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Autore: Valerie Clark    05/04/2013    1 recensioni
''Girano voci qui, strane voci di chi, senza coraggio, afferma di non essere mai nemmeno riuscito a decifrare il colore dei suoi occhi; sempre cangianti e fuggitivi.
Ma io ci scommetto, nessuno l’aveva mai capito perché non erano colorati quegli occhi, erano infiniti e l’infinito non è un colore. L’infinito non è una cosa alla portata delle menti di tutti. L’infinito ce l’hai tra le mani per un secondo e poi ti scappa, e così lei distoglieva, abile e veloce, lo sguardo.''
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Ce monstre disloqué fut jadis une femme-

‘Non si è più svegliata?’
‘Non si è più svegliata.’
‘Era morta? Era morta così, senza un motivo, senza una parola?’
‘Era morta come si muore; nulla di più, nulla di meno delle altre persone.’
 
 
L’ho guardata a lungo quella mattina. Pensavo dormisse.
Non sentivo battere veloce il suo cuore e ho pensato che si fosse finalmente calmata. Non l’ho mai saputo se si fosse calmata.
Non ricordo quando ho capito che non si sarebbe più svegliata, ricordo solo che non riuscivo a farmene una ragione; la guardavo come l’avevo guardata per tanto tempo, e lentamente ogni segno del dolore spariva dal suo volto. Le occhiaie svanivano, le labbra si rilassavano, gli zigomi non erano più così scuri e segnati, le guance riprendevano colorito. Non è strano? I cadaveri diventano bianchi, lei no. Lei si colorava, si colorava per tutte le volte che il colore le era stato tolto dal viso, si colorava di vita nel primo istante in cui la vita l’aveva abbandonata. Contro corrente anche da morta.
Non riuscivo a non guardarla. Era un cadavere.
Lei, la donna che mi aveva dato così tanto in così poco tempo, che mi aveva preso e portato dove nessuno era mai arrivato, era morta. Mi ripetevo la parola ‘morta’ nella testa;
morta, morta, morta, morta.
L’ho guardata anche fissando la mia immagine nello specchio; all’improvviso le sue occhiaie, le sue lacrime, le sue palpebre sigillate erano diventate le mie, la sua tristezza che l’aveva accompagnata fino alla morte era entrata dentro di me. E diventavo un cadavere.
Mi sentivo solo, abbandonato; prima del dolore è arrivata la rabbia.
-Perché mi hai lasciato? Come hai potuto? Come hai potuto fare questo a me? A me?!
Hai preso e te ne sei andata.
Ci hai pensato a me? Ci hai pensato al male che mi avresti fatto, al vuoto che mi avresti lasciato dentro?! Sei stata un’egoista. Cosa dovrei fare io adesso? Cosa mi rimane di te, di noi?
Sei stata un’egoista.-
 
Mi aveva lasciato nella disperazione; se n’era andata.
Ma dico io, si può prendere e sparire così? Sentivo il dolore che mi mangiava le viscere, la vita che mi abbandonava insieme a lei. Mi chiedevo se fosse questo il dolore di un cuore spezzato, ma a me faceva male tutto, non solo il cuore; le mie mani tremavano, i miei occhi bruciavano, la mia testa scoppiava. Non riuscivo a muovere un muscolo, non riuscivo a staccare gli occhi da lei, non riuscivo a fare un passo. Se mi chiedeste cosa provavo, non saprei rispondere. Direi che ho sentito tutti gli organi sparpagliarsi nel mio corpo, unirsi per poi staccarsi, allontanarsi il più possibile e premere sulla mia carne per il desiderio di uscire, di mettere più spazio possibile tra gli uni e gli altri. Direi che ho sentito il battito del mio cuore che mi martellava il cervello, tanto da sperare di essere io quello morto. Direi che ci sono stati dei minuti in cui non ho avuto il coraggio di provare niente. Direi che ho avuto un’enorme paura.
Paura di restare solo.
Paura di dimenticare.
Paura che di lei non mi rimanesse niente.
Ho iniziato a urlare, a gesticolare, a svuotare i cassetti, a buttare i vestiti per aria. Ero impazzito? No, volevo solo una prova del fatto che lei fosse passata per di lì. Volevo trovare una prova che testimoniasse che c’era stata nella mia vita.
Come avrei fatto a ricordarla per sempre senza poterla stringere tra le braccia, senza poter sentire il suo profumo salirmi nelle narici?
Non c’era niente. Né una foto, né un biglietto, niente. C’era il gatto, quel gatto che sicuramente senza di lei non ci sarebbe stato, ma il gatto non sarebbe rimasto per sempre.
Un gatto, sette sigarette e un vestito: ecco tutto ciò che quella relazione mi aveva lasciato. Nient’altro.
Urlavo, sbattevo i pugni al muro. Niente poteva ridarmela indietro. Guardavo i libri per terra, i vestiti strappati, i piatti rotti. E poi guardavo lei, e mi chiedevo cosa c’entrasse quel disordine con la sua perfezione.
Ho deciso che avrei fumato per sempre solo per provare a sentirmela accanto.
Che avrei conservato quelle sette sigarette nel cassetto vicino al letto e sarebbero rimaste lì per sempre, intatte.
Che avrei tenuto quel vestito nell’armadio, accanto ai maglioni che metto tutti i giorni, nella speranza di sentire il suo odore.
Che mi sarei sforzato di amare quel gatto almeno la metà di quanto l’amava lei. Ma niente poteva ridarmela indietro.
Nella mia testa la vedevo scivolare via, lontano da me. Non era semplicemente andata via, no, lei era andata via per sempre e, anche volendo, non l’avrei mai più rivista, toccata ed ero pronto ad attaccarmi a tutto pur di toccarla un’ultima volta.
La paura di dimenticarla mi massacrava.
E lei invece? Lei si sarebbe ricordata di me? Voglio dire, chi ci assicura cosa accade dopo la morte? Potrei essere quello su cui butta sempre un occhio da lassù, o potrei non essere niente per lei. Potrebbe ricordarmi per sempre o avermi già rimosso. Voglio che mi ricordi, voglio continuare a far parte di lei, ma non so come fare. Non ho avuto nemmeno un momento per pensare a questo, non avevo mai nemmeno pensato che sarebbe accaduto.
Noi saremmo dovuti essere per sempre.
-Almeno era quello che pensavo, non so neanche se ho mai avuto la possibilità di dirtelo. Di dirti che io ti amo – ti amavo -, che avrei voluto passarci la vita con te, che avrei voluto dei bambini, anche se a te i bambini facevano schifo, non mi interessava, volevo qualcosa che fosse nostro, qualcosa che avevamo creato noi. Che dovevi fare attenzione al ponte poco distante da qui. Che morivo dalla voglia di vederti di nuovo su quel palco, anche se la gelosia mi divorava perché tu sei mia. Eri. Eri mia.
E invece non ho avuto il tempo di dirti nessuna di queste cose.
E non abbiamo neanche creato qualcosa di nostro.
Chi ci ricorderà allora? Non come me e te, ma come ‘noi’; chi ricorderà ‘noi’? Non lo so, non lo so più, non so più niente.-
A volte pensavo di sapere tutto di lei, altre pensavo di non sapere niente. Adesso so che non sapevo neanche il suo nome. Ma non importa; un nome è da dove veniamo, l’importante è dove arriviamo.
Se conoscessi il suo nome adesso lo urlerei e poi lo inciderei sulla tua lapide. Ma non lo farò, perché il suo nome, che è la cosa che l’accompagna da più tempo, non lo so. Quindi non ci saranno lapidi: la porto nel mio cuore.
 
Sono scivolato per terra. Ho pianto. Ho singhiozzato. Ho pianto ancora. E poi, proprio quando pensavo di dovermi rassegnare all’idea di vivere in un ricordo, ho posato gli occhi gonfi sulla pagina scarabocchiata di un libro;
Quel jour sommes-nous ?
Nous sommes tous les jours, mon amie
Nous sommes toute la vie, mon amour
Nous nous aimons et nous vivons
Nous vivons et nous nous aimons
Et nous ne savons pas ce que c'est que la vie
Et nous ne savons pas ce que c'est que le jour
Et nous ne savons pas ce que c'est que l'amour.

di Jacques Prévert
Questo c’era scritto, su quella pagina, circondato da scarabocchi e cancellature. Una poesia, una poesia francese e lei: questo c’era scritto su quella pagina.
 
Ho sfogliato il libro; altre pagine, altre poesie e poi altri libri, tutti scritti. Non ne aveva lasciato uno.
Non capii mai cosa ci avesse scritto, perché le parole erano leggere e cancellate, ma ognuna di essa sembrava gridare ‘Non ti scordare di me!’.
Perché?
Si aspettava che mi avrebbe lasciato?
Si aspettava che sarebbe successo questo?
Forse non si aspettava niente, ma, meglio di me, sapeva come andava la vita. Io, per esempio, non l’ho mai capito come andasse, la vita. Speravo di passarla con lei e invece non ho potuto. Ero sicuro che nessuno ce l’avrebbe mai tolta, quella vita che ci riempiva le vene fino a farci scoppiare, e invece ce l’hanno portata via.
Ma noi la volevamo, la volevamo sempre, la volevamo anche quando andava male, la volevamo anche quando pensavamo di non volerla più. La volevamo tutta; ne volevamo tutti i dettagli, tutte le sfumature, tutte le pieghe.
Tutti i tagli, le cicatrici, i morsi.
E invece sono riusciti a strapparcela. Ma non è importante, pensai dopo, perché la vita se ne va, il tempo ci sfugge dalle mani, le persone ci abbandonano, ma la gioia e l’amore no, quelle non ci lasciano. Quelle non ci lasciano mai.
 
E allora sì, abbiamo lasciato qualcosa di ‘noi’al mondo. Abbiamo lasciato la gioia e l’amore; l’abbiamo lasciati per noi, perché gli altri non li vedevano, sotterrati da uno strato di odio, urla e follia. Ma che importa degli altri, di quello che vedono, di quello che pensano. Importa di noi due, solo di noi due.
-E l’amore che mi hai lasciato tu lo sento accarezzarmi tutto il corpo, cellula per cellula, mentre sale dalle narici, dall’ombelico, da ogni taglio. Ed è l’amore più bello che io abbia mai sentito.-
 
 
‘E il lieto fine?’
‘Non c’è un lieto fine, non c’è nessuna fine. Lei muore. Muore senza che nessuno se ne accorga, muore improvvisamente, muore lasciando gli altri nel dubbio. Gliel’ho detto, muore e basta. Muore come muoiono tutti.
Questa non è una storia particolare. In fondo, questa non è soltanto una lunga storia di ombre scure, senza gloria?’

 
 
 
 
   
 
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