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Autore: Notthyrr    15/04/2013    2 recensioni
[Odino;Loki]
«Lo vedi questo? Indica che siamo fratelli; che siamo uguali. Mi prenderò cura di te e tu ti prenderai cura di me. Ogni torto che ti faranno, sarà come se lo facessero a me…»
Genere: Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Fables of Asgard'
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Mentre il lupo affonda le sue fauci su di me e mi colpisce, straziandomi le membra, lo posso vedere per l’ultima volta. E’ diverso, seppur uguale alla prima volta in cui l’ho incontrato…
 
«Padre degli Dèi, signore: che cosa facciamo?» La guardia ansimava: sotto l’elmo, sul sopracciglio sinistro, un solco scuro mi ricordò il momento in cui un gigante lo aveva colpito, non cavandogli l’occhio per sola fortuna. Poco e sarebbe divenuto un altro storpio, come me.
«Ci sono ancora uomini, là dentro?» indicai rapido la fortezza, riportando subito le mani sulla spada d’argento nella paura che un drappello di giganti e troll ci assalisse, ma questi tenevano le distanze, probabilmente spaventati.
Era la mia prima guerra, non ero ancora pronto. Se mio padre non mi avesse lasciato in eredità il comando così presto… Oh, che dovevo fare, quando il mio unico occhio buono era offuscato dal buio e dalla paura?
«Uno squadrone ha preso d’assalto la rocca; credo siano riusciti a entrare. Sigurð è con loro.»
«Sigurð?»
«Sì, mio signore: il giovane Einheri che avete chiamato a voi così giovane. Non ve lo ricordate?»
Sì, forse. In un’altra situazione. Non lì…
«Signore?» incalzò.
Mi riscossi e guardai prima lui, poi il palazzo in pietra nera davanti a me: «D’accordo, raduna le Valchirie e dì loro di raggiungerci in volo. Entreremo dal varco creatoci da Sigurð e…»
«Signore!» La voce era di un altro soldato. Alla mia destra, un uomo avvolto in una pelliccia d’orso bianco era comparso dal buio che inghiottiva ogni cosa. «Farbauti… il re dei giganti… è morto. Abbiamo vinto.» Infilò una mano sotto la cappa di pelo candido e ne sfilò un oggetto luccicante. Pareva un anello d’oro. Me lo porse come prova della sua affermazione. «È uno dei suoi bracciali. Ora è vostro.» S’inchinò e schiamazzò qualcosa agli altri soldati, che si radunarono e, presto, furono al mio seguito.
Mi rigirai quel misero bottino di guerra tra le dita, la superficie lucida che mi rimandava la mia immagine riflessa. Poi, coi superstiti che correvano a nascondersi alle nostre spalle, diedi l’ordine di far ritorno ad Asgard.
 
 
Nelle mie orecchie non rimbombavano i passi dei mille cavalli che, dietro a quello sul quale sedevo, stavano riportando a casa i guerrieri sopravvissuti, né il lento sbattere delle ali dei lupi cavalcati dalle Valchirie sopra la mia testa: nella mia mente ancora cozzavano lame e si fracassavano scudi, ossa, crani. Era un re giusto quello che si serviva di piccole incursioni nel regno per arrivare alle armi? Per trovare un capro espiatorio? Una scusa per sfoltire le fila di quei mostri che erano solo causa di guai? Era un re giusto quello che lasciava a casa suo figlio di appena quattro anni, favorendo lo scontro a lui?
Il clangore della battaglia si smorzò per un istante, sormontato da un rumore più concreto che proveniva dalla mia destra. Guardai distrattamente in quella direzione: il paesaggio stava cambiando; la pietra e il ghiaccio del regno dei giganti stavano sbocciando nel verde di Utgard, il regno esterno che dovevamo attraversare prima di poter giungere a palazzo.
Le foglie di uno slanciato arbusto tremavano appena, probabilmente mosse da un refolo di vento.
Eppure, vento, non ce n’era…
Tirai le briglie e il cavallo si arrestò con uno sbuffo. Trovandomi in testa al drappello di guerrieri, l’intera colonna fu costretta a fermarsi a sua volta.
«Mio signore?» Sigurð mi guardò interrogativo, come se si aspettasse una nuova disposizione; attendendosi che fosse successo qualcosa, che qualcosa mi fosse venuto alla mente e fossi pronto a far dietrofront e tornare a Jötunheim.
Scossi il capo, lanciando una breve occhiata all’arbusto, poi sciolsi le briglie e diedi ordine di riprendere a marciare.
Il filo dei miei sconnessi pensieri che anelavano soltanto a raggiungere al più presto i cancelli di casa e mio figlio dietro di essi, ebbero ben poco per perdersi oltre il verde prato che cominciavo a scorgere oltre la collina: lo strepitare concitato di alcuni soldati e le urla di quello che pareva un bambino mi obbligarono a fermare nuovamente il cavallo, questa volta senza essere immotivata causa dell’arresto dell’intera colonna, che già era ferma e volta nella direzione opposta alla mia.
Vidi la schiera di soldati aprirsi e far largo a due uomini della fanteria che s’inchinarono al mio cospetto. Le loro mani guantate d’acciaio si stringevano salde attorno alle braccia scheletriche di un bambino scalciante. Gridava e si dibatteva, cercando di guadagnare la via di fuga e facendo agitare attorno al suo corpo scarno una tunica sgualcita e strappata tre volte più ampia di lui.
«Ci segue da Jötunheim, mio signore.» mi avvertì il soldato che lo reggeva per il braccio destro.
Inclinai il capo di lato e intercettai lo sguardo del bambino: aveva gli occhi chiari e la pelle nivea, mentre, in contrasto col resto, una chioma di arruffati e annodati capelli scuri gli copriva la fronte e le tempie, scendendo fino alle spalle. Benché agli antipodi rispetto alla sua regalità, per un secondo mi ricordò mio figlio e, sconcertato dal brutale comportamento delle mie guardie, diedi l’ordine di lasciarlo andare.
Il piccolo - dimostrava al massimo cinque anni - si portò la mano al polso destro e se lo massaggiò. Il movimento delle sue dita che spostavano la stoffa delle sue vesti rivelava a intervalli l’anello d’oro che aveva al braccio.
Spostai lo sguardo sul bottino di guerra che la guardia mi aveva consegnato quando mi aveva portato la buona novella della morte di Farbauti, poi lo riportai sul polso del bambino: c’era poco da fantasticare; quei due bracciali erano identici. I bracciali di Farbauti. E, se era lui ad averlo, poteva significare ben poche cose…
«Come ti chiami?» provai, scendendo da cavallo e inginocchiandomi di fronte al bambino, cercando di occultare lo stupore che pareva volermi fiorire in viso.
Lui non rispose: tirò su col naso e si pulì con rabbia le lacrime, portando i suoi occhi glaciali sul mio unico. Inquietava, quello sguardo. Non tanto quel colore innaturalmente chiaro, quanto quelle pupille nere nelle quali pareva bruciare una rabbia immensa, un odio dettato da qualcosa che, magari, era lui stesso il primo a non conoscere.
«Devi avercelo, un nome. Qual è?» ripetei, sperando che si convincesse a darmi una risposta.
Il bambino deglutì, cacciò via le lacrime arricciando il naso e distogliendo per un secondo lo sguardo, poi tornò a fissarmi.
«Loki.» Una risposta concisa, di due sole sillabe, ma che era già qualcosa.
Gli sorrisi, sperando di smuovere la sua insicurezza, ma lui rimase freddo e rigido come un pezzo di ghiaccio, il volto adombrato.
 «Bene, Loki. Io sono Odino, Padre di tutti gli Dèi.»
«Lo so chi sei, per questo sto piangendo.» disse prima di essere costretto da un singhiozzo a tirare nuovamente su col naso.
Drizzai la schiena, stupito da quell’affermazione. Il bambino dalla pelle bianca che, però, portava il bracciale di Farbauti mi stava accusando di essere la causa del suo pianto.
«E perché suscito in te questa reazione?»
«Perché mi hai catturato e adesso ucciderai anche me.»
Chinai il capo, distogliendo lo sguardo dal suo, forse per sentirmi meno colpevole: se non era intuito, ma mi aveva letto negli occhi, lo aveva fatto molto chiaramente. Chiunque quel bambino fosse, se ci stava seguendo da Jötunheim, da là doveva provenire e il bracciale di Farbauti ne era la riprova. Doveva avere intuito che sarebbe stato per noi difficile lasciarlo libero. Dopo quello che era successo, doveva avere compreso che non ci sarebbe stato altro per lui. E allora perché non si era nascosto, anziché inseguirci?
«Da dove provieni?» tentai, sperando di ricavarci qualcosa.
Il bambino batté due volte le palpebre, velocemente, come se nell’annullamento del paesaggio che lo circondava potesse rivedere il suo passato; le sue origini: «Da un posto buio…» disse. Il suo tono si era fatto stranamente lugubre e inumidito dal pianto: «Vivevo nella rocca, poi si è aperta la breccia e uomini armati sono entrati. C’era sangue… e c’erano morti… Tutto si mescolava tra le grida. Avevo paura. Ho ancora paura.»
Viveva al palazzo di Farbauti. Pensai. Non può essere un estraneo. A meno che non fosse un prigioniero… E allora com’è riuscito a fuggire? I nostri uomini non hanno controllato le carceri. No… Lui è in qualche modo legato al re dei giganti. Il bracciale che porta ne è testimone: se Farbauti lo avesse avuto al polso, al momento della sua morte, esso mi sarebbe giunto assieme all’altro. Questo bambino doveva averlo già da un po’. Che sia forse… il figlio?
«Ti prego!» singhiozzò quindi spezzando il flusso delle mie elucubrazioni. Si pulì gli occhi con la manica della tunica e si lasciò cadere in ginocchio per poi scivolare a terra, il viso premuto sull’erba. «Io non ho fatto niente. Io sono innocente.» Si tirò a sedere e protese le mani chiuse a coppa verso di me. Con qualcosa non dissimile dall‘ammirazione, potei vedere un fiore che vi sbocciava. «Ti prego.» ripeté.
Se quella era magia, allora il piccoletto che avevo davanti era stato capace di stupirmi per la seconda volta.
Un sorriso stanco mi attraversò il volto: presi il fiore dalle sue mani e con quella libera gli strinsi il braccio, rassicurante. «Alzati.» gl’intimai. E lui, riluttante, lo fece, senza staccare gli occhi dal bocciolo che lui stesso aveva creato. «Tu sei innocente.» affermai, ripetendo le sue parole. «Il Re di Asgard non si macchierebbe le mani di un bambino innocente.»
«Asgard…» ripeté il piccolo con occhi sognanti. Ecco che il suo sguardo cambiava: l’odio pareva liquefarsi e uscire assieme alle ultime lacrime, lasciando spazio a qualcosa di nuovo; alla speranza. Colsi quell’occasione al volo, quasi volessi rabbonirmelo.
«È un palazzo d‘oro. Ci sono cene… e banchetti… e si balla sempre; tutte le sere. Ci sono guerrieri. E Valchirie. Di tanto in tanto, si avverte la mancanza di un mago.»
Lo sguardo sfuggente del bambino che, man mano che li elencavo, passava da un soldato all’altro, tornò su di me, quasi avesse afferrato il sottinteso. I suoi occhi erano intelligenti, trasudavano una disumana perspicacia, una sagacia che, usata a sfavore del regno, avrebbe portato disgrazie inimmaginabili.
Il piccolo parve, però, anche stupito: le sue labbra si dischiusero tremanti. Voleva parlare, dire qualcosa, ma non ci riusciva.
«Immagino vorresti vedere di cosa si tratta…» E in quello la guardia alle mie spalle mi lanciò un’occhiata di disapprovazione. Portarsi a casa il figlio di un gigante, benché davvero non ne desse l’idea, non poteva comportare molto di buono. Eppure, quel bambino innocente…
Gli tesi una mano e gli presi il braccio, riavvolgendogli la manica. Gl’indicai il bracciale, poi accennai al mio: «Lo vedi questo?» Aspettai che lui annuisse. Aveva smesso di piangere e pareva addirittura interessato alle mie parole. «Indica che siamo fratelli; che siamo uguali. Mi prenderò cura di te e tu ti prenderai cura di me. Ogni torto che ti faranno, sarà come se lo facessero a me. E, credimi, essere re ha i suoi vantaggi…» Gli lanciai un’occhiata complice e lui, per la prima volta, mi sorrise.
«Vieni.» Lo sollevai e lo misi a cavallo. «Crescerai assieme a mio figlio.» gli dissi, salendo a mia volta, mentre la colonna riprendeva il cammino. «A volte può sembrare impetuoso, ma è un bambino buono. Ti piacerà.»
 
Il lupo mi assale di nuovo. Loki sta combattendo a poche iarde da me. Crea giochi di colori con i suoi incantesimi. Quelle fatture sono belle ed eleganti, come il fiore di quel primo giorno.
Cado a terra e la mia visuale si fa rossa. Non lo vedo più, ma sento che le nostre morti sono meritate. Qualsiasi cosa avesse fatto, l’aveva fatta perché ero stato io a salvarlo. Alla fine, la colpa era anche mia…
 
 
 
 




 

Note: Sniff… Ok, momento di depressione passato *come se sapessi scrivere altro*. L’idea è venuta da sé mentre sbocconcellavo preparando la cena. In effetti, ho sempre pensato a come questo incontro potesse essere avvenuto: in primo luogo, seguendo un po’ il Marvel Universe, avevo adottato come idea un Loki inconsapevole, che scopre soltanto poi delle sue origini e che non può ricordare nulla di Jötunheim. Poi avevo pensato alla mitologia, che non ci presenta appieno questo incontro, ma, stando alle motivazioni che Odino adduce per giustificare la sua scelta di prendere Loki tra gli Asi, ci lascia intendere che quest’ultimo fosse già adulto. Alla fine, ho deciso di mescolare le due cose, tenendo un Loki ancora bambino, ma in grado di comprendere e di ricordare, nel quale già la perspicacia e intelligenza dello sguardo possono spingere Odino a volerlo con sé.
Sebbene un po’ mi disturbi chiamarli “fratelli” quando vedevo più Thor come fratello di Loki, in fondo nella mitologia essi sono legati da un patto di sangue, quindi spero che la cosa non risulti troppo strana…
Con questo, non mi pare di avere altre precisazioni da fare.
Sempre nella solita speranza che sia apprezzato, s’invita a dare qualsiasi parere.
Grazie!

~Notthyrr

  
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