra mano di Blaise, s’agitava il Boccino d’Oro.

Il cuore di Draco batté con forza e la sua gola si occluse. Allungò una mano per toccare l’immagine di suo figlio, i suoi occhi offuscati dalle lacrime.

Drip… drip… drip…

Uno… due… tre…

Era iniziato un nuovo giorno.

“Vieni a casa, ora, Draco?” Quella domanda innescò nuove memorie.

Il cioccolato e la pozione stavano dando i loro frutti. La mente di Draco stava iniziando a funzionare in maniera più normale, e tentò di rivolgere un piccolo sorriso alla donna che aveva amato… che non aveva mai smesso di amare. La mano di lei era tesa verso di lui, esitante, come se avesse avuto paura.

Il vecchio Draco Malfoy avrebbe rigettato l’aiuto. Il vecchio Draco Malfoy non avrebbe mai intrattenuto una relazione né si sarebbe innamorato di una strega Nata-Babbana, ma non rimaneva più nulla del vecchio Draco Malfoy. Lui era completamente un nuovo Draco Malfoy. Non sapeva bene cosa sarebbe diventato… ma avrebbe fatto del suo dannato meglio per costruire la vita migliore per sé e per la propria famiglia. Per meritarsi Hermione, che gli era rimasta fedele ed aveva combattuto per liberarlo, ed aveva dato a suo – a loro – figlio il suo nome.

“Sì,” rispose, prendendo la sua mano, la sua mano calda e vibrante. Il suo tocco era elettrico. S’era dimenticato della sensazione di lei. S’era dimenticato così tanto.

Era tempo di reimparare.

Le permise di abbracciarlo. Era il primo essere umano che lo toccava da oltre cinque anni ed era strano, ma la sensazione delle sue braccia attorno a sé era splendida. Hermione non mostrò nessuna avversione agli strati di sporco o all’olezzo del suo corpo. Lo stringeva stretto, e lui poteva sentire i suoi seni pressati contro il proprio petto. Inalò profondamente, il profumo floreale dei suoi capelli diede il via ad altri ricordi ancora. Conosceva quell’odore. Si aggrappò ad Hermione con uguale ferocia, ed una minuscola scintilla di passione gli infiammò i lombi, ma il suo corpo era troppo debole per fare altro che ricordargli che un tempo era stato un uomo. Le sue gambe iniziarono a tremare, non più abituate a un tale sforzo.

Piuttosto che rimanere in quell’infetto abisso di disperazione, disse, “Portami a casa, Hermione.”

Il suo sorriso avrebbe potuto rivaleggiare con il suo Patronus per come illuminò l’oscurità, mentre lo conduceva alla porta di metallo arrugginito, una soglia che non aveva passato mai sin dal giorno in cui era stato incarcerato. I Dissennatori rimasero sotto controllo, oltre la linea tracciata dal Patronus di Hermione. Avevano ragione a temere la forza di questa strega.

Mentre Draco e Hermione lasciavano la topaia che era stata il suo intero mondo fin dalla sentenza, Hermione disse, “Buon Compleanno, Draco.”

Furono le ultime parole a riempire l’aria dell’umida, fredda e sporca cella.

Drip… drip… drip…

~o0o~

The End

~o0o~


Nota di traduzione:
*) Nell’originale unmissed la cui traduzione più corretta sarebbe stata “di cui non se n’è sentita la mancanza”. Tuttavia, per mantenere il ritmo dell’originale (Forgotten… unloved… unmissed) la perifrasi sarebbe stata deleteria. S’è quindi deciso per una traduzione meno vicina dal punto di vista del senso (non rivendicato ), ma più congruente da quello stilistico. Purtroppo “non mancato” è davvero brutto messo così da solo :cry:

~o0o~


Un grazie enorme a Emanuela, senza cui questa traduzione non sarebbe mai nata, né conclusa.
Ti voglio bene, Manu ♥

Un grazie enorme piccolino alla moglia che nonostante si lamenti che è una shot triste (quando l’avevo avvisata) e che potevo dirle prima che finiva bene (e le avevo detto che l’ultimo 5% era più allegro… okay, forse errore mio, non dovevo usare concetti anche solo lontanamente matematici XD), fa finta di sopportarmi e di resistere ai miei getti d’orate e alle mie candele bisex. Un coso enorme. Lo conosci il mio numero di conto corrente, vero? XDD

Un altro grazie enorme a Bambu, scrittrice, ma, ancor più, donna eccezionale.


E, last but not the least, grazie a tutti coloro che hanno letto questa storia e, perché no :P, che abbiano voglia di lasciare un commento.

Alla prossima,

Kit05
  
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