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Autore: Leonhard    16/04/2013    5 recensioni
...e poi avrebbero sicuramente giocato a quel gioco stupido che si era inventato Tsuyoshi: "Pensieri, opere, parole, omissioni". Abbreviato, fa popo. un gioco veramente della popo. Ahahah...non aveva mai avuto uno spiccato senso dell'umorismo: neanche lui rideva...bah...
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Aya Sugita/Alissa, Sana Kurata/Rossana Smith, Tsuyoshi Sasaki/Terence | Coppie: Sana/Akito
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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E NON RISPARMIO NEMMENO ROSSANA! SALVE A TUTTI E BENVENUTI NELLA MIA PRIMA (E BREVE) FANFIC SU QUESTO TEMA. HO LETTO QUESTO FUMETTO QUANDO ERO RAGAZZO E STASERA, A LEZIONE (PERCHE’ IO VADO ALL’UNIVERSITA’ PER SCRIVERE FANFIC :P), HO DECISO DI INSERIRE I NOSTRI ETERNI INNAMORATI IN UNA SITUAZIONE UN PO’ PARTICOLARE. MI AUGURO CHE LA STORIA PIACCIA E SE AVETE DELLE OSSERVAZIONI E DELLE CRITICHE SENTITEVI LIBERI DI FARMELE (SENZA OVVIAMENTE ESAGERARE, PERO’ J). UNA BUONA LETTURA A TUTTI.
Leonhard
 
1.
 
 
 
Era sotto casa di Akito già da un po’, quando la luce dietro la finestra si spense. Guardò l’orologio (lo stesso che gli aveva prestato, tra l’altro) e si rese conto dell’ora. Spaziava, Sana Kurata, ma del resto era una cosa normale per lei distaccarsi dalla realtà per andare nel suo mondo privato, a correre beata nel gigantormico prato del suo infantile angolo di mente in cui tutto andava bene e tutti, specialmente lei, erano felici e contenti. Quel mondo era con lei a dodici anni, a quindici e quindi perché non poteva essere con lei anche a ventitre?
 
Forse perché all’università non è proprio etico mettersi a ballare e cantare sui banchi con il suo stupido microfono karaoke. Il suo progetto di incontrare persone infelici era miseramente andato in fumo quella volta che aveva incontrato un suo ammiratore, depresso perché avrebbe voluto passare una notte insieme alla sua eroina. Akito, ovviamente, l’aveva scoperto e lo aveva intimato di smettere di chiamare la sua ragazza…beh, a modo suo, tatuandogli sul volto ciò che gli aveva detto con un pugno da maestro karateka.
 
Se pensava intensamente al più grande rimpianto della sua vita, poteva sentire nuovamente la sua voce urlargli menzogne terribili, come “non ce la faccio più”, “con te non mi sento amata”, “passi sempre alle mani” e poi la chicca: il famigerato “non può funzionare tra noi”. Akito non aveva cambiato espressione, ma lei sapeva leggerlo e aveva visto il suo cuore, fragile e appena cicatrizzato di una ferita che non sarebbe mai guarita veramente, andare irrimediabilmente in mille pezzi. Un gelido “ok” e si era voltato.
 
Dal giorno dopo, lei aveva preso ad andare sotto casa sua e, quando si era trasferito per l’università, lei lo aveva seguito, si era segnata il nuovo indirizzo e continuava ad andare sotto la sua finestra. Si sedeva su una delle panchine del parco proprio davanti all’appartamento e non distoglieva lo sguardo da quella finestra.
 
Non era una stalker e nemmeno una maniaca o una molestatrice: era solo una giovane donna, allegra e solare, ma sola ed innamorata di una chimera, un ragazzo che, molto probabilmente, non ne voleva sapere più nulla di lei.
 
E aveva ragione.
 
Non lo meritava. Era scontroso, freddo e pacato a livelli insopportabili, ma con lui si era sentita amata. Quel cuore l’aveva fatto guarire lei. E lui l’aveva ricambiata salvandola e standole accanto un sacco di volte, indipendentemente da come lo trattasse lei.
 
Lo aveva chiamato il giorno dopo, con l’intenzione di invitarlo a mangiare il sushi e di non preoccuparsi del conto perché,per scusarsi, avrebbe offerto lei. Davanti al sushi non capiva più niente. Si ricordava una volta che, come gioco erotico, si era fatta trovare nuda e coperta nei punti “strategici” con pezzi di sushi: finì che lui si mangiò tutto e poi si addormentò soddisfatto per la mangiata.
 
Quella volta non ci furono risate, chiacchiere né tantomeno giochi erotici. La voce di Akito, gelida come non l’aveva mai sentita, le aveva ricordato cosa gli aveva urlato il giorno prima, chiedendole se cortesemente poteva smettere di contattarlo, dato che era una vera e propria seccatura per lui. Alla telefonata successiva non rispose lui, ma una pacata e professionale voce registrata che le diceva che il suo numero era stato messo tra gli indesiderati. L’ultima volta che l’aveva visto fu quando lo pedinò fino alla sua casa nuova. Da quel giorno era passato quasi un anno.
 
(Meno male che andiamo a due università diverse) pensò. (Se dovessimo condividere anche i banchi di scuola, non ce la farei). Si alzò lentamente: il freddo di novembre le aveva indebolito le gambe. si sistemò la borsetta sulla spalla e guardò un altro volta la finestra di Akito.
 
“Buonanotte, Akito. Ti amo più di me stessa. E scusami” disse. La stessa frase di congedo, una frase che non avrebbe mai ricevuto e a cui non avrebbe mai risposto. La ripeteva ogni sera, come un mantra, come se in qualche modo potesse lavare via ciò che era successo e lei potesse tornare tra quelle braccia elisi ma forti che tanto amava, un’improbabile formula magica che facesse tornare tutto a posto.
 
Stesso principiò del Bibidi Bobidi Bù. Solo che questa non funzionava.
 
O forse sì?
 
Boh…
 
 
 
Tsuyoshi la chiamò nel mezzo dello studio. Aveva sempre peccato di concentrazione, ma da quando aveva lasciato il mondo dello spettacolo aveva dovuto rimboccarsi le maniche ed iscriversi all’università. Studiare le era difficoltoso, ma in qualche modo riusciva ad avere dei voti abbastanza alti. Lanciò la matita in un attimo di frustrazione e rispose al telefono, sapendo che la chiacchierata le avrebbe cancellato quel poco che era riuscita a tenere in testa.
 
“Ciao Sana”. La voce dell’amico la fece stare bene, la proiettò nella ragazzina quindicenne di qualche anno e molta sofferenza fa.
 
“Tsuyoshi! Quanto tempo! Come stai?” chiese. La sua voce era gioiosa, era palesemente felice di sentirla.
 
“Tutto bene. Ascolta, io ed Aya volevamo andare a mangiare fuori: ci verresti?”. Lì per lì non pensò a ciò che quasi sicuramente sarebbe successo, né a chi ci sarebbe stato: accettò su due piedi, rendendosi conto della probabile presenza di Akito solo quando fu sulla porta, per andare al suo solito appuntamento con la finestra chiusa.
 
Avviandosi, prese di tasca l’i-Phone e guardò il suo profilo Facebook. Con le dita che tremavano, digitò Akito Hayama. Buffo, pensò, non so nemmeno se ha un profilo. Il cuore le fece un tuffo quando lo vide. La foto era lo stemma di un dojo e la copertina del diario un vassoio riccamente imbandito di sushi di vario genere, ma sapeva che il profilo era il suo.
 
“Ciao Akito” mormorò, sedendosi alla solita panchina.
 
“Ciao” rispose una voce gelida, dietro di lei. Sapeva di chi era, non c’era nemmeno bisogno di voltarsi. E non lo fece. Rimase immobile, mentre sentiva quello sgradevole formicolio passarle per tutto il corpo per andare ad arrossarle il volto. Non sentì muoversi dietro di lei, segno che nemmeno Akito si era mosso.
 
Seguì un silenzio atterrito, in cui percepì l’astio ed il gelo che il ragazzo le inviava. Dio, ti prego: fa che io mi svegli.
 
“Visiti il mio profilo Facebook…” disse. Gelo puro. “Vieni tutte le sere a sederti qua sotto…parli da sola come se io fossi accanto a te…credevo di essere stato chiaro qualche tempo fa”.
 
“Lo sei stato” rispose lei. Il suo corpo era elettrico, il calore sul volto quasi insopportabile e le mani stringevano convulsamente il cappotto. Le dava le spalle. Era seduto sulla panchina dietro di lei e le dava le spalle: non sentiva il suo sguardo addosso.
 
“Evidentemente non abbastanza”. Non c’era rabbia, odio o che altro nella sua voce. Per lui, probabilmente quella era solo una seccatura. Aveva superato la cosa. Lei no, lei non ce l’aveva fatta. “Ho pensato che tu avessi qualcosa da dirmi e allora sono sceso”.
 
“Non ti devo dire niente” rispose lei, di getto. “Ho già detto tutto quella volta”. (Che sto facendo?). “Non credo ci sia più nulla da aggiungere: mi hai detto che non mi volevi più, no?”. (Qualcuno mi fermi!).
 
“Infatti” replicò lui, freddo. “Allora posso sapere cosa devo dire alla polizia?”. A quella domanda, lei si girò. L’idea originale era di darli un ceffone (ma di quelli belli forti) e correre via, ma ogni intenzione svanì come cenere al vento. Akito si era fatto più alto e robusto, i capelli biondi si erano allungati e li teneva legati con un piccolo codino dietro la testa. Le labbra erano socchiuse e tra i denti fumava una sigaretta. Vestiva con un cappotto grigio ed una sciarpa nera, che svolazzava leggermente al vento freddo.
 
Gli occhi non erano cambiati: sempre profondi, ambrati, in quel momento duri e gelidi. Sana rimase senza fiato, mentre sentiva il suo corpo sciogliersi alla vista di quel giovane così bello, ma anche così minaccioso. Quella vista la fece sentire infinitamente triste ma allo stesso tempo anche in grado di toccare il cielo con un dito.
 
Demonio? Ma quale demonio? Forse da bambino, ma quello che lei aveva davanti era un angelo!
 
(Oh-mio-Dio) pensò, scandendo bene per far risuonare nella testa quanto fosse stata idiota tempo prima. Abbassò lo sguardo, vergognosa.
 
“Scusami, Akito” mormorò. “Non verrò più, non ti farò più la posta sotto casa”. Tremava. Per il freddo, la paura, l’umiliazione, la vergogna, il rimorso, per tutto. Lui tirò una boccata dalla sigaretta e la soffiò lentamente. Il fumo si confuse con la condensa del fiato, ma quell’atto solleticò qualcosa in lei. Lo voleva.
 
“Non hai risposto alla mia domanda” replicò lui, indifferente alle sue scuse. “Mi dovevi dire qualcosa? Perché onestamente non vedo altro motivo per cui venire qui tutte le sere a rischiare un malanno”. Lei scosse nuovamente la testa, ma questa volta di morse la lingua. Akito volse finalmente gli occhi e la guardò.
 
Sana aveva voglia di svenire. Era lì, davanti a lei, che la guardava: con un po’ di fantasia poteva dire che la stava guardando con la stessa espressione con cui l’aveva sempre guardata. Tentò di leggere quegli occhi, ma non ci riuscì: Akito la teneva fuori dalla sua mente, mentre lei doveva essere ovviamente un libro aperto per lui.
 
“Voglio…fare…karate” mormorò, senza rendersene nemmeno conto. Akito la guardò e tirò nuovamente dalla sigaretta.
 
“Sei libera di fare quello che vuoi” replicò. “Ti posso consigliare un buon dojo dalle parti dell’Università di Tokyo”. Lei rimase interdetta. Perché in realtà si era sentita, sapeva cosa aveva detto.
 
“…cosa…?” chiese. Lui la guardò con occhi gelidi. Steccò via la sigaretta, che venne trasportata in mezzo alla strada dal vento e si alzò.
 
“Che ti aspettavi, che ti avrei detto di venire da me?” chiese, gelido. “O che ti avrei invitato a salire? A giudicare dalla tua faccia, vorresti che tutto tornasse come prima, sbaglio? Spiacente, Kurata. Ne ho piene le tasche del tuo comportamento; non so se è cambiato, se sei più matura o cosa, ma onestamente non mi interessa nemmeno saperlo. Hai voluto tu questa situazione: hai solo quello che ti sei costruita”.
 
“Ma io…” tentò lei, in un pallido tentativo di spiegare, interrotto come se nulla fosse dal ragazzo.
 
“Ma tu cosa? Pensavi che bastasse invitarmi a mangiare il sushi per cancellare il fatto che secondo te non poteva funzionare tra noi? Come stai adesso, Kurata? Come te la passi senza di me?”. La oltrepassò e, senza dire una parola, rientrò in casa, chiudendo la porta dietro di sé. L’ultima cosa che Sana sentì fu lo scatto della chiave che chiudeva la casa di Akito, poi fu il suono del vento nelle orecchie e le frustate di freddo in faccia, mentre correva a casa, con il volto rigato dalle lacrime.
 
Almeno aveva retto bene e non aveva pianto davanti a lui.
   
 
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