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Autore: Subutai Khan    04/11/2007    6 recensioni
Come da titolo. Questo è davvero l'ultimo capitolo della saga che, sinceramente, non credevo sarebbe durata tanto a lungo.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Asuka Soryou Langley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Claustrofobia, Manuali per Incompetenti e Altre Amenità'
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Mi guardo allo specchio.
Gli occhi sono apatici, vitrei, senza mordente. Sparito da tempo quel poco di vitale che ancora vi risiedeva.
Le guance sono scavate, segnate dalla malnutrizione che non riesco a scacciare.
I capelli si sforzano di essere rosso fiamma come un tempo, ma nello disgraziato stato attuale possono solo impallidire di fronte al fulgido ricordo di quanto sapevano risplendere. E, se mi è concesso aggiungere, non aiuta il fatto che nonostante il suo significato il taglio corto non mi piaccia per nulla.
Le braccia sono magrissime, quasi trasparenti. Lo stesso dicasi per le gambe. È vero che non sono mai stata una centometrista, ma un tempo non avevo motivo di lamentarmi della loro tonicità.
Quel che mi spaventa di più, però, è l'espressione.
Se ciò che vedo non mente, e non ho motivo per credere altrimenti, ricordo molto da vicino un condannato a morte. O un malato terminale. O una di quelle persone che non ha mai imparato a vivere.
La testa inclinata di pochi gradi a sinistra suggerisce una deficienza mentale che penso di non avere ma che non mi meraviglierei di scoprire. Forse il mio io sta cercando di riassestare il peso delle mie disgrazie, oltre che sull'anima, anche sul corpo. Con risultati eccellenti, direi.
Il filo di bava che cola da un angolo della bocca aggiunge quel tetro tocco di follia che non sta mai male alle carcasse umane come me.
Porto la stampella ad altezza sguardo. Manca tanto così e si sbriciola. Ha delle crepe enormi, sparse un po' ovunque sulla superficie del rugoso legno.
Lo stesso vetro in cui sto rimirando la schifezza che sono diventata presenta molti punti incrinati. Anche quello prossimo allo cadere a pezzi.
Mi viene da chiedere chi si sfascerà per primo.
Dio.
A che punto sei arrivata, non-Asuka? Quanto ancora puoi scavare nel fosso prima che ti si spezzino le dita? Fra quanto comincerai a grattar via coi denti visto che, come si suol dire, non c'è mai fine allo scempio?
Che colpa hai di questa miseria? Di questa sporcizia? Di questo tremendo degrado fisico e psicologico?
La mia colpa è quella di essere un clone.
Il fottuto, merdosissimo clone di una ragazza che, mi è stato detto, è morta come un'eroina da fumetto per proteggere chi amava.
E bastasse questo, eh. Ma figurarsi. Dove si è visto che una notizia del genere ti rovina il resto di questa vita e l'interezza della prossima?
Ho pure scoperto che la persona che amo da dieci anni, e che da quasi altrettanto tempo credevo trapassata, non solo è viva ma mi odia con tutto se stesso.
Sì, è un bel casino. Lo so.
Ricordo perfettamente ciò che mi ha detto quel giorno al cimitero, dov'ero andata per dargli un saluto e un triste bacio d'addio dopo lungo tempo che ero mancata: “A te, che non meriti nulla se non gli sputi della folla inferocita. Spero tu possa morire come meriti, compatita dalle zanzare e derisa dai mosconi”.
Ma ben più forti delle parole sono i coltelli di pura fiamma che sento bruciarmi addosso al solo richiamare alla mente quell'atroce, smembrante scena.
Rapide e incontrollate cadono per terra, sul parquet mezzo disfatto, strisce di lacrime calde, ultimo e unico alito di sentimento che ancora riesce a spirare in me.
Una sola volta, nella giovinezza che non ho vissuto, Lei era sprofondata a livelli vagamente simili: è stato quando era fuggita dalla NERV perché il suo tasso di sincronia con l'Eva 02 rasentava lo zero assoluto. Si vergognava a morte e pensava di essere diventata un peso, una palla al piede, un fastidio.
Vorrei averla davanti adesso e mostrarle, con il volto tirato e il pianto ancora fresco, cosa vuol dire essere davvero di troppo per il mondo. Riderebbe della propria superficialità.
Maledizione.
I primi quattordici anni della mia vita sono stati vissuti da qualcun altro. Ho in testa immagini, pensieri e stati d'animo di cui non ho avuto realmente esperienza.
Shinji è stato spietato nel rivelarmelo. Ha preso la mia vita, che sino a quel momento procedeva su binari sì malandati ma non irrecuperabili, e l'ha fatta a pezzi con una mannaia arrugginita. Poi ne ha masticato un pezzetto, sputandolo inorridito subito dopo, e me l'ha consegnato dicendomi “Tanti auguri, stronza. Ingozzatici”.
Non sarebbe dovuta andare così. Adesso non dovrei vivere in questo cesso di monolocale senza cucina, con il riscaldamento rotto e un'amaca bucata come letto. Non dovrei essere sotto a un soffitto marcio, in attesa del crollo, a compatirmi. Non dovrei.
Non penso di meritarmelo.
Ho sbagliato in passato, è vero. E parecchio. Ma non mi si può accusare di non aver almeno provato a rimediare. A mettercela tutta per raddrizzare la situazione.
Ho fatto del mio meglio. Mi sono sforzata. Mi sono cambiata. Ho rinnegato ciò che ero per darmi un'occasione migliore.
E a cosa è servito? A questo. A farmi rompere le ossa dall'uomo a cui voglio più bene che a me stessa.
Mi asciugo il viso alla bell'e meglio. Sono stufa di non far altro.
Questo stato di cose deve finire.
Nasce spontaneo un sorriso malinconico, immaginandomi come Lei avrebbe reagito di fronte a questo pattume di esistenza.
Credo sarei in diritto di odiarla. Ma non posso. Io sono ciò che rimane di Lei, la copia non accettata di una martire. È bizzarro, ma in certi momenti mi vien quasi naturale pensare a Lei come a mia madre.
Bizzarro e insensato.
...
...
...
...
...
No. Il conciliabolo schizzato di voci extraterrestri che è appena finito nel mio cervello non mi ha fatto cambiare idea.
Io non la odio.
Anzi, in un modo molto perverso, Lei simboleggia ciò che potrei essere al mio apice. Qualcuno capace di sacrificarsi per chi ama. Qualcuno che ha riscoperto il calore di un abbraccio e di un respiro vicino al proprio orecchio, confortevole come poteva esserlo ai tempi un caminetto acceso in pieno inverno. Qualcuno che sa riscattarsi dagli errori del passato.
Una bella persona.
Non un'immondizia. Non uno scarto di fabbrica. Non un esperimento malriuscito.
Questa non è la realtà.
Questa non sono io. E non lo era nemmeno Lei.
Io la ricordo, nonostante tutto. Io sento ciò che Lei sentiva. Io capisco ciò che Lei provava.
Un lontano giorno di tanti anni fa, mentre analizzavo una specie di visione che ho poi scoperto essere stata una delle sue ultime esperienze terrene, percepivo limpidamente come ciò che diceva era vivido, pieno di buone intenzioni, immagine di un suo profondo pentimento.
Era sincera. Onesta. Aperta.
Non posso buttar via tutta quella massiccia volontà. Sarebbe vile e irrispettoso nei suoi confronti.
Lei è morta. Ma io sono qui, viva e vegeta.
Sì, non-Asuka. Ora o mai più.
Se non agisci ora puoi far che spedire gli inviti per il tuo funerale a zanzare e mosconi. Non ti resterebbe nient'altro. Solo rimpianti e ore da trascorrere in attesa della dipartita.
E, cazzo, questo non lo voglio.
Oggi è il primo marzo 2026. Deve essere il giorno della svolta.
Stringo la stampella e, con la pochissima forza rimastami, la scaglio il più lontano possibile.
Devo farcela da sola. Nessun aiuto. Nessuna facilitazione.

Tremo visibilmente dalla paura.
Anche se indosso gli stracci migliori che avevo so già che farò una pessima figura.
Stupida gamba sana, non potevi trascinarmi da qualche altra parte, possibilmente a mille chilometri da dove sono ora?
Su, su. È troppo tardi per recriminare. E poi, se ti fai fermare da una stronzata simile, dove speri di arrivare?
Apro con fatica il grosso portone.
Entro, ancora un po' intimorita, nell'immenso studio.
L'ufficio del comandante supremo della NERV.
L'ufficio di Shinji.
Lui è là, seduto sul trono del comando e ancora lontano da me. Sapeva che sarei venuta. E non solo, ma con mia somma sorpresa ha dato alle guardie il permesso di farmi passare.
Per un attimo, lungo la strada che separa il mio tugurio da questa stanza, ho temuto che avesse dato loro l'ordine di spararmi a vista.
Cammino con una lentezza esasperante. Questo mi concede il tempo di poter osservare il luogo in cui si è installato da parecchi anni: ampissimo, tanto da sembrare ben più di un semplice posto di lavoro. Sopra la mia testa campeggia, solenne come poco altro, un elaborato affresco che, se non ricordo male i suoi studi, dovrebbe essere l'Albero della Vita. Tradizione religiosa ebraica, mi sembra. Il resto dell'ambiente è altrettanto ricercato, con strani quadri appesi alle sue spalle e un complicatissimo motivo finemente intarsiato sul pavimento.
Che lusso, il signore.
Faccio finta di non guardarlo in faccia, ma mi sa che sto fallendo miseramente perché sento il suo perentorio sguardo fisso su di me.
Finalmente, dopo minuti che paiono intere ere geologiche, gli giungo davanti. Alla sua destra sta appoggiata la stampella. Da come è messa e per come è fatta sembra un mitra.
Sul suo viso, meraviglioso come l'ho sempre avuto scolpito in mente, risiede uno spiacevole miscuglio di sopportazione e astio. Beh, rispetto all'ultima volta è un passo in avanti: non aveva traccia di sopportazione.
Non spiccica parola mentre si alza, col fare tipico che fu di suo padre, afferra il suo strumento di deambulazione e comincia a circumnavigare la titanica scrivania, più grande di qualsiasi cosa io possegga nella topaia che mi fa da casa.
Mi sta dando la netta sensazione di un avvoltoio che svolazza in circolo sopra a una carogna.
Deglutisco, raccattando da ogni anfratto il maggior numero possibile di atomi di coraggio.
Quando è a un metro da me comincia veramente a girarmi attorno. Ommioddio, mica vorrà sbranarmi sul serio?
Lo seguo con lo sguardo, stringendo in modo a lui invisibile le dita fino a farle sbiancare.
Andrà bene. Deve andare bene.
“Che cazzo vuoi, clone?”.
Una fucilata in mezzo agli occhi mi avrebbe ferita di meno.
Resisti. Sapevi a cosa andavi incontro quando hai partorito questa pazza idea.
“V-V-Voglio... solo... voglio solo che tu mi accetti”.
Quasi non riesco a finire di formulare la mia richiesta che mi afferra per il bavero della sdrucita maglia che indosso: “Tu. Non. Devi. Neanche. Provarci”.
Sto per provare a ribattere quando, più rapido di Nembo Kid, mi rifila uno sberlone supersonico.
Mi accarezzo la guancia arrossata, già pronta a scoppiare a piangere. Lui ignora palesemente, mi punta l'indice sulla giugulare e aggiunge: “Sturati quelle orecchie, copia, perché questo lo dirò una volta sola. Tu sei nulla. Il posto a te più consono è in mezzo ai vermi più luridi e pestilenziali che esistano. Non so quali santi tu debba ringraziare per aver fatto in modo che io ti ricevessi, ma una simile fortuna non ti capiterà più da qui in capo a dieci secoli. E adesso sparisci e fai in modo che non debba mai più vedere il tuo fetido muso, mi ricordi lei. O, quant'è vero Iddio, la prossima volta ti pianto un proiettile in bocca e la finiamo lì”.
...
Basta. Mi arrendo.
Non posso lottare contro un simile odio. Neanche Ercole in persona ci riuscirebbe.
Ma se lui non è disposto nemmeno a tentare di perdonarmi mi resta una sola cosa da fare.
Sto per andarmene, in preda allo scatenarsi di una crisi nervosa senza precedenti. Poi, nel guardarlo un'ultima volta per lasciargli il mio più sentito ma non voluto saluto d'addio, mi casca per caso l'occhio sulla sua pistola.
Se ne sta lì, ben ancorata al suo cinturone in stile militare, che chiede solo di essere usata.
Scatto come una lepre braccata da un lupo e, tempo dieci secondi, stringo l'arma con entrambe le mani.
La canna è fissa sulla mia fronte.
Un ben triste commiato dalla vita, il mio. Ma, ribadisco, nulla mi trattiene più qui.
Lascio a morire l'ultima speranza in lui quando lo vedo sorridere soddisfattissimo. Sembra un bimbo che sta facendo il tifo per la sua squadra prediletta di baseball.
Bene, è la conferma che mi serviva.
Posso avere uno spazietto di fianco all'originale, gentili inquilini dei piani alti?
BANG BANG.
   
 
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