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Autore: Blackbird_    17/04/2013    4 recensioni
1544, ultimi anni del regno di Carlo I di Spagna. Don Juan Tenorio si trova nel bel mezzo della sfida contro Don Luis Mejia: chi sarà in grado di conquistare più donne e di uccidere più uomini sarà il vincitore.
Doña Celeste è una giovane nobile innocente e smaliziata, che non crede nell’amore ma odia l’idea di doversi sposare con un uomo scelto dai propri genitori. È proprio lei la nuova vittima scelta da Don Juan che utilizzerà la sua infallibile tecnica di corteggiamento.
"Quanti giorni impieghi in ogni donna che ami?" "Uno per farla innamorare, uno per averla, un altro per abbandonarla, due per sostituirla e un'ora per dimenticarla"
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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"¿Cuàntos dìas empleàis en cada mujer que amàis?"

"Uno para enamorarlas, Otro para conseguirlas, otro para abandonarlas, dos para sostituirlas y una hora para olvidarlas"*




Non avevo mai considerato l'idea di innamorarmi, figurarsi quella dell'innamorarmi per via di un colpo di fulmine. In realtà credo di non aver mai creduto nell'amore. Non so, sarà colpa dei tempi che corrono. L'amore non è mai stato un sentimento contemplato nella mia crescita, nella mia educazione. I miei genitori e i miei insegnanti non hanno mai considerato questo aspetto della vita, non me ne hanno mai nemmeno parlato. Per loro l'amore non esiste, esiste solamente il dovere di sposarsi per poter portare avanti il nome della famiglia. Se poi ci si sposa con qualcuno di ricco, proveniente da una famiglia importante, bè... anche meglio. Fortunatamente, però, trascorro la maggior parte del mio tempo in compagnia di Letitia. Sebbene sia una ragazza senza cultura e sebbene il suo compito sia solo quello di tenermi compagnia e di esaudire ogni mia richiesta, è davvero un'ottima amica. E' stata lei la prima a farmi avvicinare alle letture d'amore. Fiabe, leggende, storie di principi e di principesse. E' da lì che ho imparato cosa sia l'amore. Immaginazione e fantasia. Io, almeno l'ho sempre vista così. Letitia invece è una sognatrice, pensa che quelle storie siano vere e che un giorno, chissà quando, anche lei troverà il vero amore e vivranno per sempre felici e contenti. Bah, bazzecole.
E' da qualche giorno che non riesco a smettere di considerare, di riconsiderare, la mia prospettiva. Dopo nemmeno una settimana dal nostro incontro, perché continuo a pensare a lui? Sorrido al solo pensiero, dopo un attimo mi rattristo. Ripenso al suo strano comportamento; ripenso alla dolcezza infinita delle prime cose che mi diceva, alla freddezza delle parole di quando è andato via. Lo detesto per ciò che ha fatto, detesto me stessa per averglielo concesso. Vorrei averlo qui con me in ogni istante. Vorrei non averlo mai conosciuto. All'idea di quei suoi meravigliosi occhi penetranti non posso fare a meno di sospirare. Sospirare e sperare che torni qui da me, presto. Magari che mi salvi dalla mia triste realtà come fanno i principi con le principesse delle storie che leggo ogni sera. Forse sono semplicemente tanto, troppo confusa. Forse la realtà è che nemmeno io capisco ciò che voglio e ciò che non voglio. I miei pensieri sono offuscati e non riesco a pensare lucidamente.
E' questo essere innamorati? E' questo l'amore? Tutti quei libri non riescono a darmi una risposta, ed io sono qui a struggermi per averne una. Il tempo passa ma non mi da consiglio.
Celeste.



Era una domenica come tante. Ero ancora in stanza intenta ad indossare il mio abito quando mia madre entrò, senza troppi convenevoli. "E' arrivato Padre Filiberto, Celeste. Stiamo aspettando tutti te per iniziare la messa" disse, in tono pacato. Come ogni settimana il prete della contea raggiungeva il nostro palazzo per poter celebrare i rituali sacri nella nostra cappella privata. Eravamo troppo ricchi per poter raggiungere la Chiesetta del paese, a detta dei miei genitori. Ed io ero troppo ribelle per poter dar loro ascolto. "No, madre, oggi non credo verrò alla celebrazione" risposi, trattenendo il respiro. Letitia era intenta a stringermi il corsetto e, scioccata dalla mia affermazione, aveva stretto più del necessario. Il volto di mia madre non nascose affatto la sua improvvisa collera. "Spero tu stia farneticando, Celeste! Non si può saltare la messa, cosa dirà la gente, poi?". Stava cercando in tutti i modi di tornare alla sua iniziale pacatezza, ma senza alcun risultato. "Ma no, madre. Io intendevo dire che oggi vorrei andare alla chiesa di paese, se possibile. Avrei davvero una gran voglia di uscire" conclusi. La sua respirazione tornò lentamente regolare. Per lei era davvero una grande sofferenza dare una risposta ad una simile richiesta. Ma era domenica, stava per andare a messa: non poteva peccare di ira proprio quella mattinata. "Essia" replicò.  Diede uno schiaffo alle mani di Letitia, che ancora era occupata a stringere i nastri. "Dovete uscire, datti una mossa con quel vestito. E stringi di più". Le sorrisi debolmente, e lasciò la stanza.
Era una splendida giornata di marzo. Il sole era alto e timidamente riscaldava ed illuminava ogni angolo. Il mio umore, generalmente collegato al meteo, quella mattina era ottimo: ero terribilmente euforica ed allegra. Urlandomi contro Letitia mi raggiunse e mi porse la mia mantella rossa. Nonostante non ne sentissi la necessità, la indossai comunque. Se i miei genitori avessero saputo che ero andata a zonzo per il paese senza quella addosso probabilmente mi avrebbero rinchiusa in un monastero di clausura. La mia dama da compagnia mi prese sottobraccio e insieme ci dirigemmo verso l'agglomerato di umili casette a poca distanza dal palazzo. Letitia era una grande amica, aveva esattamente la mia età e vivevamo insieme praticamente da sempre. Lungo la strada non poté fare a meno di commentare divertita la reazione di poco prima di mia madre; anche io trovavo la cosa terribilmente spassosa, e ne parlammo per tutto il viaggio, ridendo.
Arrivammo in pochi minuti in paese. Le campane suonavano e uno sciamare di gente accorreva verso la grande porta di legno della chiesa. “Sai, Leti, ho una gran voglia di non entrare. La giornata è così bella che sembra quasi uno spreco rinchiudersi in un posto tanto tetro” ammisi, rabbuiandomi. “La messa, qui in paese, dura molto meno di quella nella vostra cappella. Usciremo in fretta e poi potremmo farci una bella passeggiata all’aria aperta, non temete” mi rispose la mia amica, stringendo il mio braccio. Mi convinse. Entrammo e ci sistemammo nelle panche vicino all’ingresso, lontane dall’altare. Appena il parroco ci vide dalla sacrestia, però, ci raggiunse e ci invitò a sederci nelle prime file, insieme alle persone più agiate. Prete guastafeste. Il suono di una campana annunciò l’inizio della celebrazione, tutti si alzarono in piedi ed iniziarono a recitare le solite preghiere in latino. Fingendo di ripetere anch’io quelle parole per me senza senso mi guardai intorno. La netta separazione di classe mi infastidiva. Le prime file erano unicamente occupate da persone perbene, di famiglia agiata. Erano tutti agghindati, ricoperti di stoffe pregiate dai colori sfavillanti. Assurdo pensare che io, lì in mezzo, fossi la figlia del signore di quella città e che fossi, quindi, la più ricca lì dentro. Il mio abbigliamento non ostentava affatto il livello sociale elevato nel quale mi trovavo a vivere. Tutti recitavano svogliatamente i testi sacri, come fossero obbligati a trovarsi lì. Nelle retrovie delle navate, invece, famiglie e famiglie contadine ripetevano le preghiere ad occhi chiusi, credendo infinitamente nelle parole da loro pronunciate. Giovani, anziani, uomini, donne, bambini. Erano tutti lì riuniti per santificare la loro unica giornata di riposo, per ringraziare di essere sopravvissuti ad un’altra settimana su questo mondo. Mordendomi il labbro inferiore me ne tornai a fissare il parroco, ascoltando le sue parole senza troppa attenzione.
All’udire le ultime note dell’ultimo canto fuggii velocemente da quel posto. Letitia conosceva molto bene il paese, e mi condusse in un immenso campo fiorito a pochi passi dalla chiesa. Era un vero splendore. Ci sedemmo entrambe sull’erba fresca. “Quanto sarebbe bello avere anche un bel libro da leggere, non credi?” domandai alla mia compagna. Quella arrossì e infilò le mani nella tasca del grembiule. “Bè, io ne ho portato uno con me. Lo sapete che non me ne separo mai” disse, mostrandomi il libro che aveva appena tirato fuori. Lancillotto e Ginevra. La copertina d’un blu splendente era parecchio rovinata, mostrando quanto Letitia lo amasse e lo leggesse ogni giorno. “Ormai lo sapete a memoria anche voi, Celeste. Ma se avete voglia di leggerlo fate pure”. Me lo porse. Avevo davvero una gran voglia di leggere qualcosa, ma non mi piaceva l’idea di toglierle il suo passatempo preferito. Ero titubante e lo notò. “Io pensavo di andare a raccogliere qualche fiore da portare in casa per decorare un po’ la vostra stanza, se voi siete d’accordo. Questo quindi per ora non mi serve” continuò, sorridente. Ringraziandola accettai la sua offerta e mi immersi nella lettura non appena si fu alzata per raccogliere le margherite del prato.
Amori proibiti, tradimenti, cavalieri, draghi e principesse. Quell’esemplare unico di letteratura cavalleresca attirò tutta la mia attenzione, sebbene già conoscessi gli intricati intrecci della trama. Mi concentrai sulle parole utilizzate, sull’esito che esse avevano nella mia mente, sulle emozioni che mi provocavano. Avrei trovato anch’io l’amore? Magari su un prato verde, con i fiori tutt’attorno? Sorrisi al mio stupido pensiero e continuai a leggere. L’amore non esiste, continuavo a ripetere fra me e me, mentre le parole che scorrevano sotto il mio sguardo affermavano l’esatto contrario.
“Un bel fiore in questo meraviglioso prato fiorito” pronunciò una voce d’uomo, giovane ma profonda. Alzai lo sguardo per vedere chi fosse stato a rivolgermi parola. Ero talmente concentrata nelle parole del libro da non essermi nemmeno minimamente accorta dell’arrivo di quello sconosciuto. Mi alzai in piedi per trovarmi al suo stesso livello, nonostante fosse notevolmente più alto di me. “Voi chi siete, di grazia?” replicai acidamente, mentre studiavo ogni suo dettaglio. Era un ragazzo di un’età indefinita, probabilmente intorno ai venticinque. Il suo viso chiaro, incupito da un leggero filo di barba, era incorniciato da una bizzarra acconciatura. L’unico dettaglio a renderlo luminoso era lo sguardo: due enormi occhi verdi mi fissavano con curiosità, mettendomi in soggezione. Aveva risposto alla mia domanda ma, incantata com’ero a fissarlo, avevo momentaneamente smesso di ascoltare. “Come?” “Don Juan Tenorio, mademoiselle” ripeté in un inchino. Il suo buffo accento francese mi fece ridere. “Con quale incantevole fiore ho invece io l’onore di parlare?” domandò, prendendomi una mano senza crearsi troppi problemi. Interdetta dall’eccessiva spavalderia del tipo, mi allontanai immediatamente da lui e, con un grido, chiamai Letitia. Evidentemente nemmeno lei si era accorta dell’arrivo di quel ragazzo, perché la sua espressione cambiò improvvisamente e in un attimo mi raggiunse. “E’ ora di andare a casa, Letitia” ordinai, indispettita. Non era mia intenzione trattarla in malo modo, ma quell’uomo mi agitava, anche solo con lo sguardo. “Certo, Celeste” rispose lei, raccogliendo il mio mantello da terra. La causa di tutto quel trambusto continuava a fissarmi divertito. “Celeste? Voi siete dunque Doña Celeste Ventas de Huelma, figlia di Don Hernando e di Doña Dulcinea?” domandò il disturbatore. “Esattamente. Non vi conviene, dunque, comportarvi in questo modo poco rispettoso. Potrebbero esserci gravi conseguenze, lo sa?” replicai. Quel tono superiore non mi si addiceva per nulla. Trovavo strane le mie stesse parole pochi istanti dopo averle pronunciate. In tutta risposta Don Juan fece un inchino, mostrandomi un gran sorriso beffardo. “Non era assolutamente mia intenzione mancarvi di rispetto, mia cara” pronunciò, smorzando quel sorriso. “Bene” conclusi. Indossai il mantello e, insieme a Letitia, mi allontanai velocemente da quell’uomo. Sentii il suo sguardo seguirci finché non svoltammo l’angolo.
“Mi dispiace, Celeste. Se avessi visto quell’uomo avvicinarsi vi avrei portato via prima che potesse disturbarvi” si scusò la mia compagna. Vidi i suoi occhi diventare improvvisamente lucidi. “Vi prego, non dite nulla a vostra madre” m’implorò. Le strinsi maggiormente la mano e le sorrisi. “Tranquilla, Leti, non ne farò parola con nessuno.” “Ma chi era?” domandò, tornando improvvisamente solare. “Un certo Don Juan Tenorio. Lo conosci?”. Fece di no con la testa. “Probabilmente non è di queste parti” disse. “Però aveva degli occhi stupendi, non trovate?” chiese, ridendo. Annuii, mio malgrado. Quell’uomo aveva davvero uno sguardo meravigliosamente ammaliante. Ed era la prima volta in vita mia che qualcuno mi facesse sentire in soggezione come pochi minuti prima.



 
*"Quanti giorni impieghi in ogni donna che ami?" "Uno per farla innamorare, uno per averla, un altro per abbandonarla, due per sostituirla e un'ora per dimenticarla"
[Don Juan Tenorio - José Zorrilla]



Angolo autrice:
Sono mesi che mi frulla in testa questa storia e finalmente sono riuscita a pubblicarla. L'ispirazione mi è stata data (come credo sia chiaro dalla nota) dall'opera teatrale di Zorrilla, Don Juan Tenorio.
Che dire, spero che questo prologo v'incuriosisca e che, soprattutto, vi piaccia.
Pubblicherò presto il primo capitolo ma per ora fatemi sapere cosa ne pensate!
Un bacione a tutti,
J.

   
 
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