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Autore: ermete    02/04/2013    16 recensioni
"Fu il turno dell’ex soldato di ridere “Il gioco non è finito.” mutò poi espressione, tornando serio. Fin troppo serio per quello che aveva definito un gioco “Catene.”
Sherlock registrò il cambio di espressione dell’uomo, ma non seppe attribuirvi la motivazione. L’uomo del mistero lo aveva stupito ancora “Catene?”
L’ex medico militare non attese la spiegazione dell’indizio, fornendo subito il successivo in un crescendo di impazienza e aspettativa “Sbarre.”
Sherlock era decisamente confuso “Ora stai dicendo parole a caso.”
“Specchi.” fu la risposta sempre più atona dell’uomo."

AU in cui John torna dalla guerra e, semplicemente, non è più lo stesso
Hurt/Comfort a palate e leggermente Noir
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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***Ehm, buona sera! Che dire di questa storia? Chi aspetta gli ultimi due capitoli della Kingdom mi capisca, vi prego! Il fatto è che questa storia si è impossessata del mio cervello e mi urlava di scriverla, davvero! Tra l'altro l'idea era nata come una oneshot, ma figuriamoci... °_° questo capitolo ha 11mila parole ma in verità io ne ho già scritte 23mila (e ho imprecato tutti gli dei conosciuti per decidere dove interrompere per pubblicare XD grazie per il supporto Natasa! <3) e forse forse sono a metà storia, quindi ho deciso di dividerla e pubblicarla in capitoli, che va bene che piacciono lunghi, ma se dovevo farvi leggere 40mila parole tutte insieme mi ammazzavate *_* Beh, che dire ancora? Questa storia mi sta... uhm... facendo da un lato dubitare della mia ars scrivendi, perchè ci sto mettendo il cuore ma riconosco che è complicata! Spero che vi piaccia! E' un genere nuovo per me, non c'è fluff(sporadicissimo quanto meno e molto contenuto), è un po' noir e da qualche parte c'è addirittura un pochino d'angst! Na roba che non vi dico °_° vabbè ma invece che ammorbarvi con tutta sta intro vi lascio alla lettura e faccio prima, ok? Scusate per il parto e grazie se vorrete leggermi <3 BACIO!!! Ps: ringrazio chi la letto l'anteprima non pubblicata e mi ha incoraggiata a continuarla <3 (Thanks Simona, Ross, Jess, Monica e ovviamente NatBag) Pps: stavo dimenticando! Il titolo è una citazione di OSHO! Ci sono diventata scema a trovare un titolo, sigh u.u'***


L'apparenza inganna e lo specchio mente

Erano due giorni che Sherlock inseguiva il, come lo avevano soprannominato i giornalisti, Sarto di Jermyn Street, un serial killer tristemente noto per la sua abilità nel ricamare i corpi delle proprie vittime con pittoresche ma agghiaccianti suture intessute con materiali di vario genere. All'alba del terzo omicidio seriale, Lestrade, nonostante la reticenza dei grandi capi di Scotland Yard, si era visto costretto a contattare l'unico Consulente Investigativo al mondo, il quale, reputando tutti gli indizi raccolti fino a quel momento completamente inutili, aveva deciso di lavorare per conto proprio nonostante l'alto livello di rischio concernente il caso.

Era da poco scoccata la mezzanotte e Sherlock stava correndo da una buona mezzora lungo la zona delle Docklands, nella parte più interna, lontana dalle sponde del Tamigi che avevano come sfondo i grattacieli di Canary Wharf. Si stava spingendo sempre più nella zona periferica, in mezzo ai container di una ditta appaltatrice attorno ai quali il serial killer stava provando a far perdere le proprie tracce.

“È furbo.” mormorò Sherlock, nascondendosi dietro una pila di sacchi di sabbia.

'Non puoi lavorare da solo, Sherlock.' le parole di Mycroft gli rimbalzarono improvvisamente nella mente 'Finirai col farti ammazzare.'

Arricciò il naso di fronte al pensiero di Mycroft e, incurante di quel monito, uscì allo scoperto, diretto verso il piccolo complesso di container entro i quali iniziò ad aggirarsi. Era in svantaggio: oltre al buio, infatti, anche il suo udito fine era compromesso dalla presenza dei numerosi rumori che in una zona portuale non vengono mai a mancare. Inoltre, dettaglio ancor più importante, il suo avversario al contrario di lui conosceva la sua posizione ed era sicuro che avrebbe approfittato di quel momento non per fuggire bensì per fare di lui la sua ennesima vittima.

'Personalità narcisistica. Sa che non sono un avversario da sottovalutare ma sa anche che sono solo: vorrà approfittarne.' pensò mentre continuava la sua silenziosa camminata attorno ai lati dei container.

Lo sbaglio di Sherlock fu sottovalutare la determinazione del serial killer a portare avanti la propria compulsione che era gigantesca a confronto alla scarsa considerazione della propria vita che provava inconsapevolmente a livello inconscio. Non valutò, dunque, l'ipotesi che il serial killer potesse aspettarlo dietro l'angolo.

Cosa che, effettivamente, accadde.

L'ultima cosa che ricordò Sherlock, fu una spranga di ferro che si avvicinava inesorabile e velocissima verso il proprio viso.

Sherlock si risvegliò col dolore acuto e tagliente di una lama che gli fendeva il torace: era una mano leggera ma decisa che seguiva la falsa riga tracciata dall'intercostato asciutto e pallido.

“Sei così bello...” la voce del serial killer vibrava di eccitazione mentre eseguiva i suoi tagli “...non sapevo neanche da dove cominciare...” continuò poi “...una pelle così perfetta, così bianca... priva di impurità...”

Sherlock non stava dando ascolto ai deliri del serial killer, occupandosi invece di analizzare la situazione: i polsi erano legati con un laccio di plastica alla catena che chiudeva uno dei container della zona, i piedi erano altrettanto intrappolati ed il peso del Sarto lo opprimeva all'altezza del bacino. Aveva molto probabilmente subito un trauma cranico che gli offuscava in parte il prezioso dono della vista e le ancor più determinanti facoltà intellettive. Abbassò poi lo sguardo ad osservare l'operato del suo aguzzino: stava eseguendo dei tagli precisi e non troppo profondi seguendo le curve suggerite dalle costole e ad ogni taglio puliva la ferita dal sangue che la imbrattava. Accanto al ginocchio destro del Sarto, un kit di sutura comprendente aghi di diverse misure e fili di diversi tipi e materiali. Stava diventando la nuova vittima del Sarto di Jermyn Street: sarebbe stato tagliuzzato fino a che non fosse sopraggiunta morte per dissanguamento, poi sarebbe stato ricucito in maniera artistica ed eccentricamente raccapricciante, infine sarebbe stato esposto in bella vista in uno dei luoghi di rilievo londinesi.

'Magari sarà il Big Ben.' pensò Sherlock, indebolito dalle fuoriuscite ematiche e ancora stordito dal colpo ricevuto 'O Regent's Park, vicino a Baker Street.' alzò stancamente gli occhi sul viso del serial killer 'Come vorrei fosse sotto casa di Mycroft.' inspirò a lungo, egoisticamente dilettato da quel macabro pensiero.

'Non è una morte poi così brutta.' aggiunse poi, al silente coinquilino con cui condivideva le ampie stanze del suo Palazzo Mentale 'Morte per dissanguamento: le membra si intorpidiscono fino alla perdita totale dei sensi.' socchiuse gli occhi lentamente 'Avrei detto che sarebbe stata un'overdose di cocaina a togliermi da questo mondo.'

Prima di chiudere gli occhi ed abbandonarsi al torpore, Sherlock fece in tempo a scorgere indistintamente una figura giungere alle spalle del Sarto. Poi più nulla.


“Stai tranquillo.”

Sherlock continuava a svenire saltuariamente, in preda ad un dormiveglia causato dalla copiosa perdita di sangue.

“Sei salvo.”

Sherlock provò a ruotare il capo, cercando la fonte della voce che si premurava di tranquillizzarlo.

“Dormi pure, ora.”

Provò a mettere a fuoco, ma nel ruotare il capo fu accecato dalla luce della lampadina che illuminava il luogo in cui era stato portato.

“Sei al sicuro.”

Gli occhi di Sherlock si chiusero quando una mano calda e gentile si posò sulla sua fronte.


Quando Sherlock si ridestò, si accorse di essere uscito dal torpore che continuava a farlo svenire l'ultima volta che si ricordò di essere stato sveglio. Mugolò per il dolore alla testa e per i molteplici tagli sul torace, quindi attese prima di tirarsi su a sedere. Per prima cosa immagazzinò l'informazione di avere mani e piedi liberi, mentre in secondo luogo percepì delle bende fasciargli il torace. Ancora supino, lasciò spaziare lo sguardo attorno a sé: pensava di essere stato salvato da Lestrade, di aver fatto un viaggio in ambulanza e di essere dunque in una stanza d'ospedale, invece si ritrovò sdraiato su una branda, in un posto che non era sporco, ma era ben lungi dall'essere antisettico e... era forse in uno di quei maledetti container? No. Era un garage.

Poi si ricordò della figura giunta alle spalle del Sarto.

E della voce che lo rassicurava.

E del tocco delicato sulla sua fronte.

Si sforzò di alzare il capo il tanto che bastava per osservare la propria mano destra nel momento in cui provò un leggero sfrigolio solleticargli le dita. Un gatto rosso, di neanche un anno a giudicare dalle dimensioni, gli stava annusando i polpastrelli in un punto in cui il suo stesso sangue non era stato ripulito del tutto.

“Douglas, lascia stare il nostro ospite.”

La voce rassicurante e gentile aveva nuovamente parlato.

Mentre il gatto rispose vibrando un vivace miagolio, Sherlock spostò lo sguardo verso destra osservando l’ombra sul pavimento prendere via via la forma di un uomo che si avvicinò fino a fermarsi davanti alla branda, all’altezza del suo torace.

L’uomo prese il gatto sotto le ascelle per poi posarlo con cura sul pavimento. Simulò un miagolio di fronte alla protesta del felino, prendendolo affettuosamente in giro fino a che non vide l’animale girare i tacchi e ignorare entrambi gli umani “Chiacchierone di un gatto.” commentò in tralice prima di voltarsi verso Sherlock. Rimase in silenzio qualche istante, sincerandosi che fosse effettivamente lucido prima di iniziare a parlare.

Sherlock lo osservò di rimando: era un uomo sui trentacinque anni, sul metro e settanta, coi capelli dello stesso colore del grano intinti con qualche spennellata di cenere, labbra sottili, occhi di un colore così particolare che dovette ragionarci sopra per capire che si avvicinavano al blu. Si accorse che portava un bastone, ma non gli sembrava che faticasse o provasse dolore a stare fermo sul posto. Patologia psicosomatica? Perché?

L’uomo interruppe i suoi ragionamenti “Ciao, straniero.” sorrise gentilmente, quindi alzò la mancina verso la fronte di Sherlock accarezzando le bende con cui l’aveva fasciato col polpastrello del pollice “Temo proprio che tu abbia subito un trauma cranico.” gli fece scorrere la mano sul viso, sfiorando con delicatezza uno zigomo leggermente escoriato fino a scendere sul torace completamente fasciato “Per queste puoi stare tranquillo, non erano profonde, probabilmente non rimarranno cicatrici bruttissime.” continuava a parlare con quel tono di voce che Sherlock trovò particolarmente rilassante. Per quel che ne sapeva poteva benissimo trovarsi nelle mani di un altro maniaco seriale, ma non sembrava importargli molto. L’uomo continuò a parlare “Certo, se non fossi intervenuto saresti morto dissanguato.”

Quando Sherlock aprì la bocca impastata dal sonno e dal dolore come se volesse parlare, l’uomo gli chiese di aspettare qualche istante: si allontanò dalla branda per poi ritornarvi qualche secondo dopo portando con sé un cuscino ed una coperta. L’uomo alzò le braccia di Sherlock e le chiuse attorno al proprio collo, quindi gli infilò il braccio sinistro sotto la schiena e lo aiutò a sollevarsi il tanto che bastava per sistemare coperta e cuscino in modo che, una volta mollata la presa, trovasse conforto in quella postura semi sdraiata.

‘Esperienza ospedaliera.’ si disse Sherlock ‘Un medico. O forse ex medico? Radiato dall’Albo per qualche strano motivo?’ gli mancavano ancora dei dati.

“Hai sete?” l’uomo gli porse una bottiglietta di plastica e Sherlock accettò di buon grado quell’offerta iniziando a bere piccoli ma numerosi sorsi d’acqua. Nel mentre l’uomo avvicinò alla branda una sedia pieghevole che aprì con un unico scatto: vi si sedette subito dopo, ospitando sulle gambe il gatto rosso che nel frattempo aveva fatto la sua ricomparsa “Se ti dà fastidio che io mi segga qui con te dillo pure.”

Sherlock richiuse la bottiglietta e la appoggiò sul proprio grembo, pur senza mollare la presa su di essa. Studiò il viso dell’uomo, l’espressione sorridente che gli donava, il palese desiderio di ricevere una risposta, di avere uno scambio verbale con chi aveva appena salvato. Era a sua volta incuriosito e smanioso di dedurre tutti i suoi segreti, ma l’abitudine a rivolgersi alle persone con spocchia e sufficienza fecero sì che le prime parole che gli rivolse furono acide e prive di riconoscenza “E se dicessi che mi stai proprio dando fastidio?”

Ma se Sherlock si aspettava di ricevere un atteggiamento quantomeno stizzito, si stupì di fronte alla reazione dell’uomo, il quale rise prima di alzare le spalle in un gesto rassegnato “Mi alzerei e me ne andrei fuori con Douglas.” indicò istintivamente la serranda che chiudeva il garage, quindi il felino che teneva in braccio “Aspetterei il tempo che ti serve per poter camminare da solo e poi tornerei nel mio piccolo angolo di paradiso.” fece una piccola pausa per poi aprire la bocca, come se volesse aggiungere qualcosa. Qualcosa che, invero, non uscì dalle labbra sottili che chiuse nuovamente nell’ennesimo sorriso neutro. Un sorriso buono, ma poco coinvolto, quasi di circostanza.

Neanche a dirlo, Sherlock colse quell’esitazione “Ma?” provò dunque a chiedere.

L’uomo inarcò le labbra e le spinse verso l’esterno, accompagnando quel vezzo reclinando il collo in un leggero scatto verso destra “Non c’è nessun ‘ma’.”

Sherlock la reputò una menzogna. O meglio, il tono di voce e la mimica facciale dell’uomo, in quel momento, suggerivano che non stesse mentendo. Eppure il resto del corpo sembrava essere a disagio con quella affermazione. Tuttavia, era anche vero che era notte fonda, quindi quella rigidità fisica poteva essere attribuita a stanchezza e mancanza di sonno. I normali esseri umani sono così fragili. Spostò lo sguardo dal viso dell’uomo fino a posarlo sul gatto felicemente appollaiato sulle gambe del suo salvatore “E così... Douglas.” gli fuggì dalle labbra. Non gli importava del gatto, ma la voglia di decifrare il suo padrone giustificava l’argomento futile e per nulla interessante.

L’uomo annuì prontamente, facendo perno sulla sedia per voltarsi completamente verso il viso di Sherlock “In onore di Douglas Adams.”

“Non so chi sia.” sbuffò Sherlock.

“Oh, cielo.” soffiò l’altro a sua volta “Va bene, è uno scrittore un po’ di nicchia, ma tutti conoscono ‘La Guida Galattica per Autostoppisti’.”

“Il mio Palazzo Mentale immagazzina solo le informazioni importanti.” sbuffò nuovamente, poiché costretto a ripetere una delle frasi che più sovente uscivano dalle sue labbra “E tra queste non si annovera nessun Douglas Adams.”

L’uomo allargò il sorriso, divertito dal modo di porsi di Sherlock: a quanto pareva, trovava divertente il suo carattere pungente “E quali informazioni hanno l’onore di poter essere ospitate nel tuo...” prese una pausa, recuperando con precisione le parole utilizzate dal consulente investigativo “...Palazzo Mentale?” si bloccò solo un istante dopo aver pronunciato quei particolari vocaboli, spostando lo sguardo altrove prima di tornare sul proprio ospite.

Sherlock colse quell’attimo di turbamento e concluse che molto probabilmente quell’uomo aveva frainteso ciò che intendeva quando parlava di Palazzo Mentale e che quasi sicuramente l’aveva paragonato al suo mondo interiore. Un mondo interiore, un Garage Mentale i cui armadi dovevano sicuramente nascondere qualche scheletro “Tutto ciò che mi serve per portare avanti il mio lavoro di Consulente Investigativo.”

Questa volta l’uomo sembrò davvero confuso “Consulente Investigativo?”

Sherlock fece spallucce, ma in verità la curiosità che quell’uomo mostrava nei suoi confronti lo lusingava. Non poté fare a meno di notare che quell’uomo non sembrava spaventato o quanto meno turbato da quanto accaduto poche ore prima, dall’aver ricucito le sue ferite e, in generale, dall’aver a che fare con una persona indisponente come lui. Anzi, gli unici attimi di incertezza e perturbamento dimostrati dal suo salvatore sembravano ricondursi solo a se stesso. E Sherlock voleva scoprirne il motivo. Gli rispose dunque “Ho inventato io il mestiere.”

L’uomo simulò un’espressione stupefatta e al tempo stesso impressionata “E significa ‘colui che si fa a prendere a calci nel culo dagli psicopatici’, mh?” si liberò poi in una piccola risata, smontando anche la mimica innaturale imposta al proprio viso.

Sherlock scoprì che la risata di quell’uomo era contagiosa “Di solito non va a finire così.” ammise ridendo piano, per non provare dolore al torace ricucito “A proposito, mi toccherà ricominciare i pedinamenti da capo.”

“Direi di no.” fece spallucce l’altro “L’ho messo KO, l’ho legato e ho fatto una soffiata anonima a Scotland Yard.” disse in fretta, come se volesse archiviare l’argomento “A quest’ora saranno già passati a prendere quello squilibrato.”

Sherlock era stupito, tanto che si ritrovò a fare una delle cose che più detestava quando erano gli altri a compierla: ripetere un’ovvietà “L’hai messo KO?” ripeté, per poi aprire la bocca, colto da una deduzione: medico, sangue freddo, buona forma fisica. Ecco l’elemento mancante “Oh ma certo. Sei un soldato. Un medico militare ad essere precisi.”

Ex medico militare.” ancora una volta, l’uomo si espresse molto velocemente, senza tanti giri di parole “Ad essere precisi.” gli fece il verso, ma non per schernirlo.

Di nuovo. Ecco che corpo e viso si esprimevano in maniera contrastante. Sherlock lo notò, quindi incalzò “Ferito in missione.” continuò, concentrando la propria percezione sul viso e sulle spalle dell’uomo “Ma non alla gamba.”

L’uomo divenne serio, chiaramente impressionato dalle abilità deduttive di Sherlock, così come sembrava apparentemente restio a parlare di quanto accaduto durante il servizio militare. L’espressione seria sul viso dell’uomo via via scemò, lasciando posto ad un leggero sorriso, diverso dai precedenti. Era un sorriso di sfida che si discostava considerevolmente dalle mimiche assunte dall’ex medico militare fino a quel momento “Sei bravo.”

Anche Sherlock mutò espressione, palesandone a sua volta una nuova: aveva indossato la maschera impassibile, il senza-volto che era solito usare di fronte ai casi più difficili, il viso che non lasciava trasparire alcuna emozione, zero dubbi, nessuna emozione “Sono molto bravo.” replicò senza vanto alcuno e sicuramente non per modestia. Il nuovo sguardo improvvisato dal suo salvatore gli piaceva molto, lo stimolava a livello cerebrale, ma lo mise anche in difficoltà. Chi diavolo era la persona che aveva davanti? Lasciò spaziare lo sguardo all’interno del garage alla ricerca di qualche dettaglio che lo potesse aiutare: era tutto minimale, in verità. Quell’uomo portava con sé l’ordine che impone la vita militare, quindi tutta la sua vita era rigorosamente ordinata dentro alcuni scatoloni impilati uno sopra l’altro e i pochi effetti personali che erano sparsi per il garage venivano impiegati quotidianamente. Un rasoio, un asciugamano, un libro. Sherlock scosse il capo e digrignò i denti “Ma nonostante tutto non capisco questo.”

“Questo?” chiese l’uomo, guardandosi attorno a sua volta.

“Cosa ci fai tu in questo garage?” domandò al limite tra rabbia e sconcerto “Sei un eroe di guerra eppure vivi appena un gradino al di sopra di tutti i senzatetto che occupano abusivamente i marciapiedi di Londra.” Sherlock non era arrabbiato per lo stile di vita del suo salvatore. Era furioso perché non riusciva a dedurre i motivi del suo stile di vita.

“Ti fa arrabbiare questo?” chiese l’uomo con calma, cogliendo quello che interpretò come una sorta di disagio, per Sherlock “Il non capire.”

Sherlock inspirò ed espirò molto lentamente. Quand’è che si erano invertiti i ruoli? Prima era lui a studiare quell’uomo che sì, l’aveva salvato, ma sembrava l’ultimo dei tonti visto in circolazione. Invece, da quando aveva accennato alla guerra e alla sua ferita, aveva cambiato sguardo ed era diventato lui il dominante. Quello che fa le domande. Quello che capisce. A discapito di Sherlock, annichilito da quello sguardo fermo, quasi severo, eppure tristemente apatico. Al consulente investigativo non restò che annuire “Sì.”

L’uomo sorrise soddisfatto e divertito “Ti darò io gli indizi.” propose poi “Collegali tu.”

Sherlock si sentiva incuriosito ma anche oltraggiato: non aveva mai avuto bisogno di aiuto per arrivare ad una delle sue deduzioni “Vorresti darmi dei suggerimenti?”

L’uomo pensò di aver ferito l’orgoglio di Sherlock, perché offrì subito un rimedio che pensava potesse funzionare “Considerato il trauma cranico, pareggeresti comunque i conti.”

“Chi ti dice che io abbia interesse a dedurre la tua vita?” domandò Sherlock prima di alzare lo sguardo verso la luce che iniziò a lampeggiare.

“L’hai detto tu che ti fa rabbia non capire.” replicò l’uomo per poi posare il gatto acciambellato tra i piedi di Sherlock: una volta avute le mani libere, salì con un po’ di impiccio sulla stessa sedia su cui era seduto ed avvitò la lampadina finché non smise di lampeggiare.

“Avanti.” concesse Sherlock, osservando i movimenti dell’altro “Ma ad una condizione: gli indizi saranno composti solo da una, massimo due parole.” in fondo, pensò, avrebbe comunque ottenuto ciò che voleva: capire i molti perché che aleggiavano attorno a quell’uomo semplice eppur misterioso.

“La cosa si fa interessante.” commentò l’uomo, smontando dalla sedia e zoppicando finché non fu nuovamente seduto “Vediamo, devo farti capire perché abito in questo garage.” finse di pensare, ma in realtà fu molto chiaro che aveva già in mente i propri indizi “Sorella.”

Sherlock sospirò per la banalità dell’indizio “Hai una sorella con cui non vai d’accordo. Ovvio.” sorrise per la coincidenza e mentre formulava il resto della frase, controllò il proprio cellulare che riposava ancora all’interno della tasca sinistra dei pantaloni: era acceso, un po’ rovinato, ma non rotto. Era strano che quella piaga di Mycroft non si fosse ancora fatto vedere “Infatti piuttosto che farti aiutare da lei, ti riduci a vivere qui.”

All’ex medico militare non servì annuire: passò subito al secondo indizio per confermargli che la risposta era esatta “Soldi.”

Sherlock annuì “La pensione d’invalidità che ti fornisce l’esercito non è sufficiente per un appartamento a Londra.” assottigliò lo sguardo sull’altro, iniziando ad alta voce un processo d’astrazione che era solito operare all’interno del suo Palazzo Mentale “Davvero? Voglio dire, so che gli affitti londinesi sono cari, ma accompagnando la pensione ad un lavoro...”

Quella parola accese lo sguardo dell’uomo, tanto che la usò come indizio successivo “Lavoro.”

“Non puoi esercitare la professione.” intuì Sherlock, seppur preso in contropiede dalla rapidità dell’altro sul quale posò uno sguardo indagatore “La ferita che hai subito in guerra ti ha forse reciso qualche legamento o nervo che ti ha compromesso l’utilizzo delle mani?”

“No.” fu la laconica risposta dell’ex soldato il cui sguardo si bloccò, fisso nelle iridi di Sherlock..

“No.” confermò Sherlock: osservò lo sguardo impassibile dell’uomo, riscoprendolo acceso e ai limiti dell’impazienza. Dedusse che stavano via via sfociando in un argomento delicato, un argomento che solo pochi minuti prima l’ex medico militare non sembrava molto intenzionato ad affrontare. Gli ingranaggi del cervello di Sherlock elaborarono da soli il nuovo input “Il prossimo indizio me lo do da solo: perizia psichiatrica.”

L’uomo rimase immobile per qualche secondo, poi rilassò la postura delle spalle, lasciando cadere morbidamente le braccia verso il basso. Sorrise in un espressione entro la quale potevano leggersi una moltitudine di sfaccettature: sembrava soddisfatto, incuriosito, stupito. Sembrava addirittura attratto dall’intelligenza di Sherlock al quale elargì lo stesso complimento di prima “Sei bravo.”

Sherlock sorrise per la prima volta, profondamente soddisfatto delle reazioni suscitate in quell’uomo “Non ti hanno ancora riabilitato alla professione. La perizia psichiatrica ha evidenziato un disordine psichico da stress post traumatico.” improvvisamente il quadro gli apparve completo, quindi non si risparmiò nell’illustrarlo “E in attesa di essere riabilitato, risparmi i pochi soldi che ti sono rimasti vivendo qui, lesinando il più possibile per soddisfare i bisogni primari come cibo, acqua, igiene, lavanderia.”

Sul volto dell’uomo persisteva lo stesso sorriso soddisfatto di prima “Sei molto bravo.” confermò schioccando la lingua sul palato.

Sherlock si morse il labbro inferiore e dovette resistere all’impulso di sorridere ancora per non mostrare gli effetti lusinghieri causati dai suoi complimenti “Non ho impiegato molto tempo a dedurti, come vedi. Neanche con addosso il fardello di un trauma cranico.”

Fu il turno dell’ex soldato di ridere “Il gioco non è finito.” mutò poi espressione, tornando serio. Fin troppo serio per quello che aveva definito un gioco “Catene.”

Sherlock registrò il cambio di espressione dell’uomo, ma non seppe attribuirvi la motivazione. L’uomo del mistero lo aveva stupito ancora “Catene?”

L’ex medico militare non attese la spiegazione dell’indizio, fornendo subito il successivo in un crescendo di impazienza e aspettativa “Sbarre.”

Sherlock era decisamente confuso “Ora stai dicendo parole a caso.”

Specchi.” fu la risposta sempre più atona dell’uomo.

Sherlock si accorse che l’atteggiamento dell’altro stava cambiando ancora: la voce stava perdendo colore e gli occhi sbarrati non stavano veramente mettendo a fuoco “Cosa...” fece per tirarsi su a sedere, ma il movimento improvviso unito al trauma cranico e alla perdita di sangue gli provocarono un capogiro che lo fecero appoggiare nuovamente sul cuscino.

L’uomo sembrò come risvegliarsi di fronte alla smorfia di dolore disegnatasi sul viso di Sherlock “Oh, scusami, ti ho fatto sforzare. Stai buono, giù.” si alzò aiutandosi con il bastone e si avvicinò al proprio paziente posandogli sulla fronte una carezza delicata con fare premuroso “Non ho antidolorifici, mi dispiace. Nella borsa mi era rimasto un po’ di anestetico e l’ho ovviamente utilizzato mentre ti ricucivo.”

A Sherlock non importava del dolore, troppo impegnato a provare a capire qualcosa dell’enigma che si trovava di fronte. L’uomo era tornato quello di prima, il suo salvatore, quello premuroso e gentile dal carattere ambiguo e il temperamento pacifico “Non preoccuparti, è sopportabile.” sussurrò di fronte al sorriso gentile che gli si parò di fronte, socchiudendo gli occhi sotto il tocco delicato che lo fece tremare solo per pochi istanti. Tremare di insicurezza, tremare di imbarazzo.

L’uomo tirò un sospiro di sollievo quando udì la risposta di Sherlock. Sorrise pacato e lasciò la mano al suo posto, carezzevole e gentile “Senti, c’è qualcuno che io possa chiamare? Per aiutarti, per farti venire a prendere... amici, parenti, fidanzate, fidanzati.”

“No, nessuno.” rispose Sherlock istintivamente e in fondo era vero. Dell’unico parente in vita che gli rimaneva non voleva saperne, amici non ne aveva, tanto meno fidanzati o amanti. Preferiva di gran lunga rimanere lì, invero.

“Non puoi non avere nessuno.” replicò l’uomo il cui tono suggeriva che quanto appena detto non voleva comunque essere una critica.

“Tu hai solo un gatto, quindi non biasimarmi.” fu la risposta spinosa di Sherlock, sul cui viso si disegnò un’inconsapevole smorfia contrariata.

“Hai ragione.” l’uomo rise piano, divertito dalla smorfia infantile a cui aveva assistito “Allora potrai stare qui finché non ti sentirai meglio.”

Sherlock ruotò il capo verso sinistra, nascondendo un piccolo sorriso soddisfatto. Ritornò poi ad osservare l’uomo che in quel momento era occupato a controllargli la leggera escoriazione sulla mano destra che in precedenza aveva attirato le attenzioni di Douglas. Continuava ad osservarlo in viso mentre gli disinfettava quei graffi “Dovrei pagarti per il disturbo.”

“Non accetto l’elemosina.” rispose senza distogliere lo sguardo dal proprio operato.

“Non volevo offenderti.” rispose Sherlock con una leggera alzata di spalle “Potrei offrirti una cena, allora. Se mangiamo assieme allo stesso tavolo non è farti l’elemosina, è cenare assieme ad una persona con la quale si prova piacere a parlare.”

L’uomo alzò lo sguardo verso il proprio paziente e dopo essersi sincerato di non scorgere alcuna malizia nel suo sguardo, annuì con un sorriso “Concesso.”

“Douglas non lo faranno entrare, però.” Sherlock trovava incredibile la quantità di chiacchiere futili che stava portando avanti con quell’uomo eclettico, ma il desiderio di conoscerlo meglio andava oltre il suo usuale sistema di credenze.

L’uomo alzò il capo con un’espressione stupita e quasi offesa disegnata in volto “Non è uno stupido cane, saprà stare a casa da solo per qualche ora senza disperarsi.”

“Mpf. ‘Casa’.” Sherlock non riuscì proprio a trattenere quel commento sarcastico unito ad un’ampia occhiata al garage entro cui l’altro viveva.

“Cosa è ‘casa’, dopo tutto?” l’uomo non se la prese per quell’ironia che dopotutto poteva considerarsi fondata “Se non un posto dove sentirsi al sicuro?”

“Forse io non ho una casa, allora.” la risposta del consulente investigativo era priva di ironia questa volta.

L’uomo alzò lo sguardo dalla mano di Sherlock per posarlo sul suo viso “Non ti senti al sicuro quando sei a casa tua?”

“Io mi sento al sicuro ovunque o in nessun dove. Sempre oppure mai.” bisbigliò Sherlock perché quello che stava rivelando era un suo piccolo segreto. Non lo aveva mai detto a nessuno e si stupì quanto fosse stato facile confidarlo a quell’uomo “Dipende dalla mia condizione mentale del momento.”

“Adrenalina?” chiese l’uomo.

“Cocaina.” confessò Sherlock.

La mano dell’uomo si fermò qualche istante prima di riprendere la piccola fasciatura attorno al palmo destro di Sherlock “Brutta cosa.”

Al consulente investigativo fuggì una risatina “Dipende dai punti di vista.”

L’uomo concluse il proprio lavoro, ma non liberò ancora la mano di Sherlock “Quindi con una dose che ti corre nelle vene ti sentiresti al sicuro anche alle pendici di un vulcano.”

“O mi sentirei profondamente spaventato nel salotto di casa mia, in crisi di astinenza.” Sherlock abbassò lo sguardo sulle loro mani: il freddo della propria unita al calore di quella del suo salvatore e in mezzo un sottilissimo strato di garza a imporre i confini di qualcosa che non dovrebbe avere ragione di essere.

L’uomo sembrò dispiacersi per la risposta di Sherlock: gli lasciò la mano e si alzò per sbarazzarsi del cotone con cui l’aveva disinfettato “Vedi? Lo dicevo io: brutta cosa.”

Sherlock chiuse subito la mano a pugno, riscaldando le ultime falangi col calore del proprio palmo. Continuò poi ad osservare l’uomo muoversi all’interno del garage, apparentemente in pace col mondo. Ma Sherlock sapeva che non era così. C’era qualcosa, c’è sempre qualcosa. “Cosa mi nascondi?” chiese dunque, nella speranza di riprendere il gioco di prima “C’è qualcosa di te che ancora non capisco.”

L’altro si riavvicinò alla branda in fondo alla quale si fermò, accarezzando il capo di Douglas che stava ancora dormendo tra i piedi di Sherlock “Non puoi pretendere di conoscere una persona nel giro di mezzora.”

“Io sì. Io ne sono in grado.” la replica di Sherlock trasudava un’infinita dose di sicurezza.

L’uomo fece spallucce “Allora suppongo di essere una persona molto complicata.”

Sherlock rise prima di far spaziare lo sguardo all’interno del garage, quindi se ne accorse. Non c’erano specchi, neanche uno piccolo vicino al rasoio. Quell’uomo era stato un soldato quindi avrà certamente imparato a sbarbarsi in tutte le situazioni possibile, anche a testa in giù, pensò. Eppure ora non era in guerra, non c’era bisogno di farsi la barba a testa in giù. La comodità di uno specchio non era certamente un vizio deplorevole. Tornò dunque sulla figura dell’uomo, alzando lo sguardo fino ad ancorarlo a quello dell’altro, ripetendo l’ultimo indizio pronunciato durante il gioco “Specchio?”

L’uomo sembrò in difficoltà: si guardò attorno iniziando a coccolare Douglas con fin troppa forza, tanto che il gatto si svegliò e scese dalla branda con un miagolio scocciato. Sentiva lo sguardo del proprio paziente su di sé e sapeva che aspettava una risposta, ma non riusciva a trovarne neanche una. L’unica cosa che riuscì a fare, fu tornare ad osservare il consulente investigativo e dopo qualche istante di indugio rispose con una sola parola “Specchio.”

Sherlock rilassò le spalle e sospirò: iniziò finalmente a vedere qualcosa, un alone avvolgere l’uomo che aveva di fronte e per la prima volta si sentì in colpa. In colpa per averlo disorientato con una sola parola quando lui era solito ubriacare le persone con infiniti discorsi concernenti il loro livello di stupidità. Alzò la mano destra, quella fasciata, verso l’uomo, in un gesto del tutto nuovo che però scoprì quanto mai facile da compiere. Gli offrì qualcosa, anche se non sapeva ancora cosa nello specifico. Aiuto? Collaborazione? Compagnia? Lo vide titubare per pochi istanti, ma sorrise quando lo vide farsi avanti e allungare la mancina verso la sua mano: gli sfiorò timidamente le punte delle dita, quindi gli offrì il proprio nome “Mi chiamo Sherlock.”

L’uomo esitò di fronte a Sherlock: lo lasciò giocare con le proprie dita, acclimatandosi alla piacevole sensazione di un tocco che non fosse puramente professionale “Io sono...” iniziò con calma, parlando adagio e respirando ancor più lentamente. Sembrava smarrito, ma finché continuava ad osservare le proprie dita ancorate a quelle di Sherlock, sapeva di esserci, di esistere ancora. Era perso, ma c’era ancora. Quando poi anche le dita di Sherlock si strinsero attorno alle sue, ritrovò la bussola. Annuì a se stesso, confermando la propria presenza nel mondo “Io sono John.”

Sherlock aveva osservato tutto. Aveva osservato tutto e ne voleva ancora. Ma non era solo sete di conoscenza, non era solo voglia di comprendere un grande mistero. Sherlock vedeva in quell’uomo, in John, il suo stesso senso di disagio che gli imponeva di cercare una dose, di fuggire da quel mondo solo per potervi appartenere nuovamente. Gli sorrise e gli strinse forte le dita con le proprie, intrecciandole tra loro “John.” confermò. Ma non a se stesso. Lui non ne aveva bisogno.

L’uomo, John, invece sembrò trovare sollievo da quella conferma. Tirò un lungo sospiro, quindi ripeté la propria identità all’uomo che gliela aveva semplicemente chiesta, offrendogli in cambio la propria “John.” annuì nuovamente, beandosi del sorriso dell’altro.

Seguirono minuti silenziosi, attimi fatti di sguardi e respiri, momenti di consolidamento e abituazione che entrambi usarono per adattarsi al nuovo clima imposto da nient’altro che loro.

Non attribuirono invece alcun peso ai rumori provenienti dall’esterno del garage, rumori che si trasformarono in mani che aprirono di scatto la serranda e che si fiondarono su John. Non bastò lo voce di Sherlock a fermare le stesse mani che neutralizzarono un impotente ex soldato colto alla sprovvista e affidato alle cure di Morfeo.


°oOo°


John fu portato in una stanza bianca, spoglia, arredata esclusivamente con un tavolino al quale era ammanettato ed una sedia sulla quale era seduto. Era una tipica stanza degli interrogatori: di fronte a lui si innalzava una porta chiusa, mentre alla parete alla sua sinistra era montato uno specchio unidirezionale che l'ex soldato si guardò bene dall'osservare. Era seduto di sbieco, infatti, dando almeno parte delle spalle alla superficie riflettente oltre la quale, al di fuori della stanza, era l'oggetto dello studio di Mycroft.

“Ehi, voi.” provò a chiamare, rivolto verso la porta “Non sono lo psicopatico che ha ferito Sherlock.” sbuffò svogliato: il tono apatico e la poca convinzione che permeava dalla sua voce avrebbero potuto suggerire il contrario di quanto lui stesso aveva appena asserito.

Tuttavia, dall'altro lato dello specchio, Mycroft era sicuro che la persona che aveva di fronte era ben lungi dall'essere un maniaco e tanto meno il Sarto di Jermyn Street che Scotland Yard aveva inseguito per giorni e che era attualmente sotto custodia. Ma quell'uomo aveva il merito, o la colpa, di aver attirato l'attenzione di Sherlock, quindi gli premeva saperne di più. Continuava a rigirarsi per le mani un taccuino nero col cui contenuto concordava e dissentiva al contempo: avrebbe dunque osservato lui stesso, di persona. E avrebbe capito molto di più.

Sherlock, tuttavia, non sembrò apprezzare le attenzioni che Mycroft riservava a John. Uscì infatti da una delle stanze adiacenti trascinando con sé il deflussore di una flebo che andava via via smontandosi dal braccio: quando affiancò suo fratello, stava ormai estraendo l'ago dalla vena. “I tuoi uomini sono i soliti incompetenti, Mycroft.” ringhiò premendo il pollice all'altezza del foro per non far rompere la vena utilizzata per la trasfusione di sangue.

“E tu stavi per essere ucciso, Sherlock.” replicò Mycroft, pur senza distogliere lo sguardo da John.

“Non da lui.” sottolineò la ridondanza del concetto: i suoi uomini erano non solo incompetenti, ma anche degli idioti. Tuttavia quel pensiero lo abbandonò rapidamente quando si accorse che Mycroft teneva lo sguardo puntato su John: lo stava osservando, lo stava deducendo, lo stava denudando dei suoi infiniti misteri e tutto ciò gli diede fastidio. John era il suo mistero “E lo stai trattando come un criminale.” sibilò sbattendo il pugno destro sullo specchio: dall'altra parte della stanza quel rumore, quella vibrazione, fece trasalire John che mosse appena la propria postura. Sherlock poté così notare lo zigomo ferito durante lo scontro con gli uomini di Mycroft: chiuse gli occhi per un istante e si morse il labbro in preda ad un piccolissimo moto di rabbia che in quel momento non si preoccupò di giustificare.

Mycroft inarcò uno scettico sopracciglio di fronte all'incredibile reazione emotiva di Sherlock “Perché ti importa così tanto di lui? Perché ti importa così tanto di un essere umano in generale?” il suo completo e totale controllo delle emozioni gli permise di nascose il fastidio provato di fronte all'interesse che il suo sociopatico fratellino stava dimostrando nei confronti di quello sconosciuto. Aveva passato anni a cercare di stimolare Sherlock, a cercare di convincerlo in tutti i modi possibili di non buttare via la propria vita, a salvarlo quando finiva sull'orlo del baratro o quando era già dentro di esso. E ora mostrava interesse per un uomo con evidenti problemi psichici che rischiava di peggiorare ulteriormente la sua già precaria situazione? No, Mycroft non lo sopportava. C'era stato un tempo in cui Sherlock, l'unico componente degli Holmes rimasto in vita oltre a lui, gli era affezionato e accettava i suoi consigli. C'era stato un tempo in cui erano due veri fratelli. Non era gelosia quella che Mycroft stava provando, bensì il desiderio di ritrovare in Sherlock il fratello minore che ancora lo guardava negli occhi senza provare il disprezzo ingiustificato con cui lo rimirava da anni e che sembrava volesse portarsi fino alla tomba.

Sherlock d'altro canto travisava sempre i veri intenti di Mycroft: era paranoico nei suoi confronti, pensava che tutto ciò che il fratello facesse aveva il fine di controllarlo e di renderlo schiavo del suo volere. Nello specifico, stava pensando che Mycroft volesse portargli via il suo nuovo enigma per poterlo districare di persona e poi, una volta raggiunto il suo scopo, gettarlo via come un oggetto senza importanza. Ma John non meritava quel trattamento “Interesse scientifico.” spiegò dunque ed era in parte vero: la verità era che oltre al desiderio di capire a fondo ed in toto quell'essere umano tutt'altro che comune, era anche affascinato dallo sguardo con cui l'aveva trafitto durante il gioco. Catene, sbarre, specchio. Continuava a guardarlo mentre rispondeva a Mycroft “È un individuo singolare.”

“Lo so.” per quanto detestasse l'idea che potesse essere attratto da quell'individuo, Mycroft dovette ammettere che Sherlock aveva ragione “Ho letto gli appunti della sua analista.” sventolò il taccuino nero, ma l'espressione che accompagnò quel gesto era riconducibile ad una smorfia tutt'altro che convinta “Anche se non c'è scritto neanche la metà di ciò che è quest'uomo. Questo ex medico militare.” sottolineò anche se sapeva che Sherlock era già a conoscenza di quel dettaglio.

Sherlock seguì con lo sguardo lo sventolio del taccuino, ma neanche per un istante fu tentato di leggere anche solo una riga del suo contenuto. Inspirò a lungo, quindi allungò il palmo aperto verso Mycroft, esprimendo la sua reale volontà “Dammi le chiavi delle manette.” sospirò teatralmente quando vide suo fratello negargli quella richiesta “Sai che potrei aprirle anche da solo, quindi risparmiamo tempo.”

Mycroft tuttavia attese prima di accontentarlo “Cosa vuoi farne di lui?”

Gli angoli della bocca di Sherlock si inarcarono in un sorrisetto fetente “Portarmelo a casa.”

La voglia di scherzare di Mycroft, d'altro canto, rasentava lo zero “Non credo che tu sappia gestirlo. Non sai gestire neanche te stesso.”

Il ghigno sparì dalle labbra di Sherlock che per l'ennesima volta interpretò le parole di Mycroft come una svalutazione della sua persona “Non sono affari tuoi.”

“Sì, invece.” Mycroft pronunciò a denti stretti quella risposta, nascondendo una ferita interiore che sanguinava da anni.

Sherlock sospirò per poi portarsi il palmo destro davanti al viso e nascondere il proprio sguardo a Mycroft: era stanco di combattere una lotta che non aveva neanche senso che esistesse. Una crociata cieca e senza senso contro un nemico che dovrebbe essere un tuo alleato “Fatti da parte.” insistette dunque, il palmo aperto verso l'alto in attesa.

Anche Mycroft era stanco di quella guerra. Stanco dell'odio di Sherlock. Stanco di dover temere per la sua incolumità ogni maledettissimo giorno. Alternò lo sguardo tra Sherlock e John, quindi ragionò sulla determinazione dimostrata dal fratello nei riguardi di quell'ex medico militare dal passato chiarissimo e dal presente altrettanto oscuro. Uno yin yang emotivo che aveva coinvolto l'interesse di Sherlock: una nuova droga, una nuova indagine. A Mycroft rimaneva solo sperare che questa nuova dipendenza non fosse nociva come le altre e nel dare a Sherlock la chiave delle manette, promise a se stesso che li avrebbe controllati, spiati, che avrebbe violato la loro privacy pur di assicurarsi che non fossero uno la fine dell'altro “Lo fai solo per farmi un dispetto o perché ti importa veramente di lui?”

“Oh, Mycroft, mi conosci.” sorrise Sherlock prima di recuperare le chiavi dalle mani del fratello “E poi l'hai detto tu stesso, sai bene quanto mi importi delle persone.” un'altra mezza bugia che formava una verità: gli importava di John, anche se non poteva ancora immaginare quanto gli sarebbe importato in futuro. Non era capace di un'astrazione emotiva di quel tipo e probabilmente era per quel motivo che non era spaventato dal potenziale che quel sentimento sarebbe stato in grado di raggiungere.

Mycroft non rispose. Rimase ad osservare la scena che si svolgeva all’interno della stanza degli interrogatori attraverso lo specchio unidirezionale, incurante di violare qualsivoglia privacy, curioso di vedere i due uomini interagire tra loro.

Quando Sherlock entrò nella stanza, vide John tirare un sospiro di sollievo: gli si avvicinò svelto, sul lato sinistro, ponendosi tra l’ex medico militare e lo specchio in modo da evitargli qualsiasi disagio. Prima ancora che John potesse parlare, Sherlock gli prese il viso tra le mani per analizzare la ferita sul suo zigomo “Mi dispiace per questo. Ti spiegherò più tardi.”

John si rilassò maggiormente quando sentì i propri polsi liberi dalle manette “Non ce n’è bisogno. È comprensibile che abbiano pensato male. D’altronde eravamo chiusi in un garage.” rise leggermente, ma la verità era che era ancora un po’ scosso: la mano sinistra gli tremava appena e quando Sherlock lo invitò ad alzarsi, trovò faticoso camminare senza l’aiuto del proprio bastone.

Sherlock gli passò il braccio destro attorno alla vita e lo aiutò a camminare “Ti aiuto io.” poi aggiunse “Mi hanno fatto una trasfusione, mi sento molto meglio ora.” si giustificò perché sapeva che il medico che viveva in John avrebbe obiettato di fronte a quel gesto “Vieni, ti porto a casa.”

“Oh, non c’è bisogno che ti disturbi.” John passò a sua volta il braccio sinistro attorno alla vita di Sherlock reggendosi meglio che poteva: l’enorme specchio che lo guardava a lato non faceva che aumentare il suo stress e lo stress contribuiva di rimando ad aumentare il dolore alla gamba “Aspetterò la metro, o magari il traghetto.”

Sherlock non si preoccupò di richiudere la porta dietro di sé. Fu solo felice di aver tolto lo specchio nel raggio visivo di John: sentì infatti la postura rigida dell’ex medico militare rilassarsi una volta che si furono immessi nel corridoio “Non hai capito. Non ti riporterò al garage.” vide l’uomo che stava sorreggendo alzare uno sguardo interrogativo verso di lui, quindi gli spiegò il suo semplice piano “Tu vieni a casa mia. Con me.”

John dapprima rimase in silenzio, stupito da quell’offerta, poi iniziò una protesta portata avanti con tono mesto e svogliato a cui Sherlock non diede retta neanche minimamente. L’unico particolare che attirò l’attenzione di John a discapito di Sherlock, fu l’algida presenza di Mycroft che li osservava senza compiere il minimo movimento di ciglia: gli sembrò finto da quanto era immobile, ma la potenza della freddezza del suo sguardo gli fecero subito pensare il contrario.

Quando lasciarono quel corridoio e furono fuori dal campo visivo di Mycroft, a Sherlock per un motivo e a John per un altro, parve di poter percepire lo sguardo dell’Uomo di Ghiaccio come un marchio a fuoco impresso sulle loro nuche: si strinsero l’un l’altro, all’unisono, ma nessuno dei due avrebbe mai saputo che lo fecero entrambi per fuggire dalla stessa spiacevole sensazione.


°oOo°


Sherlock non avrebbe rinunciato a portarsi John a casa neanche se la forza delle sue proteste fosse stata quanto meno accettabile: lo sentì mugugnare giustificazioni e scuse campate in aria per tutta la durata del viaggio, ma non lo degnò di alcuna risposta. Neanche per sbaglio.

Lo aiutò a salire i diciassette scalini continuando ad ignorare i continui ma sommessi borbottii che cessarono solo quando accese la luce del soggiorno: John si staccò da lui e zoppicò qualche passo all'interno del salotto per lasciar spaziare lo sguardo attorno a sé.

“Che bell'appartamento...” commentò in un sussurro, osservando quanti più dettagli la sua percezione riusciva a cogliere: al di là del disordine, infatti, riuscì a scorgere il teschio umano e quello animale adornato con delle improbabili cuffie, poi la libreria piena di volumi più o meno antichi, il microscopio sul tavolo, il caminetto. Ma ciò che più lo colpì fu l'atmosfera: la luce soffusa e gialla contribuivano a dare all'appartamento un'aria vintage, romantica “Come fai a non sentirti a casa qui dentro?” domandò poi, evitando accuratamente d'osservare lo specchio posto al di sopra del caminetto.

Sherlock colse quel particolare, quindi si avvicinò al caminetto e, dopo aver recuperato una stoffa di fattura mediorientale, coprì lo specchio alla bene e meglio incastrando due frange del tessuto attorno ai cardini sui quali era appesa la lastra riflettente. Sarebbe stato più semplice toglierlo, ma decise di coprirlo solamente, oscurando la fonte del disagio ma tenendola a portata di mano per eventuali prove future. Si voltò dunque verso John, togliendosi il cappotto di dosso “Con un coinquilino potrei trovare l'elemento mancante per considerare questo appartamento una casa.”

John zoppicò finché riuscì a far capolino all'interno della cucina: fu distratto dal caos che vi regnava solo dalle sconcertanti parole di Sherlock “Un coinquilino? Io?” scoprì che la propria domanda si rivelò retorica di fronte al cenno d'assenso del consulente investigativo “No, no. Ho accettato per questa notte, ma te l'ho già detto: non voglio l'elemosina e non ho di certo il denaro per permettermi la metà di un affitto di un appartamento in una zona così centrale di Londra.”

“Non farti pregare, John.” rispose Sherlock così innaturalmente affabile nel tono di voce “Non ti chiedo la metà dell'affitto, posso permettermelo anche da solo questo appartamento.” gli si avvicinò e senza chiedere alcun permesso lo prese sotto braccio e lo trascinò di fronte alle due poltrone presenti in salotto, prendendo per sé quella nera ed elegante e lasciando a John quella meno formale, più casalinga. Voleva farlo sentire a casa, voleva dargli quella sensazione di calore e sicurezza che andava inconsciamente cercando.

John si sedette con un tonfo sulla poltrona sgualcendo il cuscino dell'amata Union Flag sotto il peso del proprio corpo “Non è giusto comunque.” borbottò, palesando una delle sue caratteristiche per eccellenza: l'assoluta correttezza in ogni campo d'azione, sia esso morale, etico o sociale “Si dovrebbe dividere anche se puoi permettertelo da solo.”

Sherlock ascoltava e osservava, ma volle dare a John l'impressione di averlo totalmente ignorato “E poi sta per arrivare l'inverno, morirai di freddo in quel garage con quella misera stufetta.”

John sospirò e si guardò attorno: un'occhiata al teschio, una allo smile -ehi, c'era davvero uno smile giallo bersagliato da fori di proiettile disegnato sul muro?- una al caminetto, un rapidissimo e quasi impercettibile sguardo alla parete dove sorgeva lo specchio nascosto dalla kefia bianca e nera “Ho patito un freddo ben peggiore.”

Sherlock dissimulò il leggero stupore provato durante quella rivelazione: John stava davvero parlando delle gelide notti trascorse nel deserto afghano. Non si aspettava un commento a riguardo, non così presto. La curiosità lo invase “Non avevi scelta.”

John, d'altro canto, si chiuse sulla difensiva, distogliendo lo sguardo da tutto, anche da Sherlock. Se fosse esistito un non-luogo dove poter osservare il nulla impossibile, in quel momento sarebbe stato l'oggetto della sua contemplazione “Non voglio parlarne.”

Sherlock annuì paziente: non voleva forzare la mano e d'altronde non poteva pretendere di riuscire a scalfire la solida armatura della psiche di John in così poco tempo. Cambiò dunque registro, nonché  perno su cui far ruotare le proprie motivazioni “Ti piace molto questo appartamento. E poi si vede che hai bisogno di compagnia.”

John spalancò gli occhi, riflettendo su quanto appena asserito dal consulente investigativo e scoprì che era vero. Si era rifugiato in quel garage anche per fuggire dai rumori, dalle luci, da qualsiasi potenziale minaccia per la sua tranquillità, ma era altrettanto vero che non appena gli si era presentata davanti l'occasione per uno scambio dialogico con una persona interessante dal punto di vista intellettuale, l'aveva colta al volo. Seppur nella tranquillità e nella protezione che il suo garage offriva “Sherlock, io...”

Seduto di fronte a John, Sherlock si slacciò qualche bottone della camicia che essendo cucita perfettamente su misura, risultava stretta sopra alle numerose fasciature sul torace “C'è un'altra camera al piano di sopra.”

“Senti, io...” provò ancora ad obiettare John che, dopo aver mal celato uno sbadiglio, si rassegnò all'idea di trascorrere la notte a Baker Street “...questa notte resterò, va bene. Ma mi sistemerò sul divano, sono molto stanco.” si alzò con un grugnito, senza sforzarsi di nascondere una smorfia di dolore “Discorso chiuso.”

A Sherlock scappò un risolino: era il suo tanto agognato mistero, John, ma non gli avrebbe permesso di avere l'ultima parola “Ne riparleremo domani.” seguì i passi claudicanti dell'ex medico militare e solo quando lo vide sdraiarsi sul divano e coprirsi con un plaid trovato sopra ad esso pronunciò quelle che pensava sarebbero state le sue ultime parole della giornata “Buona notte, John.”

D'altro canto, anche il saluto che John biascicò in risposta sarebbe dovuto essere l'ultimo vocabolo pronunciato dalla sua persona in quella giornata.


Sherlock non dedicava mai molte ore al sonno: il suo cervello lo rendeva schiavo dei suoi numerosi ragionamenti a tal punto da tenerlo sveglio anche quando il suo fisico necessitava un reale riposo. Era rimasto sulla poltrona alzando gambe e piedi su quella di fronte a sé per far ristorare almeno le gambe: stava sfregando i dorsi della mano destra sulle bende fasciate attorno al torace quando la sua attenzione fu attirata da alcuni rumori provenienti dal divano. Ruotò il capo ed assistette a qualcosa di cui aveva letto molti articoli e pubblicazioni mediche, ma a cui non aveva mai assistito di persona: un episodio di sonnambulismo.

Non erano passate neanche due ore e mezza da quando John si era addormentato quindi era nella terza fase non-rem del sonno e, come da manuale, fu in quel momento che si verificò quell'episodio: si era semplicemente tirato su a sedere ed aveva iniziato a mimare un movimento del suo quotidiano. Aveva iniziato a radersi, o a fingere di farlo, quanto meno.(1)

Sherlock scese sul pavimento e si avvicinò a carponi al divano, aggirando poi il tavolino da the per poter osservare meglio il viso di John: aveva gli occhi aperti, ma come amava dire lo stesso consulente investigativo, non stava osservando veramente davanti a sé. L'episodio durò tre minuti e cinquantaquattro secondi durante i quali John non fece altro che sbarbarsi: Sherlock non poté fare a meno di notare che, nel farlo, l'uomo guardava dritto di fronte a sé, come se si stesse specchiando. Trovò quel dettaglio particolarmente interessante, curiosamente inconsapevole del fatto che il meglio doveva ancora arrivare.

John, infatti, una volta concluso l'episodio, non tornò a dormire come nulla fosse, bensì si svegliò e, ancora seduto, iniziò a guardarsi attorno con l'espressione tipica di una persona che non aveva la benché minima idea di dove si trovasse. Poi posò lo sguardo su Sherlock e sembrò capire: aprì la bocca in un'espressione piacevolmente stupita, quindi sorrise “Oh, capisco.”

Sherlock, invece, non capì nulla. Avrebbe provato un profondo fastidio a riguardo se non fosse stato che, perdendosi a sua volta negli occhi di John, riconobbe lo sguardo che lo incantò durante il gioco deduttivo intrapreso poche ore prima. Rimase in ginocchio davanti a John, pieno di domande che gli affollavano la testa, incapace di ipotizzare ad alta voce una diagnosi che si avvicinasse alla realtà.

“Sei stato ferito oggi, non dovresti startene in ginocchio sul pavimento freddo.” parlò ancora John sorridendogli con un calore e una vivacità che stupirono ancora Sherlock. L’uomo sbuffò divertito, quindi, con movimenti attenti ma allo stesso tempo con ben poca grazia, prese Sherlock per le braccia e lo fece sedere sul tavolino da the posto di fronte al divano “Sherlock, giusto?” domandò per poi guardarsi attorno all'evidente ricerca di qualcosa “Douglas non c'è?”

Sherlock trasalì quasi di fronte al vigore di John, impressionato dalla forza, dall'intraprendenza e dalla dimestichezza dimostrate dallo stesso uomo che fino a tre ore prima sembrava aver paura anche della propria ombra “John?” fu l'unica cosa che riuscì a domandare: necessitava di altre informazioni prima di sbilanciarsi ed inoltre trovava oltremodo interessante il modo di fare di quell'individuo.

“E chi, altrimenti?” domandò con una leggera alzata di spalle “John Watson, capitano dei fucilieri del quinto reggimento di Northurmberland.” si impettì in un mezzo saluto militare che, si accorse, stupì ulteriormente l'uomo che aveva di fronte. Rise leggermente, quindi smontò almeno parte della vena sarcastica a favore di uno sguardo acceso, intrigante, ma pur sempre umile “Dai, dimmi quello che pensi e ti dirò se ci sei andato almeno vicino.”

Gli occhi di Sherlock non riuscivano ad abbandonare quelli di John neanche per un secondo: si accorse che il blu che gli colorava le iridi era ancora più intenso nonostante la stanza fosse immersa nel buio quasi totale. Sherlock aveva mille e una teorie in testa, ma per la prima volta nella vita si astenne dall'enunciarle a favore di domande, molti quesiti che aveva tutta l'intenzione di voler pronunciare “Chi è quello vero di voi due?” quindi aggiunse “Siete in qualche modo presenti quando vive l'altro?” poi ancora “Prima, durante il gioco, eri tu?”

John rise nuovamente, ma non di scherno, infatti tenne a precisarlo “Scusami, non sto ridendo di te. È che è che da così tanto che non parlo con qualcuno che sono felice di poterlo finalmente fare.” sospirò a lungo, di apparente gioia, quindi fece mente locale per ricordare le domande di Sherlock “Hai fatto domande complicate, sai?”

“Complicate le mie domande?” sbottò Sherlock puntandogli contro l'indice della mano destra “Tu sei complicato.”

John afferrò nella mancina l'indice di Sherlock, facendolo sporgere un poco in avanti, verso di sé “E tu odi non capire le cose.” sussurrò approssimandosi a sua volta con la metà superiore del busto “Sei così affascinante.” confessò poi, senza imbarazzo alcuno, avvicinando la mano di Sherlock al proprio viso: la guardò in silenzio dapprima, per poi iniziare a carpirne il profumo alla ricerca dell'odore tipico dell'uomo che aveva di fronte. Chiuse gli occhi per strofinarli assieme al proprio naso sul palmo aperto di Sherlock in un gesto istintivo, naturale, atto alla ricerca di un simile che, nella vita del John notturno, mancava ormai da mesi.

Non era vero che Sherlock odiava il contatto fisico in assoluto. Semplicemente non amava interagire con le persone in generale, mentre tendeva ad aprirsi e a lasciarsi esplorare da chi attirava la sua attenzione. Che poi al mondo non esistessero molti individui abbastanza interessanti da ricevere tale onore, non era certo colpa sua. John, tuttavia, sembrava far parte di quella misera percentuale di persone interessanti, quindi non gli dette fastidio l'esplorazione olfattiva e tattile che l'ex medico militare aveva iniziato nei suoi confronti. Non si ritrasse, ma non la alimentò oltremodo: si sentiva attratto da John, ma in quel momento il desiderio di conoscenza andava oltre il coinvolgimento fisico che provava per lui “Quindi è vero, siete presenti comunque quando l'altro vive.”

John inarcò gli angoli delle labbra in un piccolo sorriso, unendo poi anche le labbra all'esplorazione della mano e del polso di Sherlock “Io a volte riesco a farmi strada in lui.” spiegò paziente: aggiunse anche la mano destra alla cattura del polso del consulente investigativo in una presa morbida ma sicura. Poté così sfiorargli l'interno del polso in una carezza che non era un bacio, ma una lenta esplorazione a livello sensoriale che simulava quella dei neonati “Ma lui non riesce mai a farsi strada in me.” mormorò staccandosi dalla pelle di Sherlock il minimo indispensabile per riuscire a parlare, riattaccandosi subito dopo in una lenta risalita verso il dorso della mano che esplorò con altrettanta dedizione.

Sherlock catalogò nei propri registri mnemonici tutta la scena a cui aveva assistito e di cui era uno dei due fortunati protagonisti: fece fatica a non farsi coinvolgere da quella che, se per John poteva essere solamente un'esplorazione, per lui stava diventando la causa del calore che sentì affiorargli sul viso. Un calore languido che gli inumidì leggermente gli occhi. Frenò la mano sinistra che avrebbe voluto unirsi a quella comunione di pelle e respiri, riprendendo subito dopo il filo del discorso “Perché?”

John si staccò dalla mano di Sherlock e sorrise trasudando tutta la sicurezza che era caratteristica di quella scissione della sua psiche “Perché io sono quello forte.”

“Tuttavia è lui a vivere la maggior parte del tempo.” replicò Sherlock le cui parole non volevano essere tuttavia una critica, ma una maggiore delucidazione della reale condizione di John che lo stesso soldato avrebbe potuto smentire o confermare.

L'esplorazione della mano di Sherlock si interruppe per qualche istante, giusto il tempo di confermare la tesi dell'altro “Touche.”

La conferma di John fece arricciare le labbra di Sherlock: era l'ipotesi più plausibile nonché quella che gli piaceva di meno. Con ancora la propria mano in ostaggio di quelle di John, chiese ulteriori spiegazioni “Illuminami.”

John sospirò: non che non avesse voglia di chiarire la propria situazione, ma le cure che stava donando alla mano di Sherlock lo interessavano di più. Erano mesi che non toccava un essere umano e, in più, erano anni che non aveva a che fare con una personalità così interessante. Allontanò la mano di Sherlock dal proprio viso per non celare neanche per un istante le proprie espressioni facciali, ma non la liberò dalla propria presa possessiva, accompagnandola in grembo assieme alle proprie “Non siamo due personalità diverse, siamo entrambi John Watson. La nostra psiche si è solo scissa in due parti.”

Sherlock annuì: questo era il quesito più grande che lo attanagliava. Sherlock era a conoscenza di molte psicopatologie ricollegabili ai disturbi di dissociazione della personalità e anche all'interno delle diverse categorie ogni caso era diverso da tutti gli altri. Un collegamento più semplice da esperire era invece riconducibile alla causa scatenante della scissione “È successo in guerra?”

John annuì a sua volta e, più o meno inconsciamente, strinse la mano di Sherlock tra le proprie. Quella parte di psiche non aveva problemi a parlare della guerra, non rifiutava gli eventi e tanto meno ne ostacolava il ricordo, ma questo non significava che non provasse dolore alla loro rievocazione “L'ultima missione, la battaglia di Mainwand. Ho visto degli orrori che...” si interruppe, prendendo un lungo respiro “Un uomo spera sempre che l'umanità non raggiunga mai il fondo, ma lì, bello mio, il fondo l'hanno bello che raschiato.” scosse il capo di fronte alle immagini affiorate durante che quel ricordo “Ed è successo che la paura, il dolore ed il rifiuto mi shockarono al punto da non accettare ciò che avevo di fronte. Non potevo accettarlo.” inspirò, quindi aggiunse “Ma fidati: non l'ho dimenticato.”

Sherlock provò ad immaginare uno scenario che potesse avvicinarsi al racconto di John, ma la verità era che per quanto riuscisse ad intuire almeno parte degli orrori citati dal medico militare, in realtà non poteva comunque sentire neanche la benché minima parte di disagio, rabbia e disperazione provati da un soldato in una circostanza come quella “Questo ha creato la dissociazione.” (2)

“Non la chiamerei propriamente dissociazione.” John fece spallucce, quindi iniziò a sistemare il piccolo bendaggio sulla mano di Sherlock che, a forza di toccarla e stringerla, si era via via allentata “Quanto più… una vacanza, sai?”

“Una fuga psicogena.” lo corresse Sherlock, usando un termine psichiatrico che prevede una inaspettata confusione riguardo alla propria identità ed una parziale o completa assunzione di una nuova personalità. Ma, come aveva già pensato in precedenza, sapeva altrettanto bene che ogni caso psichico è differente, che ogni persona soggetta a questa sindrome portava con sé un livello di dissociazione diverso a seconda di molteplici fattori riguardanti l’esperienza dell’individuo sia prima che dopo nonché durante il trauma. Sentì lo sguardo di John non abbandonarlo neanche per un secondo, così come percepì la costante presenza delle mani ruvide da soldato e al tempo stesso delicate da medico sulla propria “Ma non sei stato in grado di gestirla. I meccanismi di difesa sono stati più potenti dei ricordi e ora vive la parte di te che è assoggettata alla paura e che preferisce rinnegare se stessa pur di non ricordare.”

John mugolò compiaciuto “Sei bravo.” sussurrò prima di tirare Sherlock per la mano: gli andò incontro di rimando, ritrovandosi seduto di fronte a lui, le gambe alternate una ad una, le fronti che si sfioravano.

Sherlock trasalì un poco per l’improvvisa vicinanza che elaborò con molta calma, respirando lentamente: non fuggì infatti, bensì strofinò la fronte su quella di John verso il basso, in un gesto apparentemente casuale “Me l'hai già detto oggi.” sussurrò sforzandosi di mantenere la voce atona, senza particolari vibrazioni a colorarla.

“E lo ripeto, sei molto bravo.” mormorò ancora per poi reclinare il viso, giocando coi profili dei loro nasi ad occhi chiusi, inalando il profumo proveniente dall’altro, rilassandosi sotto il delicato tocco dei loro respiri che donavano carezze effimere sull’altrui pelle. Si ritrasse infine, dandogli un po’ di tregua: gli lasciò andare anche la mano, sfumando via via quel contatto.

Sherlock riaprì gli occhi nel momento in cui si sentì privato del respiro di John sul proprio viso: lo osservò allontanarsi e sentì il palmo denudato di ogni protezione quando non fu più avvolto dalle mani di John “Mentre di notte vive la parte più spavalda.” mormorò, riprendendo il discorso da dove lo aveva interrotto, come se nell’intermezzo non fosse successo qualcosa che lo aveva inaspettatamente deliziato “Fammi indovinare, il vero John Watson è la perfetta miscela di voi due.” mugolò e si corresse da solo “Anzi no. L'ottanta per cento di te e il rimanente di lui.”

John si appoggiò stancamente sullo schienale del divano “Questa stima da cosa deriva?”

“Una speranza.” Sherlock non riuscì proprio a trattenere quell’esternazione, così come quella successiva “Tu sei più interessante.”

“E hai perfettamente ragione.” replicò John, oggettivamente convinto di ciò “Non bistrattarmelo però.” aggiunse poi e per la prima volta il suo viso si colorò di un’espressione dolce. Fu solo un istante, poi tornò il soldato spavaldo che portò con sé l’eco di quella dolcezza “È parte di me.”

Sherlock ringraziò se stesso per l’eccellente percezione dei dettagli di cui era dotato e che gli permise di vedere anche quella piccola sfumatura “Come posso convincerlo a rimanere qui?”

“Porta qui Douglas e tutte le sue, anzi le mie, cose.” John alzò le gambe sul divano ed iniziò a sdraiarsi portando con sé il plaid con cui si era coperto precedentemente “Digli che avrai bisogno di un medico, coinvolgilo nelle tue indagini e affezionati al gatto.”

Sherlock raccolse da terra un lembo del plaid e lo tirò verso di sé: non voleva che quel John sparisse così presto “Compari ogni notte?”

“No, non sempre.” sospirò John, frustrato da quella stessa rivelazione “Se lui ha degli incubi, si sveglierà e faticherà a riaddormentarsi, scombussolando così tutte le fasi del sonno. Se invece ha un episodio di sonnambulismo allora comparirò.” si sdraiò del tutto e si coprì finché la porzione di plaid che era riuscito a recuperare glielo consentì.

Il consulente investigativo si inginocchiò, posando la mano destra sul torace di John per scuoterlo un poco “Ehi, non ti addormentare già.”

“Sherlock.” mugugnò John, palesemente stanco ed in procinto di addormentarsi “Se vuoi vedermi, se vuoi farlo di giorno, dovrai liberarmi.”

A Sherlock quella parola suonò come un campanello d’allarme “Liberarti?”

“Adrenalina.” suggerì John, per poi sovrapporre la mano destra di Sherlock con la propria “Butta via quel maledettissimo bastone, portalo con te, fallo vivere.”

“E se lui non volesse?” chiese Sherlock sottovoce, lasciando cullare la mano destra da quella di John e portando la mancina sulla fronte dell’ex medico militare: esitò un poco, ma poi lo fece. Posò delle piccole carezze sul capo dell’altro, cercando di imitare quelle ricevute poche ore prime dal John diurno.

John rise leggermente prima di socchiudere gli occhi “Non mi sembri il tipo da concedere l'ultima parola.”

“Dammi qualche altro indizio.” provò ancora Sherlock.

Liberami.” ripeté John che a quel punto riaprì completamente gli occhi. Abbandonò la mano di Sherlock per posare la propria sul viso dell’altro, poi sul collo, quindi dietro la nuca: lo spinse un poco verso di sé mimando la stessa vicinanza di pochi minuti prima, fronte contro fronte “Perché anche io voglio rivederti.”

La mano destra di Sherlock si chiuse nervosamente attorno al tessuto del maglione indossato da John, il respiro si fece leggermente più pesante, gli occhi nuovamente languidi di rossore. Ma ancora non voleva dargliela vinta “Chi ti dice che anche io voglia rivederti?”

“Mpf.” ridacchiò John prima di lasciarlo andare. Posò entrambe le mani lungo i fianchi e reclinò il capo di lato “Il nostro signor Ultima Parola è timido.”

Sherlock scosse il capo “Io non sono...” non concluse tuttavia la propria frase, accorgendosi della totale immobilità dell’altro “John?” provò a chiamare sottovoce, ma capì ben presto che l’ex medico militare si era addormentato. Sospirò, quindi lo coprì interamente col plaid e tornò a sedersi sul tavolino da the, osservandolo dormire per i primi minuti che il sonno gli stava concedendo.

Estrasse velocemente il cellulare dalla tasca dei pantaloni e, digitando veloci messaggi di testo, mobilitò i componenti della rete di senzatetto, promettendo laute mance se fossero riusciti a portare al 221B di Baker Street tutto ciò che si trovava nel garage di John entro l’alba. Gatto rosso rispondente al nome ‘Douglas’ compreso.

Sherlock era a dir poco eccitato dalla doppia fortuna che il caso aveva deciso di donargli: un mistero, un caso molto difficile da risolvere il cui cliente era forse la persona più interessante che gli fosse capitato di conoscere. Interessante e affascinante. Si voltò ad osservare John nuovamente: oltre all’evidente interesse scientifico che provava per il suo caso, infatti, si riscoprì irrimediabilmente attratto dalla sua persona. Il suo viso, il suo fisico, la sua voce, il suo tocco. Fu facile capire anche che il John notturno lo stimolava molto più a livello fisico ed epidermico rispetto a quello diurno che, tuttavia, era ciò che aveva dato vita a quella versione così smaliziata e ricca di fascino che viveva di notte. Ripensandoci, Sherlock scoprì che entrambi lo avevano colpito seppur in due modi completamente diversi e per nulla al mondo avrebbe rinunciato a perdere l’occasione di interagire nuovamente con loro.

Ebbene, Sherlock aveva il suo obiettivo. Avrebbe dovuto convincere il John diurno a rimanere con lui a tutti i costi così da poter incontrare nuovamente il John notturno e ricevere gli indizi necessari per procurarsi ciò che più al mondo bramava ottenere: il vero John.


John si svegliò mugolando una lunga nota nasale che si interruppe quando aprì gli occhi puntandoli verso il soffitto: un divano non era comodo come un letto, ma era certamente meglio della branda che utilizzava da mesi. Si crogiolò tra i cuscini ancora per qualche istante, poi si voltò verso il salotto e quasi trasalì: vide Sherlock seduto sulla poltrona nera, gambe accavallate, ma ciò che trovò incredibile fu la presenza di Douglas tra le sue braccia impegnato in nulla se non a farsi accarezzare, comprato come la peggiore delle prostitute per un pugno di croccantini e incessanti grattini.

“Buongiorno, John.” esordì Sherlock quando vide John sveglio e voltato verso di lui.

John si tirò su a sedere e dovette trattenere una risata di fronte all’immagine che aveva di fronte “Signor Blofeld.” salutò dunque, lasciando che una punta di ironia gli colorasse il tono di voce.

Sherlock assottigliò lo sguardo su John arricciando le labbra all’infuori, palesemente confuso “Mi chiamo Sherlock, te lo sei scordato?”

A quel punto, John non aveva più alcun motivo per trattenere la piccola risata che gli fece alzare ed abbassare il diaframma “Era una battuta.” spiegò, fornendogli poi altri indizi  “Ernst Blofeld, sai? Quello di James Bond, iI cattivo che aveva sempre in braccio un gatto e lo accarezzava mentre parlava?” mimò il gesto, coccolando un ipotetico gatto appoggiato sulle proprie gambe. Nessuna intuizione sembrò tuttavia attraversare la geniale mente del consulente investigativo “Sai almeno chi è James Bond?” vide l’altro negare con un cenno del capo “Ian Fleming, no? Niente?”

Pur continuando ad accarezzare Douglas, Sherlock sbuffò a bocca aperta e scrollò le spalle “John, te l’ho già detto ieri: nel mio Palazzo Mentale entrano solo le informazioni più importanti.”

“Certo.” annuì John per poi lasciare spaziare lo sguardo lungo tutto il salotto, notando inevitabilmente gli scatoloni pieni della sua roba. Il suo bastone, infine, era appoggiato vicino alla rampa di scale che portava al piano di sopra. Sospirò, quindi riportò l’attenzione su Sherlock “Ad ogni modo, non posso fare a meno di notare che tutti i miei averi sono stati portati qui.”

“Ottimo spirito di osservazione.” lo schernì Sherlock in tono sarcastico, ma non offensivo.

John sospirò nuovamente, questa volta più a lungo “Sherlock...” iniziò, ma si sentì interrompere dall’altro.

“Douglas vuole stare qui con me.” annunciò perentorio per poi alzare il felino all’altezza del proprio viso che nascose in parte tra il pelo rossiccio della pancia del gatto “Guarda.”

John fu colpito da quell’immagine: non conosceva Sherlock Holmes, ma certamente non gli sembrava il tipo da concedersi effusioni con qualsivoglia tipo di essere vivente. Poté dunque intuire, ma non capire, che la sua determinazione ad averlo come coinquilino doveva andare ben oltre un semplice capriccio. Si ritrovò dunque a valutare cosa avesse da perdere ad assecondare quel desiderio, ricordando che, in fondo, Sherlock aveva ragione anche su un’altra questione: aveva bisogno di compagnia e dopotutto si trovava bene con lui. Era una sensazione più che altro istintiva e John si rese conto che era difficile mettere a tacere quella voce ancestrale che gli suggeriva di assecondare il desiderio di Sherlock Holmes. Sorrise, dunque, fingendosi oltraggiato “Quindi contano più le volontà di Douglas rispetto alle mie?”

Sherlock nascose un sorriso soddisfatto: sapeva di aver vinto quella piccola battaglia, o John non avrebbe mai risposto in quel modo. Mantenne tuttavia l’argomento della conversazione, annuendo solenne “Tu sai fare le fusa?”

A John, invece, scappò un risolino “No.”

“Allora sì.” annuì Sherlock, riportando fieramente il gatto sulle proprie gambe in una posa elegante, dandogli così l’importanza che il discorso suggeriva “Douglas ha la precedenza.”

John non poté fare altro che arrendersi “Se lo dice Douglas...”

Sherlock scattò in piedi facendo inevitabilmente scendere il gatto dalle proprie gambe “Perfetto, John! Sapevo che avresti preso la decisione giusta.” esultò iniziando ad avvicinarsi al divano.

“Del tutto spontanea e per nulla forzata.” garantì John con sarcasmo.

A Sherlock, d’altro canto, non importava dell’ironia percepita nel tono di John: aveva ottenuto ciò che voleva e, nonostante le piccole forzature, era sicuro che la decisione dell’altro fosse sincera e volontaria “Vieni, ti aiuto a portare le tue cose nella tua nuova camera da letto.” lo prese energicamente per le spalle e lo fece alzare dal divano con non molta grazia “Al piano di sopra.”

Una volta in piedi, John alternò lo sguardo tra le scale che avrebbe dovuto salire e il volto del suo nuovo coinquilino “Ma Sherlock, la mia gamba...”

“La faremo guarire.” assicurò Sherlock che dopo avergli passato il braccio sinistro attorno alle spalle, lo spinse verso la rampa di scale.

John, tuttavia, tentò di deviare verso il bastone: ad ogni passo che zoppicava corrispondeva un monosillabo “Ma... ok... va bene, ma...” quando capì che sarebbe stato inutile cercare di raggiungere la propria stampella, provò a fermarsi illudendosi di riuscire ad attaccarsi al muro “Sherlock, fammi prima andare in bagno!”

Sherlock sbuffò teatralmente, impedendogli di deviare altrove “Urinare è noioso.”

“Non se ti scappa!” protestò John che nonostante i suoi sforzi si vide spingere verso l’ormai prossima rampa di scale.

“Dopo, John!” ridacchiò Sherlock soddisfatto. Soddisfatto perché, al contrario del suo nuovo coinquilino che era troppo impegnato a protestare per accorgersene, vide John muovere i suoi primi passi senza zoppicare neanche una volta.





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(1)Ho trovato su wikipedia che un episodio di sonnambulismo avviene nella terza o nella quarta fase del sonno (non-rem), dura dai 2 ai 5 minuti e, mentre raramente ci si alza in piedi a fare il giro del vicinato(XD), solitamente si compiono azioni quotidiane tipo lavarsi e roba simile!

(2)Allora, per la patologia di John, ho cercato informazioni sulla Dissociazione psichica, sulla Fuga Psicogena e collegamenti simili, quindi se volete informarvi maggiormente a riguardo sapete doca cercare *_*

   
 
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