Inanzitutto
vorrei scusarmi con voi per il madornale ritardo, lo so, questa volta vi ho
fatto aspettare troppo!!!! Non voglio dire molto, voglio solo farvelo gustare,
ma prendete le dovute precauzioni: fazzoletti!!! E lo dico perchè mentre lo
scrivevo ho impregnato le maniche della felpa, il che non è bene! Detto ciò
lascio a voi la lettura e se vi vanno i commenti.
Ile
28. Un giorno di
inizio Marzo
Marzo
ponte tra l'inverno e la primavera, unione di due stagioni che fatichi a
scorgere fino alla fine del mese; freddo e caldo che si uniscono, si amalgamano
e l'umidità regna in città.
Chicago
non era mai stata così bella, però. Cielo azzurro, nonostante il freddo,
baciato da qualche nuvola, a volte una lacrima di pioggia, eppure dicevano che
la neve non aveva ancora smesso di fare le sue apparizioni silenziose. E
Chicago non era mai stata così bella e nemmeno il mio sorriso, nascosto da
troppo. Era la mattina del cinque del mese, due giorni e i miei fratelli sarebbero
usciti. Eravamo d'accordo che sarei andata a prenderli il sette e non mi sarei
fatta vedere i due giorni prima dell'uscita perchè, quando si attende un
qualcosa, il tempo non passa mai, accade nella vita di tutti i giorni,
figuriamoci in prigione, dove si perde la cognizione del tempo dopo un giorno
che la abiti!
Avevo
il turno lungo al lavoro e avrei fatto l'apertura quella mattina; ero così
contenta che nulla mi avrebbe scalfito l'umore. Ero così contenta che, quando
la sveglia suonò, ero già in piedi.
Non
era la solita routine quotidiana, i giorni cupi stavano per vedere la fine e il
mio sorriso, disperso da chissà quanto tempo, ne era la prova più bella.
Ero
così contenta che nemmeno le imprecazioni metereologiche di Kensy mi toccarono
più di tanto.
- Inizio
Marzo, il cielo fa quel che vuole, fuori fa un freddo cane e, non appena nomini
la neve, nonostante non sia ancora sceso un fiocco, gli automobilisti si
impanicano!! Ti sembra normale, Zig? - brontolò entrando e in quel mentre suonò
il telefono, un fatto strano perchè era da appena iniziato l'afflusso dei
clienti per la colazione, un fatto strano perchè a quell'ora non chiamava mai
nessuno - ci mancava solo il telefono, ora! -
-
Neve è la parolina che non si dovrebbe mai dire, quel sostantivo che si dovrebbe
vietare ai metereologi - commentai ridacchiando, mi trovavo d'accordo con lei,
ma la prendevo sul ridere, che motivo c'era di rabbuiarsi? Il telefono continuò
a squillare - dai, lascia, rispondo io, vai pure a cambiarti -.
Presi
la cornetta immaginando che fosse qualche fornitore di birra smarrito nelle vie
di Chicago o qualcuno che voleva prenotare il tavolo per pranzo, chi altro
poteva esser altrimenti? Lanciai lo straccio, che avevo in mano, sul bancone e
scivolai con un passo di swing al telefono.
-
Pronto? -
-
E' il Cook's County Bar? E' possibile parlare con Ziggie Miller? - mi accigliai
quando fecero il mio nome e cognome, erano in pochi a saperlo e non avevo
combinato nessun guaio!
-
Si, ci sta già parlando, sono io -.
-
E' il carcere di Joliet e volevo avvisarla che... - mi stava comunicando la
voce, ma quando sentii che il mio interlocutore chiamava da Joliet, esaltata,
non lo feci finire e lo interruppi - Che i miei fratelli usciranno tra due
giorni, no? E' stato gentile a chiamare per ricordarmi - commentai arzilla.
La
voce dall'altro capo fece una pausa e si rabbuiò - le passo il direttore - fu
allora che capii che era successo qualcosa di serio.
Qualche
istante e la cornetta venne ceduta, attimi di silenzio -Ziggie, per favore, se
hai una sedia lì vicino, sieditici - furono le prime parole del direttore,
pacato. Socchiusi gli occhi, cercando di immaginare la notizia, nessuna sedia
intorno a me, dietro al bancone, non importava, non la volevo, dovevo esser
forte - Ziggie... Jake è... Jake è morto, ci ha lasciato alle prime luci
dell'alba -.
Afferrai
il bordo del bancone per evitare di cedere, le forze mi mancarono, silenzio,
una pugnalata appena presa, un pugno allo stomaco e gli occhi lucidi,
increduli, ma le lacrime non scesero, non ora - Elwood lo sa? - riuscii ad
articolare, il primo pensiero andò a lui, speravo non gliel'avessero detto, non
avrebbe retto a quella notizia senza vederlo, come avrebbe passato quei due
giorni?! Doveva saperlo, si, ma non in quel momento, non in quel modo, non
parole di ghiaccio, come pugnali, dettate dall'altra parte delle sbarre, non
come io l'avevo appreso da una fredda telefonata che mi aveva comunicato quanto
avrei sperato di non udire mai.
-
No, non ancora, pensavamo di dirgli il tutto poco prima della sua uscita - mi
comunicò il direttore, mentre io cercavo di rimanere lucida ancora per qualche
istante.
-
Fate così - risposi concorde con la loro decisione, era impensabile, era vero,
ma era per il suo bene.
-
Condoglianze, Ziggie - un'altra pugnalata.
-
E' stata un'overdose, non è vero?! - chiesi prima che ripotesse riagganciare,
una domanda legittima, una richiesta piena di rabbia, perchè Jake avrebbe
potuto smettere, ma non in quel tunnel vizioso del carcere, dove non è perchè
sei dietro alle sbarre e allora la tua vita è ridotta ad un nulla.
-
Si, l'ha confermato anche il medico -.
-
Un grazie ai vostri secondini - replicai glaciale e riagganciai, sbattendogli
la cornetta in faccia e tirando un calcio ad una scatola di cartone vuota
dietro al bancone, una lacrima mi rigò il volto, in caduta libera, seguita da
un'altra, cercai di ricacciarle indietro, tirando su con il naso. Kensy arrivò
di lì a poco, intenta ad allacciarsi il grembiule - abbiamo già una
prenotazione per pranzo, Zi... - non concluse il mio nome, nel vedermi così,
non concluse il mio nome e mi raggiunse in fretta - Zig, che è successo? Chi
era? - chiese portandomi un braccio attorno alle spalle, a rincuorarmi in
qualche modo.
Presi
un profondo respiro e ricacciai indietro le lacrime, c'era un momento per tutto
e il momento per piangere non era ora, dovevo esser forte per Jake e quanto
aveva subito, per Elwood e quanto avrebbe appreso. Un altro sospiro, guardai
Kensy - chiamavano da Joliet - la voce seria, fredda, quella notizia era stata
davvero una pugnalata nel petto, uno svuotamento d'anima - Jake è... - era
difficile ammettere quanto era capitato, era difficile dire che Jake non c'era
più, che era morto. Morto, si, un termine che nessuno vorrebbe mai dire o
sentire e quando ti ritrovi in mezzo vieni svuotato da tutte le certezze che
avevi, senza sentire più nulla se non la rabbia, senza sentire nulla se non le
lacrime che prendono il sopravvento al ricordo di una delle colonne portanti
della tua vita, con la quale ridevi e scherzavi fino all'altro giorno. Kensy
non mi fece finire, non aveva bisogno di quella parola, di quel sostantivo,
capì tutto dal mio sguardo, dalla mia voce e mi abbracciò stretta, una stretta
che ricambiai, mentre le lacrime prendevano il sopravvento, senza che potessi
fermarle, un pianto silenzioso, breve, lacrime che scivolavano irrequiete,
distrutte, tristi; lacrime che portavano il ricordo e il dolore.
Un
abbraccio fu quello a tenermi in piedi, una stretta che dava forza nonostante
le mie gambe volessero cedere ed io urlare quanto poteva esser ingiusto il
mondo.
E a
tre anni persi i miei genitori in un incidente d'auto, unica sopravvissuta,
incominciai a viaggiare, con un bagaglio di incubi, di orfanotrofio in
orfanotrofio, finchè il Sant'Elena non mi aprì le porte, finchè Elwood non mi
aiutò a risollevare gli animi e Jake a ritrovare il sorriso. Ora era come se
fosse avvenuto un passo indietro nel tempo, ma era Jake a non esserci più.
Jake
la canaglia, il musicista, l'uomo. Jake l'allegria fatta a persona, il duro, il
fratello, quel fratello che tutti vorrebbero avere. Quell'esplosione di energia
fatta persona come poteva essersi spenta per sempre?
-
Vai da lui, Zig - mi disse Kensy, asciugandosi le lacrime per quello che era
stato il suo amante anni prima - vai da Elwood -.
Alzai
lo sguardo su di lei e scossi il capo - No, Kensy, non andrò da lui - ribadì
ferma, mentre lacrime mi rigavano il volto, più svelte, più pesanti - avevamo
un appuntamento tra due giorni e lo rispetterò, i giorni per un galeotto non
passano mai, le belle notizie non li accolgono mai, unisci le due cose e non
vivono più - le spiegai con tono triste, si, ma fermo, passandomi una mano sul
volto cercando di fermare quella caduta libera di gocce dagli occhi. Non mi
aspettavo che Kensy capisse la mia decisione di non andare da Elwood, di non
andare a Joliet, chiunque sarebbe rimasto basito dalle mie parole, io stessa
sarei apparsa tale se non avessi vissuto quindici anni là dentro. Parole fredde
dietro alle sbarre, dietro ad un vetro tramite una cornetta non era certo così
che Elwood avrebbe dovuto apprendere la dipartita di suo fratello. Troppi
schiaffi, troppe pugnalate, troppe frasi taglienti lo avevano accolto nella sua
vita e, soprattutto, là dentro ed io non c'ero perchè in un'altra ala, e Jake
non c'era perchè in isolamento. La mia decisione alle orecchie di Kensy poteva
sembrare glaciale, ma sarebbe rimasta tale, avevo un appuntamento il sette
marzo fuori da quei cancelli e il sette marzo avrei pianto con lui, facendogli
forza, avrei accolto un fratello e pianto un altro, saremmo state due anime
dilaniate dal carcere e dalla tremenda notizia, unite nel dolore, unite dopo
anni, un tuttuno in quell'abbraccio che ci avrebbe dato la forza di guardare
oltre nonostante gli occhi gonfi, rossi e abbandonati alle lacrime, uniti in
quella stretta e nell'ultimo saluto ad un fratello partito troppo presto,
portato via da un vortice troppo intenso per riuscire ad uscirne del tutto.
Immaginavo come le mie parole potessero scuotere la gente che le udiva, ma così
dovevano andare i fatti e così sarebbero andati, mentre io ancora faticavo ad
assimilare l'idea della dipartita di quella quercia blues che non si arrendeva
mai e trovava sempre un'uscita secondaria di fronte alle difficoltà.
Staccai
nel pomeriggio, dopo quella chiamata mi buttai a capofitto nel lavoro finchè
coloro che si erano fermati a pranzo non uscirono dal locale per tornare alle
loro commissioni o ai loro uffici. Fu allora, a locale vuoto, che mi lasciai
sprofondare su una sedia vicino alla finestra e guardai il cielo, come se
stessi cercando qualcosa, come se pensassi di scorgere lo sguardo di Jake tra
quel grigiore. Posai la testa sul freddo vetro e il mio sguardo guardò oltre,
perso, stanco, scalfito, distrutto. Mi rannicchiai, portando le ginocchia, per come
meglio riuscii, sotto al mento e piansi in silenzio, guardando la strada,
guardando il cielo - Vaffanculo Jake, potevi almeno salutare prima di partire -
mormorai tra le lacrime, una frase alla quale lui avrebbe sicuramente riso,
alla quale avrebbe risposto con una pacca fraterna sulla spalla. Tirai su con
il naso e notai i primi fiocchi scendere sull'asfalto scuro, accompagnati da
una brezza fredda, uscii dunque sulla soglia del bar e godetti quei fiocchi, il
suo saluto e quel soffio freddo tra i capelli, la sua carezza. Alzai nuovamente
gli occhi al cielo, occhi lucidi, in preda alle lacrime, ma un lieve sorriso
glielo rivolsi, era quanto avrebbe voluto e voleva.
Entrai
nel locale, presi al volo la mia giacca ed inforcai gli occhiali da sole,
lanciando il mio grembiule verso l'appendino che mancai - Kensy, io vado, spero
non ti dispiaccia se non finisco il turno, ma devo vedere una persona - le
comunicai diretta, senza darle il tempo di rispondermi e uscendo, era chiusa in
ufficio e sapevo che la sua risposta sarebbe stata positiva, quindi non
occorreva stare ad aspettare, soprattutto quando, per la prima volta, avevo il
tremendo bisogno di vedere quel determinato qualcuno. Raggiunsi casa mia, per
recuperare l'auto e sgasai verso il centro della città, con la neve che ora
scendeva più copiosa di prima. Un parcheggio e un ospedale davanti a me, feci
manovra e scesi dall'auto. Era da quando ero uscita da Joliet che non mettevo
piede là dentro, era più forte di me, ma non riuscivo a vederla dietro una veste
e una scrivania che non fosse quella dell'orfanotrofio. Quel giorno dovevo
farlo, dovevo varcare quella soglia e parlare con lei, certa che mi avrebbe
capito, come i vecchi tempi in fondo.
Dopo aver superato diversi corridoi, arrivai
al suo ufficio e mi feci introdurre, era nelle regole del posto, niente più
porte che si aprivano da sole. Prima che la suora che mi faceva da guida
potesse aprire la porta, lessi il nome della suddetta persona che dovevo
incontrare sulla porta e presi un profondo respiro.
-
Madre Mary c'è una persona per lei -.
-
Vieni avanti, Ziggie - mi invitò e non mi stupii al fatto che mi chiamò per
nome - ci lasci sole, sorella - fu quando la suora uscì che la Pinguina si alzò
e aggirò la sua scrivania, parandomisi di fronte e, senza che potessi dire o
fare qualcosa, mi diede un forte abbraccio, quello si che mi stupì! Nemmeno
all'orfanotrofio si esponeva così tanto, a volte una carezza sul capo, ma era
Curtis quello degli abbracci!!! Certo, non lasciai dischiusa quella stretta, ne
avevo bisogno, avevo bisogno di mani salde, amiche, che sapevano quanto avevo
passato e immaginavo che sapevano quanto era appena accaduto, così mi lasciai
andare, abbracciai la suora che tanto avevamo fatto tribolare negli anni
passati e, non riuscendo a trattenere le lacrime, mi lasciai andare.
-
Non so dirle perchè sono qui - ammisi dopo che mi allontanai da quella stretta
e tornò tutto come prima, sedendomi davanti a lei e la suora dietro la
scrivania - oggi non so la risposta a niente -.
-
Non occorre darsi sempre risposte, Ziggie - esclamò la suora cercando di
confortarmi - Non avete mai cercato il perchè nelle vostre marachelle, nelle
vostre azioni. Sei qui perchè sentivi di esserci, senza troppe domande, motivi,
risposte - quel giorno quella donna burbera, fredda, non apparì tale, anzi, mi
rincuorò.
Non
stetti molto in quell'ospedale, non avevamo molto da aggiungere alla nostra
discussione, se non che del funerale si sarebbe occupata lei stessa e si
sarebbe svolto di lì a due giorni, la stessa data in cui avrei ripreso Elwood,
ma nel pomeriggio. Uscii che la neve era diventata un misto con la pioggia ed
alzai lo sguardo coperto dalle lenti scure, nonostante fosse ormai sera,
provando ad immaginarmi Jake che scendeva a patti con il pezzo grosso, sostenendo
che lui aveva vissuto una missione in suo nome e che quindi gli spettava un
posto d'onore: si, perchè le sue marachelle non sarebbero finite.
Tornai
a casa rincuorata, ma con un ampio vuoto dentro, presi l'armonica e mi sedetti
sul divano a suonare una melodia malinconica, con lievi note di allegretto,
mentre le lacrime stavolta scendeva libere, danzando sul mio volto a suon di
musica, al suono di quel blues triste e azzardato in ricordo dell'anima soul di
Jake.
I
due giorni successivi non andai al lavoro, cercai di recuperare le forze per
mostrarmi tale ad Elwood, dovevo sostenerlo, lui aveva più bisogno di me di
quella spinta in più. Nonostante non facessi nulla, il giorno tra la notizia e
il rilascio passò senza che me ne accorgessi e il sette Marzo bussò alle porte
di quella che sarebbe stata una lunghissima giornata.
In
divisa mi misi in macchina, occhiali scuri calati sullo sguardo appesantito dal
pianto di quei due giorni passati, cappello ben calcato in testa e toni bianchi
e scuri adagiati come sempre sul resto del corpo, un tuttuno tra stoffa e
pelle. Guidai fino a Joliet e attesi in auto che i cancelli si aprissero e fu
quando questo avvenne che guardai dritto davanti a me e presi un profondo
respiro, dovevo trattenere le lacrime, non esser debole, fargli forza con gesti
e parole. Fu quando quei cancelli si aprirono che al secondo profondo respiro
scesi dall'auto e guardai Elwood uscire, accompagnato da due poliziotti. Fu
quando quei cancelli si aprirono che era giunto il momento di guardare in
faccia alla realtà.