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Autore: La neve di aprile    17/04/2013    3 recensioni
Chiudere gli occhi non significava trovare la pace di un buio forzato, ma rivivere con metodica, precisa sofferenza ogni singolo istante che avevano condiviso assieme. I sorrisi separati solo da una scrivania e la brutta copia di un bancone, la consistenza ruvida delle sue carezze nell'incavo del collo, il rumore dei suoi respiri mentre dormiva, la gentilezza con cui le aveva scostato i capelli fradici di pioggia la fatidica sera in cui aveva attraversato ogni confine e infranto ogni regola per avventurarsi sull'insidiosissimo terreno di una felicità precaria al punto da implodere in se stessa, lasciandosi alle spalle un cimitero di speranze e possibilità infrante.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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 PROLOGO

 

Dicembre.
L'aria era fredda, frizzante nel buio della sera ormai inoltrata, e ravvivata dal groviglio di luminarie che il vento, mesi prima, aveva strapazzato in un unico un nodo impossibile di lucine dorate contro il nero fitto del cielo. Non avrebbe saputo dire se c'erano nuvole o meno, era tutto così uniforme oltre il vetro che neppure le importava in realtà: l'idea che al di là di una semplice finestra fosse tutto così lineare, metodico e banalmente ripetitivo quasi la faceva sospirare per il sollievo.
Il sospiro che sfuggì alle labbra sapientemente dipinto di rosso era, invece, dovuto ad altro.
Passare dal guardare la strada deserta e le macchine mal parcheggiate sul marciapiede al cercare, trovare e mettere a fuoco il riflesso di lui, ridente e con gli occhi accesi dopo la seconda birra era stato un attimo, l'errore fatale di una distrazione ricercata disperatamente dal momento in cui si era seduta alla tavolata gremita di gente, inventando un sorriso che non aveva voglia di sfoggiare.
Ci mise qualche attimo per ridere ad una battuta di Lara, l'istruttrice di spinning che sedeva al suo fianco, e si strinse nelle spalle con aria di scuse in risposta alla frecciatina che arrivò da parte di una signora dall'aspetto gentile che riconobbe come una delle fedelissime del Pilates. Maria, se non ricordava male, e lei non ricordava mai male. Dopo quattro mesi passati a sorridere sempre alle solite facce, più o meno anziane, più o meno sorridenti, più o meno felici, aveva imparato ad associare un nome ad ogni volto, senza mai prendersela quando qualcuno ancora si ostinava a scambiarla con Sara o una delle altre ragazze sedute dietro al bancone della reception.
Viola appoggiò la schiena contro la sedia, curvando le spalle lasciate praticamente scoperte dalle maniche leggerissime dell'abito color prugna in una linea di infelicità assoluta, sbirciando alla sua sinistra. Enrico stava ancora ridendo, e lei si soffermò ad osservare il sottile reticolo di rughe che si stringevano attorno agli occhi regalando alla sua espressione una profondità che altrimenti non gli sarebbe appartenuta. Era bello da far male, in quella maniera tutta sua che aveva di sporgere il busto in avanti, impaziente di accogliere la gioia o la tristezza, o qualsiasi altra cosa la vita gli avrebbe proposto.
« Carino il vestito, dove l'hai preso? » Sara interruppe misericordiosamente il filo dei suoi pensieri risparmiandole il dolore di un arenamento improvviso su una riva che si era ripromessa di non rivisitare più.
« Zara » rispose pronta, allungando una mano verso il bicchiere colmo di coca-cola « praticamente mi è costato metà dello stipendio, ma era una vita che cercavo qualcosa di questo colore. »
« Ti sta molto bene, in effetti » intervenne Paola, la responsabile della palestra, scoccandole un'occhiata che sembrava volerla indagare molto più a fondo, a scovare le origini della sua distrazione.
« Grazie! » chiosò invece Viola, distogliendo lo sguardo per sbirciare oltre la fila infinita di teste illuminate dai bagliori intermittenti di un festone di lucine dai colori inguardabili, guardando i camerieri correre su e giù, affrettarsi con una quantità impossibile di piatti per braccio, riempire l'aria del profumo invitante delle pizze appena sfornate. C'era quell'aria festosa tipica delle grandi rimpatriate, la stanza satura del brusio delle infinite conversazioni che s'intrecciavano tra loro senza che vi fosse nessuno a dirigerne le direzioni; e il grande albero di Natale ammassato nell'angolo più remoto della stanza era lo sfondo perfetto per una serata in compagnia mentre fuori il freddo era talmente intenso da mozzare il fiato in gola.
Rimuginarci sopra non aveva scopo, si rimproverò silenziosamente. Sapeva esattamente come sarebbe andata la serata, ed Enrico – a giudicare dall'occhiata colpevole che le aveva rifilato appena aveva varcato la soglia della pizzeria con un ritardo assolutamente indecente, tanto per essere sicura di arrivare dopo di lui che quanto a ritardi non scherzava affatto e farsi ammirare in perfetto, precario equilibrio su dodici centrimetri di tacco nero, lucido, indossati nella piena consapevolezza che sarebbero stati assolutamente fuori luogo – era dello stesso avviso. Era stato quello che era stato, niente di più e niente di meno, e in barba a tutte le richieste di parlare e chiarire, la verità era che non c'era nulla di cui parlare e ancor meno da chiarire.
La presenza di Giulia, biondissima e impeccabile come sempre, al suo fianco era l'ennesima riprova di quanto cristallina fosse in realtà la situazione: era andata a letto con un uomo impegnato, che si era ben guardato dallo svelarle un dettaglio tanto fondamentale, dimostrando come fosse possibile che in un corpo di trentenne si nascondesse la maturità emotiva di un quindicenne. Punto. Non c'era bisogno di chiarire nulla.
E allora perché quella fitta allo sterno la costringeva a lottare contro l'impulso di rannicchiarsi su se stessa, premere la fronte contro le ginocchia e piangere tutte le lacrime che ancora non aveva pianto? Perché solo ad incrociare il suo sguardo sentiva qualcosa sciogliersi dentro di sé, e il calore era così dolce che si sarebbe lasciata bruciare viva piuttosto che privarsene? Chiudere gli occhi non significava trovare la pace di un buio forzato, ma rivivere con metodica, precisa sofferenza ogni singolo istante che avevano condiviso assieme. I sorrisi separati solo da una scrivania e la brutta copia di un bancone, la consistenza ruvida delle sue carezze nell'incavo del collo, il rumore dei suoi respiri mentre dormiva, la gentilezza con cui le aveva scostato i capelli fradici di pioggia la fatidica sera in cui aveva attraversato ogni confine e infranto ogni regola per avventurarsi sull'insidiosissimo terreno di una felicità precaria al punto da implodere in se stessa, lasciandosi alle spalle un cimitero di speranze e possibilità infrante.
No, s'impose Viola con fermezza, non avrebbe permesso a se stessa di ripensarci, né tantomeno di sentirsi colpevole e triste. Raddrizzò la schiena e fulminò Enrico con un'occhiata di fuoco in cui sperò di riuscire a concentrare ogni singolo brandello di disprezzo le fosse rimasto in corpo. Fu una fortuna che, un attimo più tardi, un cameriere solerte attirasse la sua attenzione mettendole sotto il naso una margherita ancora fumante. Perché se avesse indugiato solo una frazione di secondo in più avrebbe avuto modo di vedere il volto di Enrico incupirsi di un dolore che non avrebbe tardato a riconoscere, perché identico a quello con cui lei stessa conviveva e faceva i conti da settimane.

 



 


Credo sia giusto dirvelo, non sono una persona costante negli aggiornamenti.
Tanto più che il tempo a mia disposizione da dedicare alla stesura di questa trama già delineata è quel che è; la pubblicazione di fatto è un tentativo di stimolo nei miei confronti per darmi una mossa e portare a casa il racconto.
Se nonostante queste tristi promesse deciderete di rimanere su questa barca, non posso fare a meno di augurarvi una buona lettura. E ringraziarvi di cuore.
Chiara

 

   
 
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