Don’t Follow –
Alice In Chains
{Hey, I can’t meet you here
tomorrow,
say goodbye, don’t follow}
Mike si stiracchiò languidamente sul
divano, i muscoli intorpiditi per il troppo tempo passato a vegetarvi sopra o
–ipotesi assai più probabile- per via delle pasticchette
che s’era ingollato prima, senza tante cerimonie.
Era il peso degli anni –a proposito, quanti erano? Trentacinque?
Trentasei?- a costringerlo a rimanere bloccato in quella posizione, si
disse tra sé e sé, cercando di non ricordarsi quale fosse la vera croce che,
imperterrito, continuava a trascinarsi appresso da innumerevoli lune.
Chiuse gli occhi e rivide se stesso
bussare a quella porta qualche ora
prima, una bottiglia di vino in una mano e un dolce nell’altra, e l’altro abbozzare l’ombra di un sorriso, lasciandolo poi sgusciare all’interno
dell’abitazione.
Aveva anche ciarlato qualcosa a proposito
del compleanno di McCready ma s’era interrotto quasi
subito, come se quella fosse stata una riflessione a voce alta che però lui non
aveva il diritto di ascoltare.
Riaprì gli occhi e rivolse uno sguardo
distratto al tavolo un po’ lontano: la torta era ancora lì, intatta.
Di punto in bianco si ricordò del padrone
di casa e, sporgendosi dal divano per cercare di capire dove fosse andato a
cacciarsi, lo chiamò più volte.
La risposta non arrivò subito, ma ormai
era prassi consolidata: sembrava che l’altro avesse dimenticato come si facesse
a comunicare con il mondo esterno, troppo preso dai videogiochi e da altre
puttanate per poter mettere fuori il naso, anche per un solo, misero secondo,
dall’universo parallelo che la sua mente aveva forgiato per lui da un po’ di
tempo a quella parte.
Fu solo un borbottio sommesso a condurre
Mike nella giusta direzione, costringendolo ad alzare (a fatica) il culo dal
divano e ad avventurarsi in quella casa che non aveva mai imparato a conoscere.
Ci mise un po’ per riuscirci, ma lo
ritrovò rannicchiato in posizione fetale proprio sotto il tavolo.
Il bassista scostò la tovaglia e lo fissò:
aggrovigliato com’era, poteva benissimo
stare in una scatola.
-Layne…- lo
chiamò nuovamente, la voce più bassa, quasi avesse paura di spaventarlo.
L’altro alzò finalmente lo sguardo e
glielo piantò dritto in faccia, facendolo tremare: gli occhi di Layne ormai erano due pozzi opachi, a cui però ogni tanto
capitava di avere un bagliore improvviso, un guizzo della vitalità che un tempo
egli aveva posseduto.
Poi, come se nulla fosse, lo distolse e
tornò a pensare ai cazzi propri, stringendosi nelle spalle e dondolandosi al
ritmo di una canzone che poteva sentire solo lui, le labbra che ne cantavano i
versi senza lasciar trapelare alcun suono.
La consapevolezza che quelle braccia
avrebbero potuto tranquillamente avvolgerlo più e più volte fece rabbrividire
Mike: di fronte a sé non aveva altro che un mucchietto d’ossa con ancora un po’
di carne attaccata, pronta a lacerarsi alla minima abrasione.
Dieci anni prima non avrebbe scommesso
nemmeno un nichelino sull’eventualità di ritrovarsi di fronte ad uno spettacolo
agghiacciante come quello: a quei tempi era convinto del fatto che Layne sarebbe riuscito a domare la dipendenza –o almeno a
conviverci più o meno pacificamente- e invece la puttana se l’era divorato
lentamente, consumando il pasto con una ferocia nauseabonda e lasciando sempre
meno briciole disponibili.
Mike
temeva seriamente che Layne potesse fare la fine di
Cobain; difatti, come l’uno otto anni prima
aveva premuto sul grilletto, l’altro avrebbe potuto benissimo pigiare lo
stantuffo e spingere l’ago fino in fondo, un
po’ troppo a fondo.
Chiuse gli occhi, concedendosi qualche
istante per far sì che quell’immagine non riuscisse a ferirlo almeno per una
manciata di secondi, per poi riaprirli: Layne era
ancora lì, magro da far paura, il colorito di un cadavere e il volto scavato
come una maschera senz’anima ancora ben presenti, oscuri presagi di una fine
che poteva sempre essere in agguato dietro l’angolo.
Lui stesso era il primo ad esserne
consapevole: non aveva mai fatto mistero delle proprie condizioni, sapeva di
essere sul ciglio di un burrone, di un buco
in cui avrebbe strisciato per l’eternità, eppure non aveva smesso di farsi
sottomettere da tutta quella merda.
Ma Mike sapeva bene quanto fosse difficile
farla finita con la droga, quanto fosse dura uscire dall’ennesima clinica di
riabilitazione e guardarsi in giro con lo sguardo smarrito, chiedendosi per la
milionesima volta “Bene, e adesso che faccio?”, quanto poco ci volesse per
infilare con foga un gettone nella prima cabina telefonica avvistata, pregando
che lo spacciatore non avesse cambiato numero o –nella peggiore delle ipotesi-
non fosse finito al fresco… quanto dannatamente bene si stesse tra le braccia
di una siringa spremuta fino all’ultima goccia, e quanto miserabile fosse il momento
in cui l’effetto degli stupefacenti cessava e non restava altro da fare se non
specchiarsi e volersi sputare in un occhio, tanto era lo schifo che ci si
trovava a provare nei confronti del proprio corpo e della propria volontà così
deboli e volubili.
E poteva soltanto immaginare quanto
meschini e patetici potessero essere i tentativi di escludere quella merda dal
proprio quotidiano, quando tuo padre irrompe improvvisamente nella tua vita
solamente per venirti a chiedere un po’ di roba da farsi –in tua compagnia
oppure anche da solo, poco importa- e tu non sai più dove cazzo sbattere la
testa…
Per questo non lo giudicava: chi era lui
per poterlo fare?
Ciononostante non riusciva a risparmiargli
gli sguardi preoccupati e a tratti compassionevoli che era solito rivolgergli
di tanto in tanto e che sapeva lo facevano incazzare come una bestia.
Perché Layne non
aveva bisogno della comprensione di nessuno, né tantomeno della pietà; Layne era venuto al mondo solo e nel medesimo stato sarebbe crepato, volente o nolente, e non
ci sarebbero stati santi o Mike ad impedirgli di fare quella fine, quello era
poco ma sicuro.
Improvvisamente il bassista notò che la
sua cera, solitamente già pessima, era ancor più orribile di quel che era stato
abituato a vedere negli ultimi anni; inoltre il cantante non riusciva a
sostenere la propria attenzione su un oggetto per più di dieci secondi,
costringendolo a vagare con lo sguardo per tutta la stanza e a farsi bruciare
gli occhi per il troppo fastidio.
Mike non aprì subito bocca: si rialzò e,
dopo essersi scrollato di dosso un po’ di polvere dai jeans, si allontanò dal
tavolo.
Layne
capì subito che c’era qualcosa che non andava, lo aveva intuito dai movimenti
incerti ma allo stesso tempo convulsi dell’ex compagno di band, così si
affrettò a chiedergli che cosa gli fosse preso.
“Chiamo il 911, Layne”
tagliò corto quello, guardandosi intorno per cercare di trovare il telefono in
tutto quell’ammasso di mobilia e sporcizia.
“Non… non dirai sul serio!” iniziò ad
agitarsi l’altro, stropicciandosi la maglia con le mani. Le dita sembravano
essere un’entità a parte, rigiravano il tessuto senza sosta, lo allisciavano e
poi lo torturavano di nuovo, e questo senza che il loro padrone potesse
rendersene conto.
Mike bloccò per qualche istante la propria
ricerca, guardandolo sconsolato: anche da lì poteva notare quanto le falangi
fossero sottili come le linee che una matita avrebbe potuto tracciare su un
foglio, e quanta disperazione stesse bruciando nelle viscere di Layne.
“Certo che faccio sul serio! Non ti rendi
conto dello stato in cui sei?” si riscosse, continuando la ricerca da dove
l’aveva interrotta “Se non faccio qualcosa farai una brutta fine, e questo non
lo posso permettere.”
“Ma si può sapere che cazzo vuoi da me?”
urlò l’altro, la voce ormai ridotta ad un rantolo strozzato “Anche se fosse?
Che cazzo te ne frega? Lo sappiamo benissimo entrambi che farò questa fine di
merda! Cosa cambia anticiparla di qualche mese, cosa?”
“A me importa, Layne:
sei mio amico, non posso lasciarti marcire in tutto questo schifo… Io… Io devo
fare qualcosa, sì”
“Noi non siamo amici, Mike. Non lo siamo
affatto, quindi puoi anche piantarla di preoccuparti per me.” concluse quello
lapidario, incrociando le braccia sul petto.
Forse si era accorto del tic nervoso e
stava facendo di tutto per reprimerlo, si disse tra se e se il bassista, ma
finché le dita si ostinavano a vibrare in quella maniera non sarebbe riuscito a
dare l’impressione di essere lucido e calmo.
“Che cazzo vuol dire ‘noi non siamo
amici’? Me lo vuoi spiegare?”
“Senti, chiariamo le cose una volta per
tutte: se chiami il 911 puoi anche considerare chiusa la nostra amicizia, ok?”
lo interruppe l’altro, fissandolo con quelle capocchie di spillo che ormai si
ritrovava al posto delle pupille.
Mike sostenne per un po’ lo sguardo,
finché fu costretto a rivolgerlo altrove: fosse stato qualcun altro, sapeva che
quello poteva essere un semplice capriccio e che poteva azzardare una
telefonata, ma lì si stava parlando di Layne, e con Layne le mezze misure non erano contemplate. Se dava un
ultimatum quello era: niente vie d’uscita, niente scorciatoie, solo un prendere
e lasciare, un “assecondami oppure affoga nella merda che ti sei cercato”.
Semplice. Coinciso. Inequivocabile.
“… fanculo” borbottò finalmente il
bassista, sedendosi sul divano e ignorando il sorrisetto irrisorio che era nato
sulle labbra dell’altro… o almeno, ignorandolo per qualche manciata di secondi
“e chiudi quella cazzo di bocca, che altrimenti passano gli spifferi!”
“Fanculo a te, stronzo!” sbottò Layne, non riuscendo però a smorzare le risate che gli
stavano uscendo di bocca.
Anche Mike rise di gusto, godendosi quella
sensazione di complicità serena che da troppo tempo non provava in compagnia
dell’amico.
“Senti…” riprese poi, quando le risate
cessarono e il silenzio calò inesorabile su di loro “Io so che questo mio modo
di fare possa farti incazzare di brutto ma hey,
amico, ti giuro che non è affatto la pena a spingermi a farlo… è l’affetto, è
il fatto che tu mi abbia salvato quella dannata volta… mi sento in debito, ecco
tutto.”
“Di che volta stai parlando?” lo guardò
interrogativo l’altro, grattandosi distrattamente una tempia.
“Nel ’92… quando sono andato in overdose e
mi hai praticamente preso per i capelli” borbottò Mike, senza trovare il
coraggio di guardarlo in faccia: non gli faceva piacere ricordare quei momenti
drammatici, la faccia pallida di Jerry, Sean che girava tipo trottola
impazzita, Layne che li rassicurava, nonostante la
pozza di vomito che lo circondava, e compagnia bella.
“Oh, quella
volta!” ridacchiò lieve Layne, tanto che il
bassista si voltò subito per scoccargli un’occhiata perplessa, ma quello s’era
già fatto serio “Hai detto bene, era il ’92.”
“Che cazzo significa? Era il ’92, ora
siamo nel 2002, sono passati esattamente dieci anni… Cambia forse qualcosa?”
“Ti sembro forse in overdose?” lo bloccò
subito l’altro, lesto nel rigirargli contro le sue affermazioni.
“… no.”
“E allora sì, direi che la situazione
cambia, Mike, e pure di parecchio!”
“… no, Layne,
non sei in overdose: sei messo peggio, sei morto dentro.” lo ignorò Mike,
sputando finalmente fuori il rospo.
Layne
parve decisamente colpito da quell’affermazione, ma cercò di ricomporsi quasi
subito: fece spallucce e tentò di ripartire all’attacco.
“Quel che intendo dire è che all’epoca
avevi ventisei anni e praticamente una vita davanti…”
“Perché, tu non ce l’hai questa vita
davanti? Non hai ancora trentacinque anni, ti sembra un discorso da fare?”
“Sì, se sei un guscio vuoto come me.”
Mike sgranò gli occhi e lo fissò
stupefatto: “Io non ci voglio credere… tu non puoi lasciarti andare così, Layne! È una cosa che mi fa incazzare oltre ogni misura,
vaffanculo!”
A quelle parole il cantante s’inalberò:
“Vaffanculo a te, Starr! Per caso t’ho chiamato io?
Avanti, rispondimi! Certo che non rispondi, perché ti rendi conto di essere
stato tu a venire di tua spontanea
volontà a rompermi i coglioni nella mia
fottutissima proprietà! Quindi sai che ti dico? Cuciti quella cazzo di bocca e
vedi di sparire dalla mia vista, non potrei sopportare la tua presenza per un
fottutissimo secondo in più!”
L’altro gli scoccò uno sguardo triste ma
decise di rispondergli altrettanto malamente: “Ok, Staley,
come desideri: sparisco immediatamente dalla tua vista ma non mi rivedrai mai
più, quindi puoi iniziare già adesso a cucirti
le palpebre, almeno ti porti un po’ avanti con i lavori… Addio.” E, detto
quello, raccolse la propria giacca e si precipitò fuori dall’abitazione come
una furia.
Quando ormai aveva percorso tutto il
vialetto sentì però una voce in lontananza, quasi fosse quella di uno spirito
antico, urlargli “Non così, non andartene così…”
L’uomo si voltò all’istante, trovando
l’altro –non molto lontano- di fronte a sé, i piedi nudi sul ciottolato e gli
occhi lucidi, insolitamente vivi.
“Che vuoi che faccia?” sbottò infine,
stringendo i pugni e puntando lo sguardo altrove, incapace di prolungare
ulteriormente la sofferenza che la visione della sua sagoma gli suscitava.
“Niente. Solo… non volevo vederti andare via
in quello stato, tutto qua.” il cantante si strinse nelle spalle, evitando a
sua volta il contatto visivo con l’ex compagno di band.
Stettero in silenzio per qualche minuto,
finché il bassista non si decise a parlare di nuovo.
“Io… dovrei andare, sì, dovrei proprio
andare”
“Oh, già, va bene.” annuì Layne, per poi continuare “Ah, domani non posso incontrarti
qui…”
“Non ho mai detto di voler venire a farti
visita…”
“Questo è vero, ma l’hai pensato.”
arricciò le labbra quello, mentre il silenzio pervase nuovamente la scena per
qualche istante.
“Beh, allora ciao, ci si vede…” si decise
infine a fargli un cenno veloce con la mano, per poi incamminarsi verso la
propria dimora.
Mike vide i contorni della sua figura
farsi sempre più incerti e, nell’improvviso timore di non doverlo rivedere mai
più, lo richiamò.
“Che c’è?” chiese l’altro fintamente
scocciato, ma il lieve sorriso sulle labbra lo tradì.
“Niente, solo… Lotta, Layne.”
“E tu non seguirmi, Mike.” gli rispose
quello, salutandolo nuovamente e riprendendo il proprio cammino.
Nell’esatto istante in cui Mike Starr si chiuse il cancelletto alle spalle, Layne Staley stava varcando la
porta di casa propria per l’ultima volta.
Niente rimpianti, niente ripensamenti o
smancerie varie…
Solo una torta ancora da tagliare che lo
aspettava sul tavolo, e la consapevolezza che Mike non lo avrebbe seguito.
Sorrise: in un modo o nell’altro, lo aveva riportato a casa.
Note autrice
Il 5 aprile viene
ricordato da moltissime persone come la data del decesso di Kurt Cobain, leggendario
front-man dei Nirvana.
Questa data rappresenta
però anche la fine della vita di un altro fantastico esponente del grunge di
Seattle, ovvero Layne Staley.
Layne Staley era coetaneo di Kurt Cobain: entrambi erano
infatti nati nel 1967, ma il front-man degli Alice In Chains
ha vissuto otto anni in più di quello dei Nirvana, e tuttavia mi chiedo quale
tra i due abbia dovuto subire la fine più triste.
Cobain c’ha lasciato a
soli ventisette anni, con una figlia piccola e la vita incastrata tra le canne
di un fucile; Staley quand’è morto di anni ne aveva
trentacinque, e la sua esistenza l’ha lasciata sul fondo di una siringa.
Entrambi soffrivano di
depressione, questo non è un mistero, ma Layne nel
1996 ha dovuto sopportare la perdita di Demri Lara,
ovvero l’amore della sua vita, e quello fu indubbiamente un grandissimo colpo
per lui e per il suo equilibrio.
Se devo essere sincera,
tra Nirvana e Alice In Chains io preferisco la
seconda band: adoro le loro sonorità, il modo in cui le voci di Jerry e Layne riuscivano a fondersi perfettamente, i testi che a
volte sembrano essere usciti direttamente da Les Fleurs du Mal di
Baudelaire… ciononostante riconosco l’influenza che la band di Cobain, Novoselic e Grohl ha avuto su di
me: se non fosse stato per loro non mi sarei affatto addentrata nella
meravigliosa giungla più comunemente denominata “grunge”, e di questo devo
essere loro riconoscente a vita.
Anyway! Passo al mio consueto papirone di spiegazioni,
utile per cercare di comprendere ogni minima sfumatura di questo scritto.
La storia si svolge il 4
aprile 2002, e ha come protagonisti il già citato Layne
Staley e Mike Starr, l’ex
bassista degli Alice In Chains.
Nel 2009 Starr partecipò al reality Celebrity Rehab with Dr. Drew, in cui rivelò di
aver fatto visita a Staley proprio il giorno prima
della sua morte, in occasione del proprio compleanno (Mike nacque infatti il 4
aprile 1966).
Il bassista dichiarò di
aver passato il pomeriggio sul divano, sotto l’effetto di alcune pills (che non sapevo se tradurre come
“pillole” o “pasticche”, unf) e di aver
improvvisamente notato che Layne fosse più malconcio
del solito (solitamente “Staley's physical appearance had become even worse
than before: he had lost several
teeth, his skin was sickly
pale, and he was severely emaciated.”), per poi suggerirgli di chiamare il 911,
ma questi lo minacciò di troncare immediatamente la loro amicizia se Starr si fosse azzardato a fare una cosa del genere.
In seguito i due litigarono e Mike uscì di casa come una furia, ma “Staley
called after him as he left: "Not like this, don't leave like this".”
Al reality partecipò
anche la madre di Staley, che rassicurò Starr di non essere il responsabile della moglie del
figlio; ciononostante, finché visse (Starr è infatti
morto nel 2011), Mike portò sempre con sé l’enorme senso di colpa per non aver
chiamato il 911 quel giorno.
“Additionally,
during this interview Mike claimed that Layne saved his life when Alice in
Chains was on tour in 1992, after he overdosed.” e questo
è l’episodio che ho raccontato in breve nel mio scritto.
Mike McCready
è invece il chitarrista dei Pearl Jam, amico di Layne
con cui Staley nel 1995 fondò il supergruppo
Mad Season, che compie gli anni il 5 aprile.
“From 1999 to
2002, Staley became more reclusive, rarely leaving his Seattle condo; little is
known about the details of his life during this period. It was rumored that
Staley would spend most of his days creating art, playing video games, or
nodding off on drugs. […] In his last interview, Staley stated, "Don't try
to contact any Alice in Chains members. They are not my friends."”
“Sean Kinney,
former Alice In Chains' drummer, has commented on Staley's final years and
isolation period: "I kept trying to make contact… Three times a week, like
clockwork, I'd call him, but he'd never answer. Every time I was in the area, I
was up in front of his place yelling for him... Even if you could get in his
building, he wasn't going to open the door. You'd phone and he wouldn't answer.
You couldn't just kick the door in and grab him, though there were so many
times I thought about doing that.
But if someone
won't help themselves, what, really, can anyone else do?"”
Da queste due citazioni
emerge chiaramente la solitudine in cui Staley viveva,
solitudine che ha cercato e difeso ostinatamente fino all’ultimo.
In his last
interview, given on December 20, 2001 roughly four months before his death,
Staley admitted, "I know I'm near death, I did crack and heroin for years.
I never wanted to end my life this way."”
Credo che questa
dichiarazione di Staley sia parecchio agghiacciante:
alla fin fine parliamo di un uomo che sa benissimo cosa stia passando, e si
rassegna totalmente al proprio destino… è angosciante rendersi conto di come si
sia lasciato andare.
"My father
started using drugs again. We did drugs together and I found myself in a
miserable situation. He started visiting me all day to get high and do drugs
with me. He came up to me just to get some shit, and that's all. I was trying
to kick this habit out of my life and here comes this man asking for money to
buy some smack."
Questa è una frase
tratta da un’intervista di Staley contenuta nel libro Layne Staley: Angry Chair — A Look Inside the Heart
and Soul of an Incredible Musician:
nella storia ho voluto accennare anche al padre di Layne,
anch’egli vittima di una seria dipendenza.
Ecco, queste citazioni
di Wikipedia credo chiariscano un po’ le condizioni generali di Layne, che ho cercato di far trapelare attraverso questa fanfiction.
Altri riferimenti che ho
inserito sono quelli ad alcuni brani degli Alice In Chains,
e più precisamente:
-
“Poteva benissimo stare in una scatola”: Man in the Box, Facelift, 1990.
-
“Sapeva di essere sul ciglio di un burrone, di un buco in cui avrebbe strisciato per l’eternità”: Down in a Hole, Dirt, 1992.
-
“Un guscio vuoto come me”: Nutshell, Jar Of Flies, 1994.
-
“Puoi iniziare già adesso a cucirti le palpebre”: Man in the Box, Facelift, 1990.
-
“E tu non seguirmi, Mike.”: Don’t Follow, Jar Of Flies, 1994.
-
“Lo aveva riportato a casa.”: Don’t Follow, Jar Of Flies, 1994.
Concludo questa Divina
Commedia di note con i brani che mi hanno accompagnata durante la scrittura
frenetica.
-
Sicuramente il primo da citare è Don’t Follow, perché uno dei suoi versi ha fatto da titolo a
questa fanfiction, e perché credo che un po’ tutto il
testo faccia perfettamente da cornice ai fatti raccontati, a come me li sono
immaginati io.
-
Il secondo è la versione unplugged di Down
In A Hole, che è meravigliosa e straziante.
-
L’ultimo brano invece è dei Pearl Jam: s’intitola 4/20/02 ed è un brano che Vedder ha
scritto nel giorno in cui ha appreso la notizia della morte di Layne. È molto bello, vi consiglio vivamente l’ascolto :3
Ecco, con questo ho
concluso tutti i miei scleri: mi sento un po’ intimorita perché è la prima
volta che scrivo sugli Alice In Chains, però non mi
andava di passare quest’anniversario con le mani in mano… volevo dedicare
qualcosa a Layne, e così ho fatto.
Spero che non sia
totalmente oltraggioso, e ringrazio anticipatamente chi si prenderà la briga di
leggere e, perché no?, magari di lasciare un commento :’)
Ah, dimenticavo! Dedico
questa storia ad Alessia, che so essere una loro grandissima fan e che spero
possa apprezzare questa fanfiction :3 Questa storia
è, inconsapevolmente, un po’ anche tua.
Bacioni,
Dazed;