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Autore: Columbrina    30/03/2013    1 recensioni
C'era una volta una Strega Cattiva che, gelosa della bellezza delle ragazze, fece un sortilegio a tutti gli specchi.
Questi iniziarono a trasmettere immagini distorte di una realtà immaginaria, portandole alla disperazione e a lesionare la loro carne senza graffiarla.
E fu così che divennero tutte scheletri dimoranti nelle loro ossa, tombe che ospitano carne senza vita, che non saziano neppure i corvi.
La Strega Cattiva porta il nome di Insicurezza.
Genere: Angst, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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L, non soccombere alla Strega Cattiva.

E’ un po’ un’autobiografia, un po’ un grido d’aiuto, un po’ una caricatura, un po’ una lezione, un po’ una storia e basta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La storia di Esse e della Strega Cattiva

 

 

Era pelle e ossa, da piccola.

Tutti la guardavano con ribrezzo, dicendo sottovoce all’esasperata madre “Falla mangiare! Altrimenti non entrerà neanche più nei suoi stessi vestiti”

“Cielo, sembra un piccolo scheletro!”

“Mangia come un uccellino… Che fastidio”

Lei li sentiva e piangeva in silenzio, nella sua piccola camera fatta di strilli e bambole dai capelli tagliati, amici immaginari e pupazzi che si muovevano quando socchiudevi gli occhi, nel tepore mattutino.

Tra le bambine della sua classe, lei era decisamente la più magra. Il grembiulino le andava decisamente largo, conferendole quel poco di mole necessario a non destare ribrezzo, mentre le maniche divoravano il braccio magrolino e attraversato da alcuni graffi, che rimarcavano velenosamente la sua gracilità. Quei graffi glieli faceva la sorella minore, un po’ più tondetta di lei, ma non abbastanza da essere confusa con un pallone da spiaggia. Eppure lei la considerava tale.

Si sentiva superiore alla sorella minore, quindi sceglieva con cura le bambine da frequentare: erano superlative come lei. Chi troppo bionda, chi troppo alta, chi troppo lentigginosa, chi troppo e basta.

Era selettiva anche con il cibo: lo mangiava con risentimento.

“Oggi mangiamo il pesto!” annunciava la nonna, in una delle sue sontuose cene domenicali.

“Non oggi… A Esse non piace” diceva poi la mamma della piccola, che giocava allegramente con i videogiochi.

“Allora cucinerò dell’ottimo ragù”

“A Esse non piace la carne nel sugo”

“Allora a lei non le metterò la carne”

“A Esse non piace mangiare da sola”

Tutti la guardavano con ribrezzo e risentimento; esattamente come lei guardava il cibo.

 

Le cose cambiarono nel periodo precedente alle prime mestruazioni. Aveva dodici anni.

Già qualche anno prima aveva messo su peso, giusto per nascondere le ossa gracili che avevano solcato l’infanzia e conferirle un aspetto più salutare; anche il volto si era fatto più rotondo ed erano spuntate le prime rotondità. A dieci anni portava già il primo reggiseno, ma nulla d’impegnativo.

Esse era carina, sebbene non portasse ancora un filo di trucco sul viso costellato dalle prime efelidi rossastre, che avevano colonizzato la fronte e le tempie. Lei credeva che fossero lentiggini temporanee.

Non le importava di piacere.

Aveva scoperto di amare il cibo.

Un pomeriggio, dopo un pasto alquanto sostanzioso, chiese alla madre di darle un secondo giro di pasta, destando lo stupore generale. Esse non si era mai sentita così bene.

Aveva abbandonato il nuoto, sostituendolo con spuntini fuori pasto e alquanto sostanziosi, che avevano un sapore di dolce e lasciavano un certo bruciore in gola.

Era la gioia della nonna e della zia che, come lei, condividevano l’amore incondizionato per il cibo: mangiava di tutto e a tutte le ore.

Il suo corpo prese a crescere, così come le sue insicurezze; eppure, ancora non la facevano vacillare sull’orlo del precipizio.

Intanto sua sorella minore, quella che una volta era più rotonda di lei, cresceva in altezza e beltà, snellendo quelle pienezze che non la rendevano oggetto di stima da parte di Esse, ma indifferenza e forse scherno. Aveva le ossa del bacino sporgenti e, una volta, mentre erano sul bagnasciuga Esse insisteva nel toccarle. Poi disse: “Quanto mi piacerebbe averle!”.

“Ma non lei hai!”

La sorella minore corse via, sbracciando come un mulinello.

Un’onda la travolse, bagnando il suo corpo sgraziato e non più scattante; ricorda di non essersi mai sentita così a terra. La sabbia accolse i suoi peccati, mentre il cibo il suo dispiacere.

 

Quando litigavano, la sorella minore era solita dirle: “Cicciona, mettiti a dieta!”

Ed Esse, convinta che non fosse vero, le urlava contro e poi le dava il benservito. Con molta, forse troppa, convinzione.

“Guarda che sono più magra di te!”

Ma non era vero.

Sua madre le ripeteva sempre che era semplicemente una ragazza formosa, che era nella pubertà quindi tutto le sembrava sgradevole e fatiscente, compreso il suo corpo, che mangiare faceva bene. La intimava di non dare ascolto a sua sorella, ma lei stessa le forniva certezze vaghe, che stavano in equilibrio precario sull’orlo delle ciglia.

“Mamma, ma sono grassa?”

“Ma no, tesoro… Sei solo formosa”

“E che vuol dire?”

“Che hai il sedere, le tette…”

“La pancia” diceva Esse, destando le ire di sua madre, che borbottava a mezza voce e andava nell’altra stanza per evitare l’argomento.

Esse, a quattordici anni, diceva di portare una quarantaquattro. Doveva partecipare a un saggio scolastico e alla titolare del negozio di costumi serviva la taglia di ogni ragazza, inclusa la sua.

“Io porto la quarantaquattro” rispose, elargendo un sorriso trionfante.

La titolare la scrutò con un certo scetticismo.

“Sei sicura, cara? Dovresti provare la quarantasei…”

Ma lei scuoteva la testa con fermezza, come se non volesse aprirsi a una verità che non aveva ancora scoperto. Intanto i corvi erano in agguato e desideravano ardentemente addentare quei residui superflui così floridi e morbidi, che traboccavano dai pantaloni decisamente troppo stretti.

“Pazienza, amori miei… Pazienza. Presto sarà tutta vostra” diceva una voce untuosa, appartenente a colei che tesse trappole fatte di equilibri precari, di giochi mentali e sortilegi che risucchiavano ogni miserabile soffio vitale.

Era in camerino a provare il vestito, quando sentì quella voce rimarcare velenosamente i fianchi che abbondavano da quella camicia di forza, dalla cerniera che non saliva e non chiudeva quell’ultimo briciolo di fiducia che le sarebbe servito a non crollare dinanzi a un patto che aspettava solo di essere suggellato.

“Povera piccola mia… Non ti vedi bella, vero? Tu, che sei sempre stata un calvario, ora lo stai provando sulla tua carne. La tua misera, flaccida carne di una ragazza che non conosce freno agli eccessi. Firma il contratto con la bellezza, con la fiducia, con la felicità… Immagino che tutti siano stanchi di vederti crogiolata in un mondo fatto solo di crucci, cibo e continue insoddisfazioni. Vieni con me, piccola Esse. Ti sei fatta abbindolare dal cibo? Ora ne paghi le conseguenze. Sei grassa, brutta, insoddisfatta; hai solo il cervello, ma che te ne fa di quello? Non hai niente”

Esse pianse, come non aveva mai fatto in vita sua.

La strega le passò una mano tra i capelli, per poi stringerla dolcemente, come per cullarla e liberarla dai suoi tormenti.

“Su, piccola mia, non angustiarti, per tua fortuna, ho la soluzione per te. Lo vedi il mio amico specchio? Lui ti farà da mentore, sarà il contatore dei tuoi progressi, realizzerà tutti i tuoi desideri. Fidati di lui, è portatore di verità”

E fu così che Esse e la strega divennero amiche del cuore.

 

 

A sedici anni, i pantaloni che portava in seconda media le andavano larghi; il peso oscillava ancora tra i cinquanta e i sessanta, senza mai sforare nulla; mangiava il minimo indispensabile, solo qualche capriccio una volta al mese, massimo; andava a correre; aveva un bel seno; occhi verdi che sapevano guardare oltre gli spazi temporali e mai dentro se stessa; un bel naso e una bella bocca; capelli bellissimi, che si arricciavano prepotentemente in basso; alcune magliette le facevano una vita davvero minuscola; i fianchi erano scomparsi del tutto e aveva le ossa del bacino sporgenti, finalmente; tutti le dicevano quanto fosse dimagrita e che bel corpo avesse ora…

“Ma non è abbastanza, tesoro… Continua, continua ancora. Non vedi tua sorella com’è magra, com’è esile? Tu lo sarai di più. Mangia il cibo con parsimonia e reprimi quegli stupidi brontolii del cuore. Sono nemici"

Esse obbediva.

Il suo corpo stava affogando in un ventre fatto di ossa aguzze che comparivano dalle pareti invisibili, come enormi mani che tentavano di afferrarla senza che vi riuscissero. Ormai, l’insicurezza era la parte più viva di lei.

In estate, nascondeva il ventre con gli asciugamani, anche quando era asciutta e non giocava mai con gli altri a beach volley o a carte; stava sotto l’ombrellone a leggere, rivestendosi solo delle sue inibizioni. Sua sorella era in forma smagliante, sorridente e corteggiata; di lei non sapevano nemmeno l’esistenza.

Era  di nuovo il tormento della sua famiglia: mangiava poco, eppure si leggeva la bramosia nei suoi occhi che perdevano anche la più infima sfumatura di verde e si coloravano del niente che dimorava nel suo stomaco piangente.

Così si nascondeva in bagno, prendeva la poca carne rimasta sul ventre tra le mani – come si faceva per i pesi morti -  e cercava di portarla dentro, in modo che fosse un tutt’uno con le vertebre e le costole; non sopportava di avere un fardello sullo stomaco. Poi piangeva tra le braccia della sua amica del cuore.

Lo specchio rifletteva una ragazza dai carichi emotivi – e non solo – troppo grandi da potervi entrare, cosce grosse e tette cadenti; lo specchio rifletteva un’enorme spirale fatta di ambigui sogni e visioni da strapazzo, il che portava Esse a chiedersi quanto fosse reale. Però il colore degli occhi era troppo uguale per essere equivocato, così come la forma semicircolare delle tette che si confondevano con le ascelle e le sfumature bionde dei capelli: troppo vero per essere falso.

E allora stava senza mangiare per intere giornate: giusto qualche gomma da  masticare e una ciotola di cereali.

“Diventerai come la fidanzata di tuo cugino! E’ anoressica, lo sai?”

Lei si copriva metaforicamente le orecchie e schiaffeggiava sua madre nella realtà dello specchio, invece che stare in silenzio a giocherellare con i capelli.

Prima le davano della cicciona, ora dell’anoressica.

Che cosa voleva il mondo da lei?

“Piccola mia, stai andando benissimo. Continua così” le diceva la sua migliore amica, una specie di spettro dei sogni.

Esse aveva ricominciato a parlar male della sorella minore e ciò la faceva stare ancora più male.

“Non devi dire così, sei cattiva” faceva Elle, l’unica persona sulla faccia della Terra a cui dava ascolto.

“Non è colpa mia. Solo che mi ha fatto soffrire tante volte. Mi chiamava “cicciona”…”

Odiava quella parola, perché esternava tutte le sue debolezze.

Un’amica, per gioco, la chiamò così e lei scoppiò a piangere.

Era diventata lei stessa un peso.

“Vuoi andare nel posto più felice della Terra?”

“Quello in cui posso essere bellissima?”

La Strega annuì.

“Andiamoci allora…”

“Tutto ciò che devi fare, è passare attraverso lo specchio”

“Come Alice”

Le era sempre piaciuta Alice, forse per il fatto che lei, una bambina così bionda e giuliva, era attorniata da esseri che di grazioso non avevano nulla; lei si era sempre identificata nel Brucaliffo, pigra e fumatrice dell’aria viziata che si respirava nella sua camera, ma anche nel Leprotto Marzolino, schiava della sua incontrollabile frenesia. Se proprio doveva scegliere, avrebbe voluto essere lo Stregatto oppure la Regina di Cuori, o anche quel topolino crogiolato nel calore eterno della teiera sempre piena.

Passò lascivamente un dito sulla lastra immobile dello specchio, che prendeva i colori della realtà che la circondava; il suo ventre non le era mai sembrato così gonfio, le sue tette non le erano mai sembrate così cadenti, le sue gambe non le erano mai sembrate così grosse e irrimediabilmente attaccate, il suo viso non le era mai sembrato così tondo. Ciò che poteva trovare dietro quello specchio ostentava spavalderia, quindi si ritrovò subito, inconsciamente, a vagare nella spirale di ossa e di carne putrida; mentre il suo corpo si disfaceva piano piano, pezzo per pezzo, pazzo per pazzo, strega per strega, nemico per nemico… E gli altri la guardavano.

Tutti la guardavano con risentimento, nello stesso modo in cui lei guardava se stessa.

 

 

Elle era, a detta di Esse, la ragazza più bella del mondo. E non lo diceva solo lei.

Il suo viso, incorniciato da una matassa di capelli ricci, ospitava le due stelle più splendenti del grigiore in cui era crogiolata la sua città: i suoi occhi azzurri, da gatta, fatti per guardare il mondo.

Disponeva di un fascino fuori dal comune: ecco perché tutti trattavano con estrema cura la sua amicizia e si contendevano le sue attenzioni.

Esse la ammirava molto e invidiava il suo fisico, la sua sicurezza, il suo fascino. Si erano incontrate su una strada buia, dopo aver passato il tempo a ignorarsi; si erano prese per mano perché andavano lungo la stessa strada e arrivare alla stessa meta. Erano tre anni che erano compagne di palestra e di insicurezze.

Anche Elle aveva un’amica, con cui aveva litigato perché era una traditrice voltagabbana.

Però si fidava ancora dello specchio.

E ciò la stava portando a navigare con Caronte in un mare che appariva stupendo, ma poi si scoprì esser fatto di ossa e anime buie e senza carne che potesse saziare i corpi; quella magrezza saziava loro, inclusa lei, che si sentiva fuori posto dinanzi a tante ossa antropomorfe e simili a quelle ragazze che correvano seminude sulle copertine delle riviste, che trattavano con nonchalance la propria perfezione. Solo che quelle ossa erano tutt’altro che belle a vedersi.

Lei si sentiva Calibano, deforme… Che traghettava verso una meta che pareva irraggiungibile.

“Bimba, la prossima è l’ultima fermata e sarà senza scampo. Cosa vuoi fare? Ti vuoi buttare o preferisci morire?”

Era sul punto di legare un’ancora alle sue gambe, a detta sua, troppo grosse e gettarsi in mare senza possibilità di tornare indietro.

Ma da quella matassa informe, uscì un gruppo di ossa che ricordavano vagamente una mano. Questa salì fin sopra i suoi occhi, prendendo tra sé il suo viso bello e magro, perfettamente definito.

Elle quasi pianse.

“Esse…” sussurrò con un fil di voce e le lacrime agli occhi.

“Non ascoltare nessuno… Non ascoltare la strega… Non ascoltare lo specchio… Non ascoltarti”

Elle stava per singhiozzare; il suo stomaco anche, la carne che cominciava a perdere forma e ad amalgamarsi con le ossa.

Che brutto spettacolo.

“Mi ha ingannata, ha ingannato tutte noi. Non lasciarti trasportare da questo mare, da queste voci che ti parlano nella testa. Sono parassiti. Ti fanno la corte, promettendoti eterna amicizia… Ma ti hanno mai detto sei bellissima? Uno specchio non può parlare, può solo palesare menzogne”

Elle prese tra le mani lo scheletro di Esse, consumato dalla sua stessa bramosia, e lo vide sgretolarsi tra le sue mani.

 

Nessuno pianse per lei; l’unica cosa che versò lacrime fino all’ultimo fu il suo stomaco.

Cercava solo qualcosa che potesse starle bene.

Cercava solo qualcosa che potesse saziarla, senza farla soffrire.

Cercava qualcuno che non la facesse soffrire, che non la guardasse con ribrezzo, ma le parlasse con sincerità. E’ brutto quando la tua unica confidente è una strega malvagia e uno specchio distorto.

Ora le schegge di vetro giacciono inermi nel bagno accanto alla sua stanza, come in ricordo della sua epigrafe tombale.

Morta per mancanza di anima, di cibo, di certezze.

Morta per mancanza di tutto.

Morta per mancanza e basta.

 

 

E la Strega rise del suo ennesimo successo.

   
 
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