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Autore: Lantheros    06/04/2013    1 recensioni
Cosa succede quando le convinzioni e le cose che si danno per scontate crollano improvvisamente?
Che accade quando un singolo incontro, bellissimo e spiacevole al tempo stesso, permetterà ad un pegaso di mettere in dubbio tutto ciò che è sempre stato?
Due entità apparentemente opposte si avvicineranno e condivideranno tutto ciò che sono, creando un legame che durerà senza limiti di tempo.
Questa è la storia di due pegasi che impararono che si può volare anche senz'ali.
Il racconto vede come protagonisti Rainbow Dash e un personaggio inventato: Icarus.
Il tema portante è "conoscere se stessi oltre le prime impressioni".
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Rainbow Dash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Era l’ultimo giro della Gara nei Cieli e i pegasi avrebbero nuovamente affrontato la “curva dell’assonnato”, dopo il lungo rettilineo. Molti partecipanti inesperti perdevano il sostegno delle ali, cercando di chiudere quel tratto di percorso, dopo aver acquisito velocità incredibili nel rettilineo: quando succedeva, franavano contro i nembostrati di protezione con una forza tale da cadere nel mondo dei sogni per svariate ore. Da lì il nome. Ma questo non sarebbe stato un problema per Rainbow Dash.

Di fronte a lei, Thunderlane batteva freneticamente le ali, spiegandole ritmicamente ad ogni virata, per sfruttare al massimo l’attrito dell’aria.

I due, sostanzialmente i favoriti della gara, volavano a pochi metri di distanza tra loro e, ogni tanto, parevano quasi sfiorarsi. Il resto dei concorrenti era stato distaccato già da alcuni giri e l’intera attenzione degli spettatori di Cloudsdale era incentrata, col fiato sospeso, sui pegasi in dirittura d’arrivo.

Rainbow scorgeva a fatica il rivale di fronte a sè: la velocità era tale che gli occhiali di protezione le erano volati via nel terz’ultimo giro ed ora il vento le sferzava gli occhi quasi come fosse rovente.

Allungò le zampe anteriori e cercò di accelerare il ritmo: sentì i muscoli delle ali dolerle terribilmente, donandole un’espressione sofferente sul volto. Thunderlane gettò uno sguardo alle sue spalle, la inquadrò brevemente e sorrise compiaciuto: “E’ fatta”, pensò.

La velocità aumentava vertiginosamente, a mano a mano che la curva dell’assonnato si faceva più vicina. Rainbow dovette chiudere gli occhi, ormai lacrimanti, non potendo sopportare oltre le continue sferzate d’aria sul viso.

In quell’istante percepì una sensazione nel petto, un “fuoco” che risalì fino alla sua mente: “Non mollare”, disse a se stessa. Riaprì gli occhi e li strizzò per mantenere un qualche tipo di visuale sul percorso, cercando di spingere il proprio corpo oltre i limiti. L’aria si fece sempre più tagliente, provocando un frastuono assordante nelle sue orecchie, mentre le nuvole che delimitavano il tracciato presero a scorrerle attorno rapide come saette. Ogni cosa si fece più confusa. In mezzo al caos, si focalizzò su una chiazza scura che oscillava freneticamente di fronte a lei: Thunderlane era sempre più vicino. Non riusciva a distinguerlo chiaramente ma le parve in crescente agitazione: forse sentiva il fiato sul collo ed era quello che Rainbow voleva. Ancora poche decine di metri e avrebbero imboccato la famigerata curva finale. Entrambi sfrecciavano a velocità folli ed il pubblico li osservava completamente assorto, temendo che si sarebbero buttati fuori a vicenda nel tentativo di prevalere l’uno sull’altra.

Il pony dalla chioma arcobaleno era completamente pervaso dall’adrenalina. Rainbow viveva per momenti come questi: il rischio, la velocità, la sensazione di abbattere i limiti imposti dalla paura e, non per ultimi, la vittoria e l’attenzione dei presenti su di sè. In preda a quella fenomenale frenesia, si avvicinò sempre di più al concorrente in testa, fino a sfruttarne la scia: di colpo percepì la resistenza dell’aria scemare, cui seguì una spinta, come se una cannonata l’avesse investita improvvisamente da dietro. Rainbow si proiettò letteralmente sopra a Thunderlane che, sbigottito, la osservò dal basso, non riuscendo a distinguerla dall’azzurro del cielo se non per la coda arcobaleno. In quell’istante, Dash spalancò le ali, che si gonfiarono immediatamente, provocandole una fitta di dolore a tutto il corpo. L’avversario, ancor più spiazzato, vide la rivale retrocedere di colpo, senza accorgersi che il rettilineo era ormai terminato. Quando riportò l’attenzione sul tracciato era ormai troppo tardi: cercò di rallentare e recuperare una traiettoria curvilinea ma le ali non ressero e il pegaso nero zigzagò rovinosamente fino a schiantarsi sonoramente contro un vaporoso muro di nembostrato. Le nuvole, seppur morbide, sanno essere sorprendentemente dolorose a certe velocità.

“Ah!”, esclamò Rainbow Dash, ormai con la strada sgombra per il traguardo: riaprì le ali e si inclinò di lato per sostenere la strettissima curva dell’assonnato. Durante l’evoluzione, sentì il peso della forza centrifuga crescere sempre di più e le ali, ormai allo stremo, iniziarono a tremare sotto il peso della poderosa legge fisica.

“Non cedete ora”, ringhiò il pegaso a denti stretti.

Con un ultimo sforzo completò il tratto del tracciato e planò rapidamente verso il traguardo sottostante. Superata la linea d’arrivo, il pubblico esplose in un boato assordante.


L’attenzione era ancora completamente su di lei quando arrivarono, uno dopo l’altro, gli altri concorrenti.

Rainbow era ferma, ansimante e con le ali a terra; il volto sicuramente provato dallo sforzo fisico ma altresì  incorniciato da un sorriso di vittoria impagabile.

Quando l’ultimo partecipante passò il traguardo, l’annunciatore dell’evento decretò il termine della gara e passò ad elencare i primi tre vincitori. Non si trattava di un’occasione particolarmente importante ma, per Rainbow, rappresentava comunque una meritata vittoria a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo.

Ci fu una rapida premiazione, dopo la quale alcuni pegasi tra gli spettatori presero ad avvicinarsi alla prima della classifica, facendo cerchio intorno a lei.

Dash assunse un atteggiamento di sufficienza, forse come farebbero un po’ tutti se venissero investiti da una marea di complimenti e congratulazioni. “Rischio, velocità, abbattere i limiti, certo… ma, ci sono anche la vittoria e l’attenzione su di sè”, continuava a ripetersi nella mente la vincitrice, mentre sorrideva ai fan con scarsa modestia.

“Ehy, cosa fai la’ dietro?”, urlò Rainbow rivolgendosi all’ultima fila dei suoi ammiratori, dopo aver scorto un ciuffo rosa, “Vieni qui, non fare sempre la solita!”.

I pegasi si scostarono, rivelando la timida figura di Fluttershy, parzialmente nascosta da un batuffolo nuvoloso.

“Oh… sì, ecco… io…”, biascicò sottovoce.

“Non ti sentooo!”, canzonò il pegaso blu, con uno zoccolo sopra all’orecchio.

Fluttershy sorrise e poi aggiunse timidamente: “…complimenti Rainbow Dash!”.

L’amica ricambiò il sorriso e si rituffò tra gli elogi.

Dopo alcuni minuti passati a festeggiare, la stanchezza si abbatté sulla vincitrice come un’incudine e così Dash decise di allontanarsi (senza ovviamente rinunciare alle ultime esternazioni di compiacimento) per concedersi una meritata pennichella ai raggi del tramonto.

“Mi raccomando”, aggiunse, prima di congedarsi definitivamente, “voglio solo le foto migliori sui quotidiani di domani!”.


*** ***** ***


    L’orizzonte di Equestria era pervaso dal rossore del sole, intento a lasciar posto alla notte. Poche nubi si stagliavano sopra il cielo e, su una di queste, Rainbow si godeva un meritato riposo. Coricata di schiena, zampe dietro alla testa e rivolta direttamente al tramonto, sentiva su di sé il calore degli ultimi raggi della sera. Tutt’intorno c’era calma assoluta ma le orecchie le fischiavano e la sua mente era ancora ferma ai festeggiamenti del pubblico. Per qualche istante si crogiolò nelle emozioni che rinsavivano mentre riportava in memoria ogni attimo della gara, del vento, delle nubi che sfrecciavano intorno a lei, del duello con Thunderlane per gli ultimi metri, fino al traguardo… e poi la folla, i complimenti e quella incredibile sensazione di importanza che aveva provato in mezzo ai fan.

“Non c’è dubbio”, pensò con gratificazione, “oggi ho letteralmente volato come la migliore tra i migliori”.


Un flebile rumore alle sue spalle la portò a girarsi di scatto, un rumore percepibile solo in mezzo al più totale silenzio. A pochi metri da lei si trovava un pegaso che non aveva mai visto a Cloudsdale: forse poco più che adolescente, grigio pallido e con una folta capigliatura violacea, decisamente troppo lunga e a tratti disordinata. In bocca teneva un foglio ed una matita. C’era qualcosa di strano in quel pony ma, sulle prime, non riuscì a comprendere esattamente di cosa si trattasse.

Poco più in là, un pegaso, più o meno di mezza età, lo stava osservando con aria vagamente melanconica. “Sarà la madre”, pensò Rainbow Dash, che in quell’istante avrebbe voluto tutto tranne che un fan isolato con la richiesta dell’ennesimo autografo. Ma, si sa: “Chi bello vuole apparire, un po’ deve soffrire”, sospirò, ruotando gli occhi al cielo.

Si girò verso il pegaso e, con rinnovato entusiasmo, urlò: “Allora, chi abbiamo qui??”.

Il giovane mise foglio e matita in una borsa che teneva al lato della groppa e, con tono pacato e sguardo neutrale, disse: “E’ un piacere conoscerti, Rainbow Dash”.

“Lo so, lo so… me lo dicono in molti”, ribatté l’altra con fare superiore.

“So che ti alleni duramente ed oggi hai dimostrato che è possibile realizzare grandi cose, con il giusto impegno”.

“Oh, eri alla gara? Scusa se non mi ricordo… è che in mezzo al pubblico c’erano così tanti pegasi che forse non ti ho visto”, disse Rainbow, nascondendo un lieve imbarazzo.

“Non ero alla gara”.

“Ah… no?”.

“No”, continuò il pegaso, “ti ho osservata da lassù” e alzò lentamente lo sguardo verso un lontano cumulo di nubi isolate. “E’ la che vivo e da là ti osservo durante gli allenamenti e mentre gareggi”.

Rainbow si sentì un po’ spiazzata.  

“Aspetta, non pensare subito male”, riprese con un accenno di sorriso, “non sono uno spione, è che per me è molto difficile riuscire a spostarmi e le folle sono pericolose per il mio fisico”.

Solo in quel momento Dash realizzò cosa fosse quella strana sensazione che aveva percepito all’inizio. Squadrò il pony con maggior attenzione e si accorse che il suo interlocutore era decisamente esile e presentava una postura singolare: era abbastanza slanciato ma i suoi arti non erano perfettamente allineati e quella che sembrava una semplice cintura per la borsa fungeva in realtà anche da cinghia per bloccargli saldamente le ali al resto del busto. Di fronte a quel fisico, la folta chioma viola lo faceva apparire ancora più gracile.

“Io sono un pegaso unico, sai?”, continuò con tono sicuro, quasi orgoglioso, “solo l’unico pegaso alato in tutta Cloudsdale che non può volare”.

Rainbow sgranò gli occhi e lo fissò intensamente. Non sapeva cosa dire e, con volto basito, proruppe in un istintivo “Ah… ecco…”.

Il pony dalla folta chioma cambiò radicalmente tono di voce, come se volesse riportare l’attenzione sul suo discorso iniziale, e biascicò velocemente: “Sì, ok, è una strana malattia ma adesso non è questo il punto”. Lentamente, molto lentamente, mosse il capo verso la borsa ed estrasse il foglio e la matita di prima. Li strinse saldamente tra i denti e parlò come se stesse masticando un boccone: “Non voglio un tuo autografo per appenderlo come un trofeo in camera mia, come fanno tutti quegli stupidi fan che ti girano intorno di solito”. Rainbow prese con titubanza gli oggetti che il pegaso gli porse e poi lo ascoltò con attenzione. “Voglio una dedica per ricordarmi che i campioni di Equestria sono coloro che lottano per raggiungere il traguardo”, continuò con tono deciso, “e tu, Rainbow Dash, sei uno di questi campioni”.

Il pony arcobaleno abbassò lo sguardo sul foglio, su cui era incisa la sua immagine scattata in dirittura d’arrivo, alla gara di quel pomeriggio.

“Icarus”, disse infine il gracile pegaso.

“Come?”.

“Mi chiamo Icarus!”, ripeté, con una certa impazienza.

“Ah! Sì!”, rispose frettolosamente l’altra e, con la matita tra i denti, prese a scrivere la dedica sulla foto. Era così stranamente agitata che riportò la prima cosa che le venne in mente.

“Fa ridere, non è vero?”, riprese Icarus, mentre Rainbow completava la scritta, “Icarus: come il pony del racconto che perse le ali volando troppo vicino al sole. Io, a differenza del personaggio mitologico, non correrò mai il rischio di precipitare durante un volo, semplicemente perché non posso volare”, concluse con un mezzo sorriso.

Rainbow rimase in silenzio, finì la dedica e gliela consegnò.

Icarus la lesse scrupolosamente e, alla fine, con aria un po’ delusa e una vena d’arroganza, aggiunse: “Sì… ok, mi aspettavo qualcosa di più originale ma desumo che tu sia stanca dopo la gara di oggi, quindi per questa volta lo accetterò comunque”.

La sorpresa iniziale di Dash venne parzialmente sostituita da una piccola dose di irritazione e i due rimasero silenti per qualche istante.

“Icarus, ora dobbiamo andare”, disse la madre lontana.

“Arrivo”, rispose il figlio, “Ora devo andare, grazie, Rainbow”, concluse, rimettendo tutto nello zaino. Si girò e, con passo particolarmente incerto e zoppicante, si allontanò da lei.

Dash, d’impulso, stette per chiedergli come fosse riuscito a raggiungerla su quella nuvola e come avrebbe fatto per andarsene. Lo vide poi salire, con molta cautela, su un cirro vicino alla madre: si trattava del tipo di nuvola più soffice e delicata che si potesse trovare nei cieli, più o meno dove l’ossigeno quasi viene a mancare. Soltanto circostanze estremamente particolari, come la magia, erano in grado di preservarne la consistenza a quote più basse.

“Grazie, Rainbow Dash”, disse la madre ad alta voce, prima di spiccare il volo e spingere dolcemente la nuvola su cui era adagiato Icarus.

“Non c’è di che”, rispose frettolosamente l’altra, riprendendosi per un istante dallo sbigottimento che l’aveva pervasa per l’intero incontro.

   

Stette ad osservarli a lungo e in silenzio, mentre si allontanavo lentamente verso le nubi che le aveva indicato Icarus. Quell’incontro l’aveva spiazzata e, nel profondo, percepì una strana sensazione di disagio.

“Eccoti qui, Rainbow Dash”, disse Fluttershy, volando alla sue spalle.

“Uh… cosa?”.

“Ti stiamo aspettando tutti da Pinkie Pie per festeggiare la tua vittoria, manchi solo tu!”.

“Ah… ah, sì la festa, certo!”, riprese Rainbow, mascherandosi dietro ad una falsa spavalderia: “Andiamo!”, concluse infine, tuffandosi dalla nube in direzione di Ponyville.

Mentre scendeva in picchiata, di nuovo con il vento tra la chioma, si girò un ultimo istante verso Icarus. Non lo vedeva più: per lei era troppo lontano e troppo buio per scorgere qualcuno nell’ormai stellato cielo di Equestria.




*** ***** ***


Non ci volle molto affinché la festa si animasse. In primis: era una festa organizzata da Pinkie Pie, quindi pressoché inarrestabile. Secondo: tutte le amiche di Rainbow Dash si erano ritrovate per festeggiare la vittoria del pegaso blu, senza lesinare sui complimenti, la musica ed i boccali di sidro.

“Credimi, Rainbow”, disse Rarity gesticolando con uno zoccolo a mezz’aria, “persino da terra la tua performance è stata assssolutamente mozzafiato, incredibile, fantastica!”.

“Grazie…”, rispose Dash con un sorriso un po’ forzato.

“Veramente, ragazza mia”, continuò Applejack, “se dipendesse da me ti farei trainare personalmente il mio aratro! Potresti sistemarmi tutti gli ettari nel giro di mezza giornata!”.

“Grazie, grazie, troppo gentili”.

Twilight era seduta ad un tavolo lì vicino, con tre boccali di sidro completamente vuoti di fronte al muso. Un’espressione di apparente pace interiore era scolpita sul suo volto.

“Davvero”, esclamò l’unicorno con aria un po’ assente, “il modo con cui hai sbattuto fuori quel pegaso… quel, come si chiama? Tandem… Tarlendeim… insomma è stato fantastico!”.

Spike strattonò la coda di Twilight per richiamarne l’attenzione: “Uh… Twilight, li hai mica svuotati tutti da sola quei boccali, vero?”.

Applejack lanciò un sorriso imbarazzato ed aggiunse: “Ehm, sì in effetti avevo qualche barile di una riserva particolare da far fuori. Può darsi che siano un po’ più… forti del solito”. Twilight ricambiò il sorriso, si allontanò dal tavolo con passo un po’ traballante, aprì magicamente una pergamena e mise una spunta di fianco alla scritta “Sperimentare gli effetti del sidro ad una festa tra amici”.

    Nonostante stesse apprezzando la situazione, Rainbow non riusciva ad ignorare la sensazione che si trascinava dall’incontro con Icarus. Ad un certo punto prese ad osservare il cielo stellato attraverso la finestra del caseggiato, con uno strano peso nel petto.

“Qualcosa non va?”, chiese pacatamente Fluttershy.

“Uh, no, no, va tutto bene, è la festa per la mia vittoria, cosa non dovrebbe andar bene?”, domandò voltandosi di scatto, “perché me lo chiedi?”.

L’amica abbassò lo sguardo e poi riprese: “E’ tutta la sera che sembri… assente. Come se avessi qualcosa che ti preoccupa”.

Rainbow cercò di inscenare una faccia da poker: “no, davvero, sono solo… un po’ stanca. La gara mi ha comunque affaticato parecchio”.

“Capisco”, ribattè Fluttershy, dopo una breve pausa e per nulla convinta.

“Davvero, sto bene, sono soltanto stanca”, concluse.

Pinkie Pie saltellò vivacemente verso Rainbow e le allungò un boccale: “Certo che sei stanca! Hai volato come un fulmine! Come… come un superfulmine! Anzi no, no, ha volato come mille fulmini che fanno a gara per vedere qual è il fulmine più fulmineo!”.

Il pegaso sorrise e mandò giù un sorso di sidro: “Uhm, a me non sembra poi così forte, Applejack…”, disse infine con aria di sufficienza.


*** ***** ***



    Era ormai notte fonda quando Dash tornò nella sua abitazione sulle nuvole, schiantandosi con il sedere per aria, dopo almeno una dozzina di virate casuali in fase di atterraggio.

“La mia testa...”, borbottò toccandosi le tempie con uno zoccolo, “Maledetto sidro…”.

Barcollò per alcuni metri tra i bui corridoi nuvolosi della casa, prima di accasciarsi, sfinita, sul proprio giaciglio. Chiuse gli occhi ed emise un lungo sospiro.


Dopo alcuni minuti riportò i suoi pensieri ad Icarus e si chiese come mai si sentisse così a disagio dopo l’incontro con lui. Si girò pancia all’aria e fissò il soffitto con palpebre cadenti.

Passarono lunghi istanti, in cui il pegaso blu venne assalito da mille pensieri.

Alla fine, si coprì mollemente il viso con una zampa e pensò: “Certo che… non so quale malattia abbia esattamente quel pegaso, però… chissà come deve sentirsi… essere un pegaso alato e non poter volare”.

Prese a rigirarsi nervosamente nel letto di nuvole: “Il volo è la mia vita… ogni pegaso adora volare. Come ci si può sentire nel passare l’intera esistenza tra le nuvole, in mezzo ai tuoi simili che possono spostarsi liberamente, mentre tu sei costretto a viaggiare con una cinghia intorno alle ali? Ad osservare le gare di volo a centinaia di metri di distanza?”.

Si immobilizzò per un istante e percepì di nuovo quella forte sensazione di disagio: “E’ possibile che io… che io mi senta in colpa per Icarus? Ho sempre fatto del volo e della prestanza fisica il mio punto forte… ho sempre desiderato essere la prima fra tutti. Quel pegaso, invece, non può far altro che osservare gli altri volare. I miei problemi, le gare, quella volta che mi sono storta un’ala, quando mi sono arrabbiata per non essere giunta sul podio… quanto ridicolo mi sembra ora tutto questo di fronte a ciò che deve invece affrontare Icarus. Come quando mi sono impuntata contro Mare Do Well… eppure una dovrebbe imparare, no?”.

Ci fu una lunga pausa che la portò, infine, a concludere il proprio pensiero: “Mi sento così… stupida. Non capisco. E’ come se tutto ciò di importante su cui ho basato la mia vita fosse crollato dopo aver conosciuto la realtà di Icarus… se, per esempio, io dovessi perdere la capacità di volare…”, e si fermò, incapace per timore di terminare la frase.

    L’attenzione su Icarus continuò ancora per poco: la stanchezza ebbe presto il sopravvento, gettando Rainbow  in uno strano sonno, farcito di mille immagini ed emozioni. Non si sarebbe ricordata nulla di quei sogni ma passò sicuramente una notte particolarmente agitata.



*** ***** ***


    Il pegaso si risvegliò a mattina inoltrata, accecata da un raggio di sole particolarmente fastidioso. Sentiva le testa un po’ pesante e, dopo essersi controllata rapidamente in uno specchio di pioggia, notò un paio di borse sotto gli occhi.

“Riserva particolare, eh?”, bofonchiò con sarcasmo.

Uscì di casa e stirò i muscoli. Si sollevò una lieve brezza, che riuscì a rinsavirla leggermente.

Squadrò l’orizzonte, terso e splendido come sempre. Inconsciamente, posò lo sguardo su una macchiolina bianca nel cielo: la lontana abitazione di Icarus.

“E’ davvero isolato dal mondo”, pensò.

Si sedette e cercò di mettere ordine tra le sue emozioni, con scarsi risultati.

“Perché continuo a pensare ad Icarus? Voleva solo una dedica, punto e basta. E poi, se non può volare, io cosa posso farci?”, si chiese, più confusa di prima.

“Certo che… devo essere sembrata un’insensibile. Ma non sapevo cosa dire… non mi era mai capitata una situazione simile. Forse dovrei rivederlo almeno una volta… parlargli… non saprei”.

Passò parecchi minuti ad arrovellarsi il cervello, senza tuttavia giungere ad una conclusione.

“Oh, al diavolo”, sbottò di colpo, “non sono brava in questo genere di cose ma non mi costa nulla fargli una visita! Non potrà che fargli piacere”, concluse e, dopo una breve rincorsa, spiccò il volo verso la sua residenza.


    Il tragitto fu piuttosto faticoso. Normalmente, Rainbow non avrebbe certo avuto difficoltà nel giungere a destinazione ma la casa del pegaso era posta parecchie centinaia di metri più in alto rispetto alla maggior parte delle abitazioni nel cielo, senza contare che ancora risentiva degli acciacchi del giorno prima.

Dopo parecchi minuti arrivò finalmente su una piccola distesa nuvolosa, su cui era stata edificata l’abitazione di Icarus: era un edificio di nuvole molto vaporose rispetto agli standard, in grado di mantenersi in quello stato probabilmente grazie all’altitudine maggiore. Tutt’intorno fluttuava una serie di piccoli cirri, simili a ovali di fumo biancastro, più o meno come quello su cui era salito il pegaso nel giorno del loro incontro.

La casa era dotata di parecchie balconate, da cui sbucavano oggetti curiosi: tavole da pittura, ripiani colmi di libri, strane piante dai riflessi argentati e, non per ultimo, un grosso telescopio scintillante montato su treppiedi.

“Solo degli oggetti incantati potrebbero rimanere sulle nuvole senza precipitare al suolo”, pensò Rainbow.

Si avvicinò con circospezione all’ingresso: un grosso portone intarsiato e adornato di rampicanti metallici  occupava buona parte della facciata principale. Intorno vi era la calma più assoluta, fatta eccezione per qualche sporadico sibilare provocato dal vento d’alta quota.

Dash provò una certa soggezione di quell’atmosfera apparentemente inviolabile. Si fece coraggio e, superata una prima riluttanza, batté alcune volte lo zoccolo sul portone.

Passarono alcuni minuti e il pegaso bussò nuovamente, pensando che non ci fosse nessuno.

Stette quasi per andarsene quando l’uscio si spalancò lentamente, rilevando l’immagine della madre di Icarus.

“Rainbow Dash?”, chiese con stupore.

“Uh… sì, sono io”, biascicò l’altra.

La madre parve leggermente turbata dalla presenza del pegaso e, dopo una breve pausa, aggiunse: “Cosa… cosa ti porta qui?”.

Dash cercò di mettere insieme una frase a senso compiuto ma non sapeva nemmeno perché fosse giunta fin lì. Poi, in una sorta di confessione liberatoria, esclamò: “Ecco… io non è che sia qui per un motivo particolare. Semplicemente… è da quando ho incontrato Icarus che provo una strana sensazione. E, sinceramente, non so nemmeno io il perché...”.

La madre la ascoltò attentamente e poi abbassò lo sguardo in silenzio.

Rainbow riprese il discorso: “Probabilmente è una cosa stupida ma… quando ho incontrato Icarus… è come se una parte di me sia stata… messa in dubbio. Fino ad allora non mi ero mai posta il problema… insomma, che ci potesse essere un pegaso nelle sue condizioni. Mi ha colto impreparata e credo di non essere stata particolarmente comprensiva con lui”.

“Oh no”, la interruppe la madre, “Icarus ti ammira tantissimo, davvero”.

“Sì, capisco… però, quando ci siamo incontrati, non ho fatto altro che farfugliare parole senza senso. Non credo di aver dato poi una bella impressione”.

“Non ti preoccupare, Icarus è abituato alle reazioni di sorpresa nei suoi confronti. Ormai non ci fa più caso, anzi dice che lo fanno sentire… unico nel suo genere”, concluse la madre con una vena di melanconia nel volto.

Dash sospirò pesantemente: “Tra l’altro… quella malattia di cui parlava?”, bisbigliò con tono interrogativo.

“E’ una cosa molto… strana”, disse la madre, “qualcosa che comparve circa al secondo anno di età… sennò non lo avremmo di certo chiamato in quel modo: Icarus. A sentirlo sembra quasi una cattiveria nei suoi confronti”, sospirò con amarezza.

“Comunque mi chiamo Sunshine”, aggiunse dopo una breve pausa.

“Scusa. Vedi? Non ho nemmeno chiesto il tuo nome, ti lascio immaginare quanto sia ferrata nel dialogo”, esclamò Rainbow con un po’ di vergogna.

“Tranquilla”, ribatté con un sorriso, “Tornando ad Icarus… non voglio entrare troppo nei dettagli: ti basti sapere che la sua malattia ha colto di sorpresa tutti i medici di Equestria a cui ci siamo rivolti”.

“Gli impedisce di volare?”.

“E’ una conseguenza”, continuò Sunshine, “In verità la malattia di Icarus è molto più complicata. In sostanza le sue ossa sono estremamente fragili. Per questo vive a simili altitudini: solamente qui possiamo sfruttare le nubi più soffici ed è l’unico modo per essere sicuri che non si faccia del male”.

“E’ davvero così grave?”, chiese l’altra, visibilmente a disagio.

“Mentirei se dicessi il contrario… per via della malattia il suo fisico non si è sviluppato correttamente, come si può ben vedere. Se mai dovesse spiegare le ali nel vuoto… queste si spezzerebbero come ramoscelli sotto uno zoccolo. Anche solo camminare sulla terra ferma, e non sulle nuvole, potrebbe causargli problemi”.

Dash, a quelle parole, sentì una stretta al petto.

Sunshine sorrise e riprese il discorso: “In questa casa cerchiamo di non fargli mancare nulla. Il padre lavora lontano da Ponyville, per racimolare tutto il denaro necessario a farlo vivere nel migliore dei modi”.

La madre sollevò lo sguardo verso le balconate della casa: “L’intera abitazione è incantata: l’operato di decine di unicorni esperti nell’arte della manipolazione materiale. Anche i cirri che vedi qui intorno sono incantati, come quasi tutto, del resto. Queste piante argentate servono a… catalizzare la magia, o almeno così mi hanno detto gli unicorni: non sono molto ferrata in queste cose”.

“Siamo in due”, esclamò l’altra, con una debole risata.

“Non sta male qui: può osservare tutto il mondo che lo circonda grazie a quel potente telescopio. Legge molto e si sta dedicando alla pittura. Certo”, aggiunse con tristezza, “non si può dire che svolga la stessa vita degli altri pegasi…”.

“Ora è in casa?”, domandò Rainbow.

Sunshine abbassò lo sguardo, si avvicinò a Dash e chiuse delicatamente il portone dietro di se.

“Sì, è in casa”, rispose sottovoce, “però vorrei dirti una cosa, Rainbow Dash: Icarus è un pegaso… molto particolare. Non mi riferisco solo alla sua situazione fisica: da quando era piccolo ha sempre dovuto vivere lontano dai suoi simili. Le poche volte che ha avuto dei contatti con loro, lo hanno ferito e, da quando la malattia è peggiorata, non ha avuto altra scelta se non rinchiudersi quassù tra le nuvole”.

“Capisco… però...”.

“Fammi finire”, la interruppe Sunshine, “quello che cerco di dirti è che Icarus, mio figlio, potrebbe non piacerti affatto. Sì è dovuto adattare ad una vita isolata, ad una costante sofferenza fisica e senza che nessuno sia ancora riuscito a dargli una vena di speranza. Lui ragiona secondo i suoi canoni, attraverso un mondo che nessun pony in Equestria credo capirebbe mai. Non possiede le convenzioni sociali che utilizziamo solitamente noi due”.

“In poche parole mi stai dicendo che tuo figlio è antipatico?”, chiese Dash un po’ confusa.

“Ti sto dicendo che, normalmente, siamo abituati a ritenere amici coloro che ci piacciono e che ci fanno star bene. Se pensi che l’amicizia possa andare oltre questi aspetti… allora Icarus ti saprà mettere a dura prova”, concluse la madre con tono lapidario.

Sulle prime, Rainbow pensò che Sunshine stesse esagerando ma, quando vide il suo sguardo, capì che era spaventosamente seria.

“Preferisci che non incontri tuo figlio?”, chiese con riluttanza.

“Sono combattuta”, rispose con un certo disagio, “gli incontri con Icarus raramente si concludono positivamente. Ieri voleva solo un autografo. Oggi si tratterebbe di una cosa… diversa”.

Ci fu una lunga pausa di riflessione, in cui Sunshine parve assalita da emozioni contrastanti.

“D’accordo, Rainbow”, dichiarò alla fine, “se vuoi parlare con Icarus, fai pure”.

Dash sorrise: “Sì, insomma voglio solo scambiare due parole con lui, niente di più… sinceramente non so nemmeno io cosa gli dirò. E’ come se sentissi il bisogno di parlargli e basta”.

“Mi fa piacere. Entra pure, lo troverai nelle stanze ai piani superiori, ma ricorda quello che ti ho detto”, disse invitandola all’interno, “Icarus non ha nulla a che vedere con i pony con cui sei abituata a relazionarti”.

“Lo terrò a mente”, concluse Rainbow, esternando una certa sicurezza, e valicò l’ingresso.

   

L’interno si presentò non molto diverso dalle tipiche abitazioni di Cloudsdale: solamente le pareti, per via del tipo di nuvole più soffici, si presentarono meno delineate e meno luminose del solito. Di fronte a se, Dash vide una scala che portava ai piani superiori. La salì lentamente, guardandosi intorno con curiosità.

Al termine, si ritrovò in un’anticamera con parecchie porte: di queste, soltanto una era chiusa. Gettò uno sguardo nelle varie stanze per vedere se ci fosse qualcuno ma intuì che Icarus si trovasse proprio nell’unica stanza chiusa. Si avvicinò alla porta e fece un lungo respiro.

“Entra pure”, disse Icarus dall’altra parte, anticipandola di qualche istante.

Rainbow aprì delicatamente la porta e si affacciò nella stanza.

“Permesso?”.

Icarus le dava le spalle, seduto ed intento a dipingere su una tela rialzata. Muoveva lentamente un pennello stretto tra i denti, componendo uno scenario apparentemente incomprensibile. La stanza era ricolma di libri e presentava numerose finestre, in modo da consentirgli un’ampia visuale sull’intero paesaggio, a dir poco mozzafiato.

“Mi hai sentito entrare?”, chiese l’ospite.

“C’è sempre un grande silenzio qui”, rispose Icarus, dopo aver posato il pennello, “inoltre avrai notato che, da quassù, posso squadrare quasi il mondo intero. Quindi la tua è una domanda stupida: ti ho visto arrivare e ti ho sentito bussare”, concluse, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.

In quel momento le vennero in mente le parole della madre e cercò di mantenere il cuore sgombro da emozioni malevole.

“Perché sei venuta qui?”.

“Ecco… io… sono solo passata per vedere come stavi”.

“L’ultima metà dei pony giunta a farmi visita era costituita da dottori, l’altra metà da curiosi venuti a sfamare la loro morbosa curiosità per i fenomeni da baraccone. E tu non mi sembri un dottore”.

“Ma no”, rispose Rainbow con un certo dispiacere, “volevo solo… parlarti”.

“Bene”, continuò l’altro impassibile, “di cosa vorresti parlare?”.

“Quando ci siamo incontrati, ieri sera, non mi ero accorta della situazione. Non vorrei esserti sembrata… scortese. Insomma, non mi ero resa conto che… che tu…”.

Icarus chinò il capo e si voltò poco dopo verso Dash, con sguardo severo.

“Dunque le cose stanno così?”, chiese.

“Cosa intendi dire?”.

“Sai, Rainbow, inizialmente pensavo che tu fossi diversa, che tu potessi capire”.

Il pegaso blu corrugò la fronte, non riuscendo a comprendere il messaggio che Icarus le stava lanciando.

“Pensavo anche che fossi un po’ più sveglia”, aggiunse con supponenza, “per cui vedrò di illuminarti: crederai mica che ieri io sia venuto ad elemosinare la tua attenzione? O la tua compassione?”.

“Beh… no, io…”.

“E’ curioso come cambino le cose. Ero solo un fan come tanti, prima che tu ‘comprendessi la mia situazione’, giusto?”.

Rainbow non rispose ed Icarus parve innervosirsi: “Sono stufo della stupidità della gente: ieri mi hai trattato come un normalissimo pegaso mentre oggi vieni qui per parlare con me e vedere come mi sento. Lo avresti mai fatto per un fan qualsiasi? Per un pegaso come tutti gli altri? Per un pegaso in condizioni diverse dalle mie?”.

“Ascolta Icarus, io non sono qui per compatirti,” rispose la puledra con esitazione, “ma… volevo solo farti sapere che, dall’incontro di ieri, provo sensazioni contrastanti. Mi è sembrato… ingiusto aver incentrato tutta la mia vita nella competizione del volo, mentre tu devi vivere in questo modo, ed è una cosa che non avevo mai considerato prima”.

Ci fu un silenzio imbarazzato, che venne spezzato da Rainbow, nel tentativo di riprendere in mano il discorso: “Ho sempre avuto la convinzione di poter dimostrare le mie qualità attraverso il confronto con gli altri, attraverso la vittoria e la competizione. Però, dopo averti conosciuto…”.

A quelle parole, Icarus si voltò di scatto, gettando inavvertitamente a terra il dipinto, e iniziando a respirare più velocemente, visibilmente turbato. Fissò Rainbow con una scintilla di rabbia negli occhi e biascicò: “Sei esattamente come tutti gli altri. All’inizio mi avevi trattato come un tuo pari. Credevo che un pegaso che avesse sacrificato tanto per la propria passione potesse comprendere. Invece, ora vieni qui, come se io fossi una vittima designata della malasorte! Cos’è? Pensi che io mi senta inferiore? Che ti reputi un modello da imitare?”.

Dash, senza rendersene conto, fece un passo indietro.

“Ti ritenevo un campione come me”, incalzò con maggior foga, “perché io, come te, ho dovuto affrontare sfide giorno dopo giorno, per arrivare dove sono ora. Certo, non ho un manipolo di ammiratori a dimostrarlo: l’unica prova è qui davanti a te. Secondo i medici, avrei vissuto al massimo un altro anno e non sarei più stato in grado di camminare dopo pochi mesi, e questo lo avevano detto più di due anni fa. Ho dimostrato che avevano torto”.

“Icarus, io…”.

“Solo per il fatto di esser qui, in vita e sulle mie zampe, sono uno dei più grandi campioni di Equestria!”, urlò, con tutto il fiato presente nel suo fragile torace.

Rainbow rimase impressionata dalla foga del pegaso, inizialmente mitigata da un aspetto così mansueto. Cercò di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma le parole le vennero meno.

Icarus parve calmarsi leggermente: si avvicinò al dipinto e, con una certa fatica, lo riportò nella posizione originale. Poi, dandole le spalle, aggiunse: “Ho passato mesi a cercare un altro campione come me. Non ho trovato pony con le mie caratteristiche ma poi ho visto te: ti ho osservata durante gli allenamenti, durante le sconfitte, quando ti rialzavi costantemente ed ho riconosciuto grandi forza di volontà e spirito combattivo. Ora che ti conosco meglio, però, suppongo di essermi sbagliato”.

Con quelle parole, prese un foglio appoggiato su una mensola lì vicino e glielo gettò ai piedi, con una certa repulsione: era la foto con la dedica.

“ Volevo che questo servisse a ricordarmi che, lottando, ognuno può raggiungere incredibili risultati. Però, per te, io sono un povero pegaso malato degno solo di comprensione e commiserazione. Puoi anche riprendertela se vuoi, non me ne faccio più niente”, concluse con apparente distacco, riportando l’attenzione sulla pittura che aveva interrotto.

“Icarus, stai fraintendendo”, riprese Rainbow, “non è come dici”.

Dash si sentì accusata ingiustamente dal pegaso ma, in cuor suo, non negò di aver provato una certa pena per lui, quando lo vide salire per la prima volta sul cirro che lo riportò a casa.

“Dimmi una cosa”, aggiunse Icarus con estrema calma, “come ti sentiresti se domani perdessi le tue ali e i pony che conosci iniziassero a trattarti come la vittima delle circostanze?”.

Quelle parole le riportarono in mente il periodo di degenza che aveva affrontato quando si era fratturata un’ala: essere inchiodata ad un lettino fu sicuramente terribile ma, peggio ancora, fu la sensazione di commiserazione che ricevette da alcuni visitatori. Capì cosa stesse cercando di dirle Icarus, seppur ritenesse la sua reazione eccessiva.

Le parole del pegaso grigio la riportarono rapidamente alla realtà: “Ora puoi anche andartene”.

“Icarus, io non volevo…”, ma l’altro la ignorò completamente, riprendendo a dipingere con lentezza.

   

Rainbow abbandonò la stanza, con la foto tra i denti, e una profonda sensazione di dispiacere.

Quando uscì dall’abitazione, Sunshine la stava aspettando seduta poco lontano, con un sorriso amaro sul volto.

“Non so cosa vi siate detti”, esordì, “ma, dal tono di voce, non credo sia andata molto bene”.

Dash rimase con lo sguardo basso: “Già… è stato a dir poco un disastro”.

“Non fartene una colpa: Icarus ne ha passate davvero di tutti i colori… e certe cose credo lo abbiano segnato… in peggio”.

Dash rimase a riflettere per qualche minuto, poi alzò lo sguardo verso la madre e disse: “Credo di capire… io non volevo compatirlo ma, se fossi stata io quella adagiata sul cirro e qualcuno avesse provato pena nei miei confronti, mi sarei sentita estremamente infastidita”.

“Per Icarus è un po’ diverso, lui ha dovuto sopportare una ingiusta commiserazione fin da quando era piccolo. Forse ti avrà parlato dei medici. Nessuno riteneva che ce l’avrebbe fatta ma lui c’è riuscito ugualmente. Credo sia da allora che ha deciso di allontanare ogni forma di vittimismo e commiserazione dalla propria vita”, raccontò Sunshine.

Lo sguardo del pegaso blu si fece serio: “Lui vuole essere trattato come tutti… con dignità”.

“Esatto, credo non ci sia espressione migliore. Vuole essere trattato per ciò che è effettivamente: un pegaso”, concluse.

Dash osservò la dedica che gli aveva firmato giusto il giorno prima ed iniziò a pensare. Poi, improvvisamente, appoggiò le zampe anteriori sulle spalle di Sunshine, visibilmente sorpresa: “Ascolta”, disse con convinzione, “devo chiederti un grande, grandissimo favore… ti fideresti a lasciare Icarus con me?”.

“Cosa?”.

“Se ti promettessi che non gli accadrebbe nulla di male e se riuscissi a convincerlo, lasceresti che Icarus passasse almeno una giornata con me?”, ripeté.

“Io… io non saprei, è molto pericoloso per lui abbandonare questa casa!”.

“Me ne rendo conto e non pretendo che tu acconsenta da un momento all’altro”.

“Ma cosa vorresti fare con lui?”.

“Ci sono… alcuni pony che vorrei fargli conoscere”.

“Oh no”, disse Sunshine con preoccupazione, “questo non gli porterebbe alcun giovamento, ci abbiamo già provato in passato!”.

“Ti prego, Sunshine, concedimi una possibilità. Se Icarus dovesse patirne delle conseguenze, ti prometto che non mi vedrai mai più solcare il cielo da queste parti”, concluse con sguardo sincero.

Sunshine non parve convinta e si prese del tempo per pensare.

“Io non credo sia una buona idea”, disse infine, “ma se riesci a convincerlo… solo per un giorno…”.

“Fantastico!”, urlò Rainbow e, senza perdere tempo, prese una breve rincorsa e spiccò il volo. Fece un rapido giro del caseggiato, giungendo infine ad una delle finestre che davano nella stanza dove il pegaso dipingeva.

Quando Icarus vide il suo muso sorridente sbucare dall’esterno assunse un’espressione sorpresa, seguita da un atteggiamento spazientito: “Mi togli la luce”.

Dash mostrò uno sguardo di sfida: “Senti un po’, Icarus, da quant’è che te ne stai rinchiuso in questa nuvola?”.

“Non sono fatti tuoi”, rispose con noncuranza, “e poi mi pare di averti detto di sparire”.

“Obbligami”, disse l’altra con una risata.

Il pegaso grigio posò il pennello, in segno di rassegnazione.

“Ti prometto che fra poco me ne andrò ma prima devo chiederti una cosa”.

“Non cambio idea sul tuo conto, è inutile che ci provi”.

“Oh, non me ne importa nulla di quello che pensi di me. Ma, se sei coerente con quello che dici, allora voglio vedere fino a che punto sei il campione di cui mi hai parlato”.

Icarus iniziò a mostrare un vago interesse per la proposta di Rainbow, la quale intuì come Icarus possedesse uno spirito orgoglioso almeno quanto il suo.

“Se hai il coraggio, domani vieni con me a Ponyville, giù, vicino alla terra. Ci sono alcuni pony che vorrei presentarti”, concluse, appoggiando il mento su uno zoccolo.

“Non ho bisogno di altri pony come te intorno”, ribatté seccato.

“Oh, capisco, non te la senti. Mesi e mesi, forse anni di isolamento quassù devono averti reso timoroso, è comprensibile”.

Icarus non era stupido e intuì come Rainbow Dash cercasse semplicemente di stuzzicarlo. Non avrebbe ceduto ad un tentativo così patetico se non fosse stato per un ragionamento contorto che, sapeva bene, lo avrebbe tradito sul più bello: “Ridicolo. E so benissimo che vuoi fregarmi”. Rimase per un po’ in silenzio, indeciso se riprendere a dipingere oppure risponderle per le rime. Alla fine cedette: “Ma non voglio sembrare un incoerente! Va bene”, disse con solennità, “domani ci sarò: verrò nella tua stupida Ponyville, liquiderò i tuoi presunti amici e poi me ne tornerò quassù, dimostrandoti quanto sai essere patetica”.

Rainbow sorrise di gusto e scandì con decisione queste parole: “Non-vedo-l’ora!”.

Si staccò dal davanzale e, fluttuando all’indietro, lanciò un ultimo sguardo al suo interlocutore: “Domani pomeriggio dopo pranzo! Vediamo se avrai il fegato!”.

“Ridicolo”, bisbigliò a se stesso Icarus, riprendendo a dipingere con vago nervosismo.

    Prima di andarsene, Dash planò verso Sunshine e, sempre sbattendo le ali per mantenersi a mezz’aria, urlò: “Una sola possibilità, non chiedo altro!”, poi si gettò in picchiata verso Ponyville.

“Ora devo assolutamente trovare un certo pony”, pensò, prima di scomparire tra le nuvole a bassa quota.

   
 
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