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Autore: lalla    16/04/2013    2 recensioni
Mi sono ispirata a una delle più belle leggende cristiane. In un bosco nei pressi di Gubbio una Bestia che la gente chiama mostro e un Uomo che la gente chiama matto si incontrano e...
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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IL LUPO

 

 

…Se viene la sera

Compagno non avrai

Da solo farai la tua strada

Sarà solo allora che da te verrà il lupo

Verrà per portarti paura.

Se non lo fuggirai

Fratello ti sarà…

(Angelo Branduardi)

 

1

 

Gli occhi che lo guardavano non senza fierezza  erano asciutti semplicemente perché le sue lacrime doveva averle piante tutte, fino all’ultima goccia. Lui era ancora in grado di distinguere un tessuto di qualità e una veste ben tagliate e cucita, malgrado i pochi anni trascorsi tra la vecchia vita e la nuova sembrassero ormai secoli, e gli abiti di monna Caterina degli Ubaldeschi spiegavano quanto le parole della donna non avrebbero voluto od osato rivelare. Per superbia,  orgoglio, vanagloria. Il taglio era  elegante ma sorpassato, le gale e gli ornamenti avevano conosciuto giorni migliori, e la tonalità di verde, che doveva essere stato squillante chissà quanto tempo prima, non si addiceva al lutto recente e terribile che l’aveva appena colpita. Ma evidentemente il denaro che le sarebbero costate le gramaglie  andava speso per necessità improcrastinabili. Piccola aristocrazia di sangue e di spada, non molto meno poveri dei loro bifolchi: non contavano più nulla. Vanitas vanitatum et omnia vanitas.

 

Il Matto. Era così che lo chiamavano, dentro e fuori i contrafforti della città natale. Aveva gettato al vento una vita di agi per rincorrere un sogno che poteva portarlo dritto allo Spedale dei Pazzi, dove avrebbe finito i suoi giorni incatenato come una bestia, o addirittura tra le fiamme del rogo, al pari degli eretici in terra di Provenza. Eppure  il soffio della follia non pareva aver spento il lume della ragione  in fondo agli occhi dell’uomo, che avevano il colore delle foglie morte, ed erano dolci, e parlavano di speranza. Nonostante tutto.  Iddio è misericordioso, e la Morte corporale è nostra sorella. La misericordia di Dio è infinita, e Duccio riposa in pace, nel seno di Abramo. Monna Caterina avrebbe voluto urlare, come quando Federigo Spadalonga, signore della città, le aveva detto che non avrebbe mandato gli armigeri nel bosco a stanare e a uccidere la belva. Era stato il figlio di Messer Pietro, il mercante di stoffe, a chiedergli di non farlo. E lui aveva dato ascolto allo straccione che perfino suo padre aveva rinnegato  e che la gente chiamava il Matto. Dentro e fuori i contrafforti della sua città natale, in ogni contrada dell’Umbria, fosse pure la più sperduta. Francesco, di Pietro da Bernardone. Che tu possa essere per sempre maledetto, frate.

 

Non erano passati molti anni da quando, incontrandola, l’avrebbe guardata con occhi diversi. Era ancora in grado di riconoscere la bellezza di una donna, e bella lo era, Monna Caterina: esile e alta, il viso bianco tra i capelli neri screziati d’argento, gli occhi scuri e inquieti, fieri e disperati. Bella non lo sarebbe stata più, tra non molto, consumata  da anni di vita difficile accanto all’ uomo brutale e prepotente a cui i suoi genitori l’avevano concessa in sposa tanto, troppo tempo prima. Il tempo di mettere al mondo quattro figlie femmine che Brando Ubaldeschi aveva accolto senza degnarsi di dissimulare tutto il suo disprezzo. Poi, a quattordici anni dall’ultima nata, era venuto al mondo l’erede. Duccio Ubaldeschi. Colui che sarebbe stato barone e cavaliere, avrebbe riscattato l’onore del suo blasone combattendo contro gli Infedeli in terra d’Oriente  per liberare il Sepolcro di Cristo…E che un taglialegna aveva trovato morto nei boschi della Pietralunga,  a dodici anni appena fatti.

 

2

 

Nella verità che al nobile Federigo Spadalonga era stata raccontata  di vero doveva esserci ben poco. Quando la tramontana spazzava i campi con le sue folate gelide, dicevano quelli del contado tremando per la paura,  la bestia usciva dal bosco, e raspava le porte dei tuguri sperando, nella sua intelligenza animale e diabolica, che qualcuno alzasse il catenaccio  per entrare, strangolare e divorare tutti quanti, come aveva fatto con il giovane Ubaldeschi. Non era nemmeno necessario essere cacciatori e conoscere le bestie del bosco come le conosceva  lui, per distinguere il vero dalle fole, anche se la paura, la superstizione e l’ignoranza spesso ottenebrano la mente delle persone, facendoti credere verità ciò che verità non può essere, vagliandola al lume della logica che  è virtù sublime e mai sbaglia, come insegnano i saggi.  E di certo solo gli stolti potevano provare i brividi della febbre, mentre ascoltava Cecco di mastro Giovanni della Pietralunga sciorinare la storia per l’ennesima volta. Il ragazzo giaceva ai piedi della Quercia Vecchia in una pozza di sangue e la bestia gli stava sopra. Era come se sapesse che sovente Duccio Ubaldeschi si recava da quelle parti  per esercitarsi con la sua piccola balestra e addestrare il falcone. Giovane com’era, godeva già fama d’abile cacciatore, e suo padre andava fiero di lui. Il mio cucciolo di lince, lo chiamava così. Era come se sapesse, la bestia, e lo aveva aspettato al varco. Dopo averlo ucciso, l’avrebbe divorato e sua madre non avrebbe avuto una tomba su cui piangerlo e pregare. Non fosse stato per lui.  Gli ho lanciato contro  la roncola e quello è scappato a nascondersi nel folto, gridando come un diavolo dell’inferno. Devo averlo preso, zoppicava il maledetto…

Favole  da vecchie balie, buone alla peggio per spaventare un bambino capriccioso. O buone per quell’idiota di Cecco il legnaiolo che, facendo scappare la maledetta bestiaccia, era riuscito a racimolare qualche scudo di rame con cui riempire la pancia alla moglie e ai figlioli un paio di giorni e a guadagnarsi presso i suoi consimili  la fama immeritata dell’eroe. Quante volte l’aveva detta e ridetta, quella sua storia assurda, alla bettola dello Zoppo, dinanzi a quattro idioti e una caraffa di vino rancido?

 

In realtà, era qualcun altro a raccontare storie da brividi veri  alla bettola dello Zoppo e questo il Signore della città ben lo sapeva.  Era entrato  sulle sue gambe, e ne era uscito sorretto dai suoi scherani, ubriaco fradicio, il figliolo di ser Jacopo Buonfante. Il vino, buono o cattivo, ti fa dire anche quello che non vorresti, si sa. A diciannove anni, Lupo Buonfante si portava appresso un personale allampanato, una faccia di gesso macchiata dalle lentiggini, una  capigliatura color paglierino e un’indole rissosa che rendeva onore al nome impostogli dalla bonanima di suo padre. Quel padre che, alcuni anni prima, Brando Ubaldeschi aveva ammazzato in duello. Non era mai corso buon sangue, tra i Buonfante e gli Ubaldeschi, nobili spiantati, ricchi soltanto  della loro boria. Vanitas vanitatum et omnia vanitas.

 

Il Matto continuava a guardarlo con i suoi occhi color delle foglie morte. Indossava un vecchio saio scolorito, stretto ai fianchi da una corda logora, aveva la barba incolta come un accattone e la testa rasata come un penitente. Era di complessione gracile e bassa statura. Giovane. Brutto, con quella faccia scavata, imbrattata di pelo e fuliggine. Eppure, in quella brutta faccia scintillavano due occhi dolci, che non avrebbero sfigurato sul volto dipinto di un Cristo. Il Matto. E già. Chi, se non un folle, getterebbe al vento una vita di agi e di ricchezza per campare come un mendicante? 

 

Federigo Spadalonga si accarezzò pensieroso il mento barbuto. Lupo Buonfante. Lo avevano sentito sproloquiare in parecchi, ubriaco fino alle ossa, la sera che il cadavere insanguinato del giovane Ubaldeschi era stato riportato dal bosco al fatiscente palazzo di famiglia. “Soffrirà, il maledetto. Soffrirà più di quanto  abbia sofferto io,  perché un figlio si rassegna alla morte del padre, ma un padre a quella del figlio non si rassegnerà mai… E poi quella vecchia strega  non ha più l’età per partorirgli un altro maschio e lui… Lui sarà costretto a coprirsi di ridicolo e di vergogna  lasciando il nome e il titolo in eredità a qualcuno dei suoi bastardi…”  Erano stati gli stessi suoi scherani a trascinarlo via, spaventati dal peso che quelle parole potevano gettare sulla bilancia della giustizia o, più probabilmente, inorriditi essi stessi dal suo cinismo e dalle sue risate stridule e ubriache. E adesso  era come se la sentisse anche lui, l’eco di quella risata capace di mettere i brividi addosso ben più dei terrificanti e inverosimili misfatti che  i boscaioli attribuivano  alla Bestia della Pietralunga.

 

“Non permettete che lo uccidano, messere Federigo. Il lupo è innocente delle colpe che gli vengono attribuite.”

“ Probabilmente vedere la spoglia della Bestia di Pietralunga potrebbe servire a calmare qualche animo esagitato. La gente mormora, dopo l’infelice sortita di messer Buonfante alla bettola dello Zoppo, e da quella scintilla potrebbe scaturire un incendio. Non ho mai creduto neppure per un istante che possa essere stato il  lupo ad uccidere il giovane Ubaldeschi, ma… La gente chiede la testa del mostro e quello, colpevole o no che sia, è solo un animale, frate Francesco. Meglio un animale morto  senza colpa che un’interminabile catena di vendette.”

“Con la sua venuta e il suo sacrificio, Cristo  ha  bandito l’usanza degli olocausti di sangue innocente, fosse d’uomo o fosse di bestia. L’Altissimo ama tutte le sue creature, e il lupo lo è, creatura di Dio , come me. E come voi. Mi piacerebbe incontrarlo” .

 

Voleva incontrarlo. Per parlargli? Eccola, la prova tangibile della sua follia.  Non sono forse i pazzi a parlare con gli animali, con gli alberi, perfino con le cose, restando invano in attesa di una risposta? Qualcuno asseriva d’averlo sentito parlare della bontà di Dio agli uccelli del cielo e ai pesci del torrente. E adesso voleva parlare alla Bestia della Pietralunga, e non metteva in conto di poter essere  aggredito o morso  o addirittura ucciso. Portate con voi almeno un coltello, gli aveva detto; mi sentirei più tranquillo; gli uomini di Dio non possiedono armi, ma il coltello per tagliare il cibo, almeno quello, frate Francesco…Fatelo per me che vi voglio bene.

Lui gli aveva sorriso, come faceva spesso. Non mangio niente che non possa essere spezzato con le sole mani, era stata la sua risposta.

“Quando il Signore mi mostrò la Via, abbracciai senza timore un povero lebbroso. Senza timore affrontai l’ingiuria e lo scherno, quando abbandonai i miei ricchi panni cambiandoli con questi stracci. E senza timore affronto  le  brame e le lusinghe con cui il Nemico, giorno per giorno, mi tenta. Come potrei aver paura di un  vecchio lupo, se l’Altissimo mi dà il coraggio di non temere la malattia, la morte, il disprezzo, il Tentatore?”

 

Gli parlerete, come agli uccelli del cielo  e ai pesci del torrente, Francesco di Messer Pietro, voi che avete abbandonato agi e ricchezze per abbracciare la povertà assoluta, voi che, in ogni contrada dell’Umbria, la gente segna a dito dicendovi matto?  Al Signore della Città sovvenne di un suo vecchio precettore che, quando era bambino, gli raccontava le molte storie che conosceva. Una parlava di Salomone, il più saggio di tutti i sovrani. Possedeva, il grande re, un anello magico che gli consentiva di comprendere il linguaggio degli animali. Ma sulle  dita scarne  di Francesco, il Matto di Dio, non scintillavano gemme né oro.

 

   
 
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