Mi avrebbero uccisa, ne ero sicura. Conoscevo bene i miei genitori, non me l’avrebbero fatta passare liscia. Ma ormai ci ero abituata.
 
 
Pensavo a quale sarebbe stata la mia punizione. Mi avrebbero rinchiuso in casa per anni? Possibile. Mi avrebbero vietato in tutti i modi di vedere qualcuno o più che altro qualcosa, come telefono, computer e quant’altro? Ancora più probabile.
 
Passarono pochi minuti e mi accorsi che, tanto ero assorta nei miei pensieri, avevo sbagliato strada. Ci mancava solo questo! Non conoscevo niente di Los Angeles, figuriamoci se mi ci perdevo. Feci qualche passo indietro e mi ritrovai di fronte ad una villa enorme, indescrivibile. Diciamo che ci avrei vissuto volentieri. Rimasi incantata di fronte a tanta grandezza ma la suoneria del cellulare mi fece ritornare alla realtà.
Non feci nemmeno caso all’ID e accettai la chiamata.
 
‘DOVE SEII?!?’
Oh cazzo, era mia madre.
 
‘Ehm, st-sto tornando a casa (?)’
Dissi con quel tono di voce che pareva più una domanda che una risposta.
 
‘PECCATO CHE SEI IN RITARDO DI MEZZ’ORA SIGNORINA! VEDI DI SBRIGARTI, MI HAI FATTA PREOCCUPARE.’
‘Okay mam-‘
Non feci nemmeno in tempo a rispondere che sentì quel ‘tu-tu-tu’ che indicava la fine della chiamata.
Ora ero davvero nella merda, come ci tornavo a casa?! Decisi di fare al contrario tutto il percorso che avevo fatto prima. Ovviamente il mio pensiero era sempre e costantemente fisso su quello che i miei avrebbero potuto dirmi (o farmi).
Mentre camminavo mi sembrava di fare il giro in tondo, le case sembravano tutte uguali. Capì che invece non avevo sbagliato quando notai l’auto rossa del mio vicino, che stava parcheggiando nel suo cortile.
 
‘Ciao Joy’
Sentì urlare.
 
‘Oh, buongiorno signor Debny!’
Sventolai la mano in aria. Poco dopo aggiunsi ‘Buon pranzo’
 
‘Anche a te! Ma non sei in ritardo?’
Mi resi conto dell’orario e urlai un ‘Si’ mentre mi affrettavo a raggiungere la mia casa.
 
Arrivai davanti alla porta e dentro di me facevo ragionamenti stupidi o citavo grandi frasi come “Essere o non essere. Questo è il problema”. Ero fuori di me, troppo, troppo preoccupata. Mi sembravo davvero rincoglionita, e aspettai tipo dieci minuti prima di aprire la porta. Tanto che sentì urlare il signor Debny ‘Tutto bene?!’
 
‘Certamente!’, dissi mentre estrassi le chiavi dalla tasca del giubbino.
Era giunto il momento, ero pronta.
Infilai la chiave nel buco della serratura e le feci girare, si apri la porta.
Non feci nemmeno in tempo a mettere un piede dentro casa che le urla di mia madre mi indussero a fare un passo indietro.
 
‘DOVE SEI STATA?! TI RENDI CONTO CHE E’ PASSATA PIU’ DI UN’ORA DA QUANDO SEI USCITA DA SCUOLA?! NON RISPONDI NEMMENO AL CELLULARE!! QUANTE VOLTE TI AVRO’ CHIAMATA?! NOVE, DIECI VOLTE! MA NON HAI RISPOSTO. TI RENDI CONTO CHE IO MI PREOCCUPO? A QUANTO PARE NO!’
 
Aveva gli occhi fuori dalle orbite, e io volevo morire. Conoscendola non avrebbe accettato spiegazioni, per lei ogni cosa che avessi detto sarebbe una bugia, quindi sarebbe stato anche inutile cercare di controbattere.
Per non parlare di mio padre che praticamente voleva uccidermi.
 
Mi ripeterono la stessa cosa per circa una ventina di volte fino a quando non vollero ascoltare la mia versione.
Erano davvero i miei genitori quelli?, pensai.
Se avessi dovuto spiegarli cosa era successo, avrei dovuto dargli quella notizia che aveva causato il mio ‘smarrimento’.
 
 
 
E adesso, come faccio?