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Autore: sistolina    18/04/2013    0 recensioni
Ezra ed Elliot sono gemelli. Hanno condiviso tutto: la stanza, i giocattoli, i libri, il primo bacio di una ragazza, una famiglia disfunzionale che mal sopporta la modernità e l'emancipazione.
Le insondabili venature di una famiglia borghese disfunzionale della brughiera inglese, e i tristi stratagemmi per mascherare la verità con un velo di trucco scadente.
Insieme.
Se non fosse che Ezra è morto.
Libri che non leggerà accatastati su mobili contro cui non sbatterà mai, incasellati in una stanza dalle pareti di un drastico celeste scuro che non sanno nemmeno se gli sarebbe piaciuto. Elettrodomestici destinati a logorarsi nel disuso, e falsi accessori immobili testimoni di una follia organizzata, collettiva e confezionata al dettaglio.
A me la macchina, al mio fratello morto a tre anni una stanza tutta sua, la naturale evoluzione della prima cameretta, della nuova camera delle elementari, delle medie, dei primi anni di collegio, con le stampe futuriste in accordo con la tappezzeria a strizzare l'occhio a band musicali mai ascoltate e locandine di film mai visti.
Buon compleanno Ezra, spero che te la stia godendo.
“Non dovresti prendertela così Elliot, sono io quello che è crepato”
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest
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A Ellina e Giuls.
Al contest noir.
Al disagio in tutte le sue forme.




Anyone'S Ghost







Gli odi insanabili
sono sempre quelli di famiglia.
(Francesco Burdin, Un milione di giorni)
 
 
Conosco a malapena metà degli invitati, e per quanto riguarda l'altra metà posso dire con candida franchezza che non l'ho mai vista prima.
Non volevo nemmeno questa cena pomposa e impersonale, ma il servizio da ricevimento è stato lucidato, e l'intero staff licenziato in tronco l'autunno scorso per la caduta vertiginosa delle nostre azioni in borsa ha stirato la livrea e rispolverato il vecchio servilismo ipocrita. Hanno sputato nei piatti, urinato nel ponce, e quasi sicuramente metà delle tartine al caviale sono state preventivamente riempite di muco.
Zia Frannie è rimasta compostamente sconcertata dal fatto che io non abbia mai mangiato caviale, che sia astemio, e allergico al burro di arachidi. Tutto questo, all'alba dei miei diciotto anni, non dovrebbe più sorprendere nessuno, ma per delineare un quadro seppur vagamente accurato della cerchia satanica dei miei consanguinei, basti sapere che lo storione e la sua ovipara prole sono la portata principale di questa nouvelle cuisine estiva da patio infiorato, non esiste una variante analcolica di nessun aperitivo, e la scritta “Buon Compleanno” a sottili caratteri da calligrafia ammaestrata spalma l'intera torta di burro di arachidi. 
È fuor di dubbio, a questo punto, che i due terzi della gente che ticchetta e striscia sul marmo lucidato di fresco da un'intera agenzia di pulizie sottopagata, crede di essere qui per congratularsi con mio padre per aver appena acquisito una società di comodo in qualche paese in piena crisi dell'euro ad un prezzo da asta giudiziaria.
“Oh Madeline, ma la delizia indicibile di questo persiano?” Missy Wainwright costeggia l'ultimo anno dei quaranta con una sicurezza invidiabile, un'amante pittrice con un loft a Londra, e la reputazione immacolata di moglie frigida e indispettita che il suo consorte con la passione per il Viagra non lesina di diffondere a macchia d'olio negli ambienti meno riservati.
Odia mia madre da quando al college le ha soffiato per mezzo punto il titolo di studentessa più meritevole, ma nessuna vendetta potrebbe smorzare l'inveterato amore che prova per i tappeti, le cornici di cristallo, e l'arte moderna.
Anche in casa nostra.
“Non ne parliamo neppure. Sul bordo superiore la trama è sfilacciata, e non è nemmeno della misura giusta” la noncurante freschezza con cui mia madre tracanna Mimosa potrebbe destare seri sospetti sulla conformazione dei suoi organi interni.
Ridacchiano insieme, facendo schioccare la lingua a ritmo per sottolineare il legittimo disappunto, e passano oltre, ad ammirare qualche intarsio nel pomello del corrimano di legno della scala a chiocciola.
Nutre quasi un venerante rispetto per le scale a chiocciola, i bicchieri lucidati alla perfezione e l'ordine cromatico nella disposizione degli armadi.
Il giardinaggio, la pittura e il cucito la sfiorano periodicamente in momenti di fissazioni artistiche dai risultati di dubbio gusto, e talvolta precipita nella spirale un po' viveuse dei teatri e dell'opera, ma dalla mia infanzia costellata di ricordi confusi e incubi diurni, di cene con mostruosi fauni ubriachi e discutibili aperitivi d'élite, le ho visto portare avanti con testarda e quasi messianica affezione una sola fede: i vibratori. Non come giocattoli sessuali, né come vergognosi vizi borghesi della brughiera inglese nascosta dalla nebbia e il fango. Ma come baluardi, fieri ed esaltati, di un'illusoria femminilità libertina e anticonformista, pomeriggi soleggiati di autocompiacimento solitario e isolato. Frinire di grilli e orgasmi, gabbiani e gemiti, rari clacson dall'eco anacronistico e urla mai inarticolate, prolisse recitazioni di poesie e pedissequi passaggi letterari della più alta levatura. Solo qualche nota troppo alta, qualche imprecazione e invocazione a tratti blasfema, a tradire l'alta considerazione di lei per quei rituali preziosi e mai logori.
Il perché mio padre, nella sua mite invisibilità, abbia deciso di interpretare questa sua passione come un inequivocabile esonero dal suo ruolo di marito, non è mai stato chiaro.
Forse l'incapacità di condividere il talamo nuziale con un apparecchio di plastica alimentato a pile. 
Da parte mia temo, principalmente, si sia stizzito per l'inquinamento da metalli pesanti. 
Comunque, se a qualcuno davvero preoccupasse la torbida sorte drammatica del mio genitore, vorrei rassicurarvi dicendo che anche lui, come ogni passivo aggressivo degno di questo nome, affondando nella terra rossa della brughiera inglese la pietra tombale di un matrimonio d'amore, o di sesso, o di un qualsiasi rimasuglio di affetto, architetta le più sottili vendette sadiche nei confronti di mia madre, in una battaglia costante fra personalità deviate edificate con materiali difettosi e sentimenti deperibili.
Succhiare la zuppa dal cucchiaio come un tisico in piena crisi polmonare, è una delle pruriginose verruche emotive che titilla costantemente fino a farle sanguinare.
In quelle occasioni di urticante deliquio nuziale, lei lo fissa solo con un occhio, memorizzando a quale velocità dovrà regolare il vibratore quella notte per scrollarsi di dosso il rumore secco e lamentoso del suo labbro leporino operato male sul metallo del cucchiaio da zuppa.
Si piacciono davvero, non potrei negarlo nemmeno se quello che dondola pigramente fra l'indice e il pollice della mia mano sinistra non fosse il quinto, o sesto, calice di Merlot invecchiato quanto basta per avere il prezzo di listino di una macchina. 
Si piacciono così tanto che nessuno dei due ha mai cercato di uccidere l'altro...troppo lentamente. Hanno in serbo morti rapide, indolori, inodori; il massimo gesto di rispetto reciproco che le loro piccole menti essiccate dall'abitudine e la noia sono riuscite a contemplare.
“Si dovrebbe sorseggiare, non buttare giù come acqua tonica Elliot” mia sorella riesce a inerpicarsi lungo la spina dorsale, con la sua voce lamentosa e monocorde. 
“O vodka tonic” conoscendo la sua propensione per il gradiente alcolico a tre cifre, non mi stupisce il modo in cui la palpebra sinistra traballante di Evalyne produce strani sussulti del suo bulbo oculare. È uno spettacolo sinceramente pietoso, ma prevedibile.
Non perché non le voglia bene, non le voglio bene, direi che a malapena sopportiamo la presenza reciproca in una sala con cinquanta persone. Solo raramente ci facciamo carico del calvario di dover condividere lo spazio vitale più di quanto sia strettamente necessario. Ma non è per questo che ancora non l'avevo citata. Innanzitutto, è un'alcolizzata. Non di quelle signorine da College prestigioso che sanno mascherare la puzza di alcool scadente con il collutorio o le mentine. Puzza. Di fiato rancido, di sudore e di capillari scoppiati sugli zigomi. 
Mia madre le si avvicina solo dopo una seduta particolarmente intensa di autoerotismo, e se mio padre le inciampa sui piedi in corridoio si toglie il cappello, rare sono le volte che s'incrociano.
Incute un certo disagio vederla aggirarsi per casa, le ciabatte che perdono batuffoli di stoffa dai buchi sugli alluci, e quell'andatura impregnata di disperazione solitaria. Ma non riesce nemmeno a far pena, perché è talmente pomposa, compiaciuta e acida che se il suo alito non riuscisse già nell'intento di allontanarle ogni forma di vita da una raggio di dieci metri, certo lo farebbe la prima parola a uscire dalla sua bocca. Di solito è rivolta a me, quella parola, e di solito la frase finisce con una bassa risata raschiante, affogata in un bicchiere largo e quadrato, pieno fino all'orlo di Four Roses mascherato da the freddo, con un limone macilento che si sforza di galleggiare in mezzo ai fumi corrosivi del Bourbon.
Provo un gargantuesco senso di solidarietà verso ogni agrume schiavizzato e ucciso lentamente dall'ipocrita manfrina alcolica di Evalyn.
La permanente di un azzurro tendente al grigio di nonna Cecile strimpella una vaga marcetta funebre nel mio immaginario. Quando si avvicina con l'anulare bardato dal suo anello di fidanzamento e l'indice protetto dall'armatura del sigillo di famiglia, ha in serbo una sparata colossale sull'eredità, sull'inettitudine di mio padre, pienamente comprovata, nel gestire gli affari, la rara vita sociale di mia sorella, o la mia identità sessuale, così orrendamente tediosa e demodè. 
“Evalyn, cara, se continui a mettere costantemente alla prova il tuo orologio biologico, prima di riuscire a perdere la verginità sarai secca come il Sahara, là sotto” se non mi sono ancora profuso in salamelecchi nel parlare di mia nonna, la potente e volitiva matriarca ottuagenaria seduta a capotavola, è perché lei è veramente una stronza epocale. Dotata di quell'educazione da classe dirigente, adombrata di betulle in estate e sequoie d'inverno in qualche cortile intitolato a personalità illustri, non ha idea del significato sociale del termine “lesinare”. Non lesina consigli, non lesina commenti, non lesina di passeggiare nel quotidiano e ricercato vuoto della vita di chi la circonda raschiando a unghiate anche il fondo. “E lascia in pace quel pederasta represso di tuo fratello, che è abbondantemente in debito con la vita anche così...” osservare le sue dita lunghe da pianista mancata volteggiare nell'aria liquidando la questione come una clausola risibile, è sempre uno spettacolo di varietà. I primi anni di cui mi ricordo, quando ancora aveva senso voltarsi indignati nella sua direzione, la poltrona incastonata nell'angolo destro di fronte al camino sempre spento, e tentare una strizzata d'occhi compunta e amareggiata perché lei e il suo quarto Vicodin avevano scoperchiato il vaso di Pandora delle vergogne famigliari, tutti nella stanza cominciavano a parlare contemporaneamente, di caccia, di governo, di guerra e di sesso, non precisamente in quest'ordine o con questa cadenza, tentando di annodare alle orecchie sorrisi già forzati fino a strapparsi.
Dopo diciotto anni nessuno fa più caso al ragazzino dalla fronte alta e la salute incerta quanto le quotazioni del Dow Jones, che ha scavalcato decine di studi specialistici e statistiche ridotte a carta straccia, relegando la spartana legge della sopravvivenza ad una storiella da pub.
Io sono vivo e lui è morto. 
Il mio viaggio nel mondo inizia e finisce con una bara bianca calata lentamente nella stessa nuda terra rossa in cui la mia famiglia seppellisce ogni contraddizione.
Sentir grattare le suole contro il legno pregiato importato dalla Norvegia o chissà che paradiso della flora europea, irrimediabilmente scheggiato dal mio superfluo atto di ribellione, osservare le sopracciglia drasticamente depilate di mia madre allinearsi all'asse di rotazione terrestre accanto al tavolo del buffet, e avvertire la dentatura irregolare di Evalyn scricchiolare contro il bordo del suo bicchiere di falso the freddo, gronda di sensazioni di onnipotenza e auto celebrazione la cui durata si dilaterà nei secoli dei secoli a venire, ma che effettivamente sfiorerà i tre secondi, a voler esagerare.
A malapena il mio alluce si scontrerà contro il primo gradino, a malapena la moquette siamese che ricopre le scale si affosserà sotto la pianta del piede, a malapena l'orlo dei miei pantaloni con la piega si solleverà sulla caviglia a mostrare calzini volutamente spaiati.
A malapena sarò uscito dal campo visivo della mia famiglia, prima che il sipario venga issato e la solita tragedia greca di falso buonismo vada a condire il dessert di leziosi moralismi borghesi e rancidi.
Quando la mia mano si stringe contro la maniglia della stanza chiusa a chiave del secondo piano, una porta dopo la mia e tre porte prima del bagno, so cosa mia aspetta con la rassicurante precisione di mia madre nel disporre ordinatamente i suoi vibratori in accordo con il suo umore.
Riconosco il rigonfiamento del parquet dopo quella limonata caduta agli operai cinque anni fa, e l'angolo in basso, sbiadito dalla candeggina con cui mia madre si è affrettata a cancellare la frase oscena lasciata da qualcuno alla festa di comple-morte dell'anno scorso. Da qualche parte, se mi concentro, posso ancora vedere il segno dello scotch di quel grosso fiocco rosso con cui hanno impacchettato la stanza.
Perché non è mai il mio compleanno. È solo il suo.
Il compleanno di qualcuno per cui ancora apparecchiano a tavola, e a cui regalano camere da letto nuove.
Tutto è esattamente uguale, e ugualmente spaventoso nella sua metodica follia: un letto matrimoniale con lenzuola cambiate di fresco, un computer, una lampada, un paio di pesi. 
Una tv a schermo piatto e librerie che si rincorrono su tutte le pareti.
Una videoteca, qualche film porno nascosto nelle copertine di Titanic, Moulin Rouge, orride pellicole di Steven Seagal che nessuno sano di mente guarderebbe mai senza un'accurata selezione di droghe a disposizione.
Libri che non leggerà accatastati su mobili contro cui non sbatterà mai, incasellati in una stanza dalle pareti di un drastico celeste scuro che non sanno nemmeno se gli sarebbe piaciuto. Elettrodomestici destinati a logorarsi nel disuso, e falsi accessori immobili testimoni di una follia organizzata, collettiva e confezionata al dettaglio.
A me la macchina, al mio fratello morto a tre anni una stanza tutta sua, la naturale evoluzione della prima cameretta, della nuova camera delle elementari, delle medie, dei primi anni di collegio, con le stampe futuriste in accordo con la tappezzeria a strizzare l'occhio a band musicali mai ascoltate e locandine di film mai visti.
Buon compleanno Ezra, spero che te la stia godendo.
“Non dovresti prendertela così Elliot, sono io quello che è crepato” sempre immobile, davanti alla porta finestra che si affaccia sul cortile interno. La fontana commemorativa che zampilla il suo nome a caratteri cubitali, pesci rossi e rane gracchianti elegantemente disposti a cerchio contro il marmo bianco consumato dal calcare, uno spettacolo che conosce ma non si stanca mai di riesumare.
Quelle prove d'amore sterili di chi non si guarda in faccia da quindici anni.
“Ezra...”
Agita le dita in aria, lunghe, magre, bianche.
“Ah no, com'era? Morte in culla? Morte bianca? Ho una memoria tremebonda per i dettagli della mia prematura dipartita, perdonami”
Non è come guardarsi allo specchio, non davvero.
Se vedessi quello che lui vede, sarei terrorizzato da me stesso.
Ma Ezra non esiste, da quattordici anni, undici mesi e trenta giorni. 
Silenzioso, tetro, i pugni stretti e quel colorito intenso di chi ha risucchiato per nove mesi tutto il nutrimento del suo gemello cianotico, macilento e strozzato impietosamente dal cordone ombelicale.
Ha un completo nuovo, gessato, elegante. Gli sta meglio che a me, sempre, qualsiasi cosa.
A tratti vorrei solo che fosse reale, che altri potessero vederlo, anziché passargli attraverso prima di storcere il naso e borbottare “schizzato” nella mia direzione.
Quando, al primo anno di campeggio, ho provato a dire a Lisa Weston che era vivo, era lì e pensava che lei fosse carina, ha creduto che il mio fosse un macabro tentativo di approccio pietoso. 
La terza volta che dalla mia bocca è uscito il nome di Ezra senza che sembrassi turbato dalla sua morte, i miei mi hanno sbattuto da uno psichiatra, si badi, psichiatra, perché dalle mie parti nessuno vuole davvero sapere cosa c'è che non va in suo figlio, e perché forse, per pura disattenzione del caso, veda il suo gemello deceduto. Basta farlo smettere, qualunque cosa sia, con il terzo livello di vibrazione, un fondo di bourbon, un paio di Vicodin, collezionare pistole antiche.
Arredare stanze a intervalli regolari per il loro figlio morto è qualcosa che hanno il diritto di fare, un metodico disturbo ossessivo mascherato da lutto prolungato, ma il loro secondogenito debitore al fato non può davvero mostrare distorsioni della percezione. 
Il dottor Hoffman non era nemmeno troppo male per essere un medico sadico specializzato in inutili terapie farmacologiche deleterie per ogni nervo saldo del mio corpo. Aveva la scriminatura nel  mezzo dei pochi capelli neri che gli erano rimasti, e si leccava sempre l'indice prima di sfogliare una pagina. 
Ha provato a farmi parlare di Ezra prima di prescrivermi antipsicotici. 
Ci ha provato, va detto.
“Mamma ha cambiato la disposizione dei vibratori, quello di plastica fucsia deve averla tediata” non saprei dire perché nel mio immaginario parla come un educando di Eton, con tutti questi vocaboli altisonanti e anacronistici. Apre a malapena la bocca per pronunciare le parole con un marcatissimo accento del nord. Non è mai stato al nord, e nemmeno io, quindi non so nemmeno come faccio a saperlo, ma è del nord e basta.
Afferra un volume dalla copertina rigida dell'enciclopedia britannica e lo sfoglia annoiato.
“Perché oggi?” scrolla le spalle
“E' anche il mio compleanno no? Sarebbe stato alquanto scortese disertare i festeggiamenti” lascia cadere il libro sulla scrivania di mogano scuro, irritato. 
Il suo stato d'animo è angosciosamente speculare al mio, sempre. Mentre io dissipo le mie frustrazioni con vendette impotenti e immature, Ezra sfoga le sue piccole crudeltà su di me, in un gioco di specchi appannati dove si riesce a vedere qualcosa solo facendo scorrere il dito sulla condensa umida.
Nel piccolo frigorifero accanto al letto la cameriera ha disposto ordinatamente succhi di frutta vari, bibite gassate e qualche bottiglia di birra chiara a bassa gradazione. Sulla mensola il solito Cabernet Sauvignon da conservare per le occasioni speciali. 
“Convieni con me che sia una ricorrenza da festeggiare?” ribatte lui ai miei pensieri, con quel sorriso disteso e la lingua che scivola sugli incisivi perfetti.
Ha quell'equilibrio nel muoversi, quella delicatezza, quella sfrontatezza, quella sicurezza di appoggiarsi sempre sullo spigolo giusto, di sfiorare il pavimento, di adagiarsi sul materasso come se non potesse andare diversamente. Non sbatte, non urta, non inciampa. Riesco a perdermi nell'inconcepibile fluidità di quei movimenti, nello sfarfallio di lunghe falangi leggermente arcuate, nello sbattere di palpebre quasi trasparenti, nell'intersecarsi dei capillari blu appena sotto la pelle. 
Ciò che in me giace incrinato inesorabilmente, è fascino letale e grazia innaturale.
La camicia azzurra che indossa è mia. Era mia, prima che Evalyn la usasse per asciugare una chiazza del suo vomito dal pianerottolo del primo piano. Sapeva che era la mia preferita, che chiedevo alla ragazza della lavanderia di farci attenzione, di stirarla lentamente. 
È finita sul fondo del cestino dei rifiuti.
Ora lo avvolge come un amorevole guanto, un abbraccio appena accennato e un sorriso mescolato alla neve.
Ha lo stesso odore di ammorbidente e ferro da stiro, la stessa consistenza sotto le dita.
“Viene dall'Aldilà delle camicie” mi prende in giro armeggiando con il tappo del vino rosso. 
Un paio di gocce strisciano sul dorso della mano, intense, mentre dall'imboccatura della bottiglia salgono vibrazioni di spezie e vitigni pregiati. Avvicina la mano alla mia bocca leggermente socchiusa di quello stupore inconsapevole che riesce ad instillarmi senza pietà.
La pelle è viva, calda, reale. E io davvero non vorrei che il mio corpo s'irrigidisse, e la mia mente si svuotasse, e l'inguaribilmente macilenta gabbia toracica stesse per scoppiarmi nelle orecchie.
Davvero non vorrei assaporare il bouquet di quel vino corposo dal dorso della mano del mio gemello morto, come se fosse vivo. Come se fosse qui. 
Vorrei non amarlo come lo amo.
“Datti pace Elliot, i tuoi sensi di colpa mi disturbano” scosta la mano con un gesto rapido e infastidito, la bottiglia che trema fra le sue mani e i polsi della mia camicia azzurra che sporgono dalla giacca del completo gessato. Gemelli d'oro incastonati nella piega. 
Eleganza e prestigio, il mantra che nostro padre ha fatto incidere sulle culle il giorno in cui siamo tornati a casa dalla clinica. 
Tutto ciò che in me è frammentario e sclerotico, diventa poetica nostalgia di Ezra, dell'aggraziata accuratezza con cui avrebbe saputo amministrare il patrimonio, senza lasciare che la deprimente incompetenza di nostro padre la dissipasse in investimenti sbagliati e disattente disavventure.
E lui, l'essere irrimediabilmente impeccabile che io vedo materializzarsi negli anfratti nebbiosi di questa magione decadente, ammaestra senza fatica ogni tachicardia ansiosa del mio corpo malandato, mai davvero vivo, mai davvero forte, mai davvero al riparo da quelle polmoniti croniche, quelle emicranie, quelle sinusiti letali che mi costringono a letto, nell'oscurità totale, lasciando che l'intera squadra di polo di Cambridge, il Rotary Club di Londra o chissà quale altra loggia massonica della Gran Bretagna si imbarchi a vuoto in un noioso e scomodo viaggio in treno in questa brughiera fangosa e inospitale.
“Ma di che parli?” l'imbarazzo, laddove sul suo viso avrebbe ombreggiato a malapena gli zigomi in un suggestivo gioco di emozioni ben calibrate, sul mio emaciato pallore chiazza la pelle senza requie, come i sintomi di una corrosiva eruzione cutanea.
“L'incesto oscilla fra il deliziosamente shakespeariano e il tedioso, a voler essere intellettualmente coerenti” assottiglia le labbra in una smorfia studiata, esaminando la punta delle unghie ordinate dal sano colorito rosato “ma non pretendo scanalature emotive essenziali in te, fratellino, solo rozzi scavi irregolari” fa scorrere l'indice sotto la chiusura del bracciale d'argento, consumato sulla targhetta d'oro, le lettere vergate in oro consumate dall'uso.
Il mio urla maledizioni dal fondo di un cassetto, ricoperto di biancheria alla naftalina e calzini spaiati. I gemelli di quelli che indosso, testardamente, ogni giorno.
Si lascia cadere sul materasso intonso, allentando con un gesti infastidito il nodo della cravatta
“Devi smetterla di immaginarmi così compunto. Finirai con l'uccidermi” sorride, crudelmente, malignamente, violentemente e improvvisamente, per poi lasciare che un'espressione neutra e invitante rimodelli i lineamenti. 
La giacca del completo scivola via dimenticata, acciambellandosi sul copriletto blu elettrico, intonato al tappeto e al battiscopa. Movimenti leggeri e casuali che si riflettono ondeggiando sullo schermo del computer, del televisore al plasma, e nelle cornici d'argento con fotografie di paesaggi mai visitati, scattate da fotografi professionisti e acquistate per migliaia di dollari a qualche asta di beneficenza. Portano tutte il suo nome, quelle immagini. 
C'è un asilo in Uganda, intitolato a lui, e un diploma conseguito a nome suo nell'atrio di un collegio maschile in Svizzera.
L'ala di un ospedale e un intero reparto della biblioteca di Eton.
Centinaia di persone conoscono la soave tragedia di Ezra. I nostri genitori si sono preoccupati di farlo conoscere al mondo, nei cambi d'abito delle loro tragicommedie grottesche, decantando la sua triste dipartita come un poema epico dai contorni fiabeschi, disperati ed eroici bozzetti di una vita tratteggiata a penna stilografica sui tovaglioli di carta e le teche di vetro dei musei.
L'intera alta borghesia unita e compatta per conservare il ricordo immoto della sofferenza e della perdita.
“Un'immonda quantità di tempo libero da impiegare produttivamente, se vuoi la mia opinione” di nuovo ribatte con noncuranza ai miei pensieri, marginali tarli della mia coscienza che prendono forma attraverso le sue freddure eleganti.
Sbottona la camicia, sfiorando appena le asole.
La pelle al di sotto è quasi indefinita, come se la mia immaginazione non si fosse mai soffermata a delineare di lui un profilo coerente. Il viso, i capelli, lo sguardo, il mio nel suo, migliore, frutto di quelle speranze frustrate da adolescente che rimodella costantemente i propri lineamenti allo specchio, eredità di concezioni estetiche brutalmente settarie delimitate dall'educazione e le mode.
Scostando i miei nervi a fior di pelle, la sua vista fa formicolare la pelle di grezza invidia, gorgogliante soggezione e assetato possesso.
“L'ultima strizzacervelli dice che devo accoglierti per lasciarti andare...” la Dottoressa Chang mi ha incoraggiato a parlare con lui delle nostre sedute. 
Logicamente, se è vero che Ezra è la proiezione mentale di quella parte di me che non oso mostrare a causa dell'ossessione che nutro verso il socialmente accettato, mi aiuterebbe ad elaborare più lucidamente i nostri incontri.
La risata di lui, flebile e sinistra, indica abbastanza accuratamente il luogo anatomico dove la dottoressa può sistemare le sue teorie.
“La tua psicoterapeuta ti ha consigliato di assecondarmi perché il conflitto generato dai nostri incontri ti eccita, essere velatamente al di sopra della media ti piace, e non hai la seppur vaga ombra di conoscenza decente con cui impiegare il tuo di tempo improduttivo” sospira, ripiegando con cura gli angoli della camicia, lasciando che la luce opalescente del nebbioso pomeriggio illumini l'intricata trama di cicatrici sul suo torace. Ogni ferita, ogni presa in giro, ogni sofferenza auto imposta. Ogni trauma, shock, preoccupazione o ansia, hanno dipinto sulla pelle traslucida del mio gemello morto un quadro dai contorni inquietanti della mia vita fino ad oggi.
Non una sola lacrima è stata ignorata dall'epidermico tratteggio delle mie sventure.
L'ombra dagli orli tremolanti sul suo petto, se osservato bene, somiglia all'impronta della mano di un neonato.
La mia.
Si avvicina, lasciando che il mio sguardo desolato e inerme ricomponga ogni ferita.
Costringermi a ricollocare ogni traccia nel momento in cui è stata inflitta, ogni volta, ogni giorno. Forzarmi a toccarla, a riplasmarla, ad affrontarla. 
Tutte le volte.
Sadico amore fraterno di una coscienza sporca.
Solitario, nell'imbrunire psichedelico del mio autocontrollo, l'indice dall'unghia rosicchiata finisce ad esplorare l'epidermide traslucida e ridefinita dalle cicatrici frastagliate.
È necessario un solo momento prima che gli esordi di un familiare attacco di panico sibilino al mio orecchio la necessità impellente di una ritirata. Il respiro corto e la gola serrata, il sudore freddo e il senso di nausea. Quel terrore, ingiustificato e paralizzante, affonda nella pelle tesa sul fianco di Ezra come se fosse mio.
Lui fa schioccare la lingua, premendo la mia mano fino a marchiare la pelle.
“Cosa direbbe la tua dottoressa psicoanalitica di questo Elliot?” si avvicina, addentando la sensazione di baciare il proprio riflesso nello specchio, e modellando una risata sarcastica attraverso le mie labbra.
Ingoiare un suono e artigliare una sensazione.
L'infanzia intera ad innamorarsi di un'idea plasmata da traumi infantili e storie romantiche sulla morte e la predestinazione.
Vagonate di filmacci strappalacrime dalla trama insulsa e il messaggio scontato, irritanti per gli occhi, che scavavano in me la segreta convinzione che vedere il mio gemello morto significasse essere speciale. Ricercare sul fondo già grattato di un barile di banalità un affetto che solo io potevo donare a me stesso.
Auscultare respiri spezzati e ansie cicliche da adolescente insicuro e malaticcio, affidando l'eco di ogni battito sull'elettrocardiogramma all'immagine distorta di un compagno di vita che non poteva lasciarmi, perché mi apparteneva.
La bocca di mio fratello che riversa nella mia un'aspra risata trionfante come baluardo della mia resa incondizionata.
Epifanie distopiche e rancide.
Riesco solo a vedere il mio riflesso allontanarsi, il contatto perdersi nel panico sudato e vischioso, avvertire il movimento convulso in un tremolio instabile delle piante dei piedi sul parquet.
Le porte, le luci, un corridoio. Un nauseante e silenzio claustrofobico e irreale.
La permanente cotonata di mia nonna riversa sul terzultimo gradino della scala a chiocciola che mia madre adora probabilmente più del suo vibratore rosa shocking.
Di certo più di me.
Non più dell'idea di Ezra che tinteggia ogni primavera di nuove sfumature d'orgoglio.
Un lamento, imprecazioni, lo strisciare disperato della stoffa sul tappeto. 
Vomito, urina, fluidi corporei mescolati e maleodoranti.
Le verrebbe un colpo se...
L'ingresso, la sala da pranzo, il salotto. Perfino la veranda.
La poltrona preferita della vecchia generalessa. Tutto, ovunque, è striato di cadaveri o corpi rantolanti.
Capillari spaccati negli occhi, unghie rotte nel tentativo di arrancare fino alla porta, gole graffiate, volti sfigurati dalla tragica consapevolezza della morte. Dolorosa, lenta, agonizzante.
Nessuna luce bianca sul fondo di questo tunnel, spiacente.
“Dio Santo...” balbettare e ripetere all'infinito. 
Toccare, scuotere e imprecare.
Il Merlot che si arrampica come lava su per il mio esofago. Un vaso di fiori finti in cui vomitare, un soprammobile a cui aggrapparsi, un'orribile riproduzione in scala della battaglia di Waterloo.
Stupidi cadaveri che scimmiottano cadaveri ancora più stupidi.
“Sei stato tu Elliot, non te lo ricordi?”
I passi di Ezra, sornioni e morbidi, che mi affondano fra le scapole, in un'umiliazione gracile e stantia che non voglio condividere.
“No” si muove senza fare rumore fra i corpi, assestando leggeri colpi con la punta della scarpa ai corpi immobili.
Sono inadeguato anche quando sono l'unico essere umano ancora vivo. Probabilmente, in una pellicola hollywoodiana post-apocalittica dalla dubbia qualità narrativa, riuscirei ad essere l'unico protagonista solitario che nessuno ricorderebbe.
Sono stato una comparsa anche nella mia stessa, fottuta, vita.
Chiedo scusa. Anche se suppongo che nessuno muoverà obiezioni, visto lo scenario da bolge dantesche.
“Che temperamento fratello...il turpiloquio non si addice alla tua carnagione, se vuoi saperlo...” tasta il cadavere del sindaco con la punta della scarpa
“Sono morti?” 
“Io lo sono?” sghignazza “Arditamente deliziosi...la versione economica di un Pollock sopra il caminetto” si inginocchia accanto alla figlia dei Darling, un'odiosa reginetta di bellezza dalla contorta passione per il sadomaso “Un lavoro egregio, anche se avrei optato per un'arma meno rozza. Veleno per topi? Andiamo, potevi decisamente essere più evocativo e tragico, a voler ben guardare...” sospira contro l'ennesimo conato che finisco per soffocare nel vaso di peonie di plastica sul corrimano della scala “d'altra parte, non sei stato sottile nemmeno con me...”
Mi osserva, ridendo del mio diniego disperato “Non crucciarti; è così borghesemente palese che non te l'abbiano detto...Anche io, potendo esimermi...” le dita sfarfallano in aria, come per scacciare una mosca “Ma sarebbe un peccato, già che siamo qui ad osservare l'intero parentado che si decompone epilettico sul pavimento...un momento così strabordante di pathos dev'essere come minimo condito da una narrazione enfatica dei tristi eventi che hanno definitivamente censito la nostra nascita”  
Avverto il tremore prendere totalmente il controllo del mio sistema nervoso. Non c'è niente che possa fare per trattenere il panico.
“Sono. Morti. Ezra?” balbettii sommessi e frasi a mezza bocca. Il massimo gradi di coscienza di me che riesco ancora a mantenere.
“Non lo siamo tutti?” Ezra si serve con il punch al mandarino in un bicchiere ancora integro sul tavolino da the. 
“Devo chiamare un'ambulanza” sorseggia e sorride, continuando a camminare per la stanza come in una bucolica gita ai giardini di Versailles.
“E rovinare così irrimediabilmente l'opinione meno zoppicante che il pubblico si è fatto di te in questi ultimi dieci minuti? Il tuo callo patologico per la sofferenza disutile, fratello, è commovente, nonché un retaggio sconvenientemente comune nell'età della soap opera di ultima categoria, ma questo? Per cosa? Una sola, intempestiva, ondata di moralismo da classe media in decadenza?” libera con un gesto stizzito la poltrona dal corpo della signora O'Brien, lasciando che rotoli impietosamente sul tappeto persiano intarsiato d'oro, e accavalla le gambe. Il bicchierino di punch quasi finito fra l'indice e il medio “La scontata tragicità di questo canovaccio mi fa pentire di essermi cambiato la camicia, se permetti” tentando di raggiungere il telefono, riconosco mio padre e mia madre, addossati alla parete nord accanto al caminetto. Lei ha vomitato sangue sul suo vestito preferito, color pervinca scuro. Lui ha il viso nascosto contro il muro, la cerniera dei pantaloni abbassata.
Dimenticava sempre di abbottonarsi i pantaloni.
Mia sorella non c'è.
“Oh, non scomodarti per Evalyn, si è indegnamente soffocata con il suo stesso vomito già mezz'ora fa. Forse la signora Wilton potrebbe salvarsi, la sua passione per la fellatio l'ha tenuta occupata con il Sindaco una buona parte del pomeriggio, che Dio li benedica...” affila lo sguardo su Miles e Angelica Coltrane, riversi sulla veranda con il trench ancora appoggiato all'avambraccio.
“Sei stato inclemente, se lasci che infierisca sulla già sufficientemente contrizione di questo tragico momento: potevi usare un metodo pittoresco, e hai rimesso i tuoi peccatucci a del comunissimo veleno. Potevi cristallizzare sui loro volti l'afflato impalpabile di una dipartita drammatica, e la metà di loro sarà visitato a bara chiusa per via delle smorfie di sofferenza.” si alza, scivolando verso di me praticamente senza peso. Ogni secondo che il mio autocontrollo scema, la sua figura acquista consistenza e sfaccettature. Più la mia mente lascia crollare impunemente ogni difesa, più Ezra diventa reale. Un terrore ancora diverso s'impadronisce della parte più ancestrale della mia consapevolezza.
“Hai goffamente mancato anche i tempi narrativi. Completamente. Alcuni, probabilmente, non moriranno. Se non chiamerai l'ambulanza in un tempo ragionevolmente breve verrai sospettato all'istante, visto che sei l'unico pietoso essere umano i cui organi interni non siano, letteralmente, deflagrati, e probabilmente quella piccola creatura del Signore che ti fissa con occhi spalancati è abbastanza grande e intellettivamente all'altezza per testimoniare in qualsiasi tribunale straripante di borghesi impoveriti che punteranno il dito dall'unghia limata contro di te con una determinazione più efferata dei giudici di Norimberga” Lily Prescott, la figlia preadolescente dei Norton, l'unica delle tre ancora abbastanza sottomessa per lasciarsi trascinare ad una festa di sconosciuti ottuagenari viziosi, mi fissa, tremando, da sotto il tavolo. 
La tovaglia di lino scozzese, accuratamente stirata dall'esercito di domestici senza permesso di soggiorno, è strappata, macchiata di vino, e pende inesorabilmente da un lato, artigliata dal signor Everard, il banchiere di fiducia della famiglia con la passione per i ragazzini, prima di crollare a terra morto. Il suo faccione rubizzo ha assunto il colorito violaceo del soffocamento.
“Cosa devo fare?” c'è un momento in cui un pessimo consiglio è meglio di nessun consiglio.
Ezra si stringe nelle spalle, in una camicia bianca dal taglio classico che mi ricorda una divisa scolastica. 
“Fai schiattare il tesorino, prima che ritrovi la voce per gridare...” trattengo il respiro, mentre gli occhi sgranati di Lily Prescott mi squadrano vitrei “E non guardarmi con quell'espressione inorridita, per l'amor del cielo Elliot! I miei dubbi sulla riuscita di questa rimpatriata con delitto erano noti. Ora, se della mia lucidità d'analisi vuoi fare a meno, basta che tu la smetta di volermi qui, diamine!”
Sempre più indipendente dalla mia volontà, lui diventa reale costringendo me a dissolvermi. E tutta l'inettitudine di una vita trascorsa a scomparire, semplicemente si adatta all'adagio, cancellando con pazienti e sclerotici colpi di spugna quello dei due che non è mai esistito davvero. 
“Ezra”
“Se intendi supplicare fallo ora. Ho una cena con Sigmund Freud che si prospetta lunga da qui all'eternità. Esitare riduce drasticamente il tempo a disposizione per la scelta della cravatta” si avvicina alla ragazza, sedendosi sui talloni sotto il tavolo. Solleva una mano, afferrando il coltello per sfilettare il pesce avvolto in un tovagliolo di lino.
“Un appunto: se possibile, niente fantasie falliche. Non ho semanticamente intenzione di passare l'eternità a cena con Freud. Comprendi il disagio?”
“Ezra!” la lama affonda troppo facilmente nel torace di Lily. Lei a malapena se ne accorge.
“Non crucciarti per la tua anima, ho una soffiata per te. È il Babbo Natale di queste parti. Te la bevi solo se non hai una fratello maggiore che riversa su di te la frustrazione di averci creduto fino a dodici anni” estrae la lama decorata da un fiotto di sangue arterioso dal corpo di Lily Prescott. L'asciuga con l'orlo della tovaglia e me lo porge “E ora, ti prego, Elliot, dimostra di essere meno-” 
E' sorpreso, quando la sua camicia immacolata si squarcia. Quando la pelle al di sotto si squarcia. Quando, probabilmente nello stesso istante, anche la tenera carne fibrosa del cuore si dissolve contro l'acciaio freddo.
Sorpresa nei suoi occhi, e una straordinaria eccitazione. Soddisfazione, anche.
Tutto sommato, è morto da quindici anni. 
Forse, se c'è stato un attimo di stizza nel suo ricadere composto sulla sedia a capotavola lasciata libera dall'incontinenza che il vino provocava in nostro padre, è per aver rovinato un Varvatos su misura. 
Lo osservo comporsi teatralmente, il viso delicato, la linea sicura delle spalle, il mento sul petto, le mani appoggiate ai braccioli. Solo io posso vederlo, eppure la sua uscita di scena deve lasciare sena fiato.
All'altezza del petto, una ferita aperta lascia scorrere fiotti di sangue scuro sul mio completo.
Macchie nere sullo sfondo, un brivido di freddo.
Sono stanco.
In lontananza le sirene stridono sempre più forte. Il funereo silenzio che ho creduto di sentire finora è un brusio sommesso di colpi di tosse e conati. Terry Simmons e sua moglie Mirabelle aspettano un bambino. Nessuno dei due ha bevuto ma lei è svenuta quando gli invitati hanno cominciato a rotolarsi a terra sputando bile.
Mi fissano con l'orrore più autentico che un medioborghese impaurito potrebbe simulare.
Avvelenare il punch non è stata un'idea geniale. 
I deprecabili astemi e la loro aspettativa di vita salutista.
Il sangue cola dalla ferita di Ezra e dal mio torace, lasciandomi il tempo di accasciarmi scompostamente ai suoi piedi. La gamba del tavolo è spigolosa e ruvida contro le scapole.
Se qualcuno considera la vista del sangue un deterrente all'omicidio efferato, non ha consultato abbastanza siti web sui serial killer. È caldo, e denso, e pungente. Accecante e sinuoso, vischioso e mobile.
Agli occhi vitrei, le lacrime, e il tremore, prima o dopo ci si abitua.
Anche Ezra deve aver pianto, nel suo letto a castello, mentre gli cacciavo a forza in gola il braccialetto d'argento con le nostre iniziali.
Eleganza e prestigio.
Nostro padre sarebbe così fiero.
 
 
In genere le buone famiglie
sono peggiori delle altre.
(Anthony Hope, Il prigioniero di Zenda)


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Note sparse: L'idea di questa ff è venuta così, incontrando per caso la gif che ho inserito all'inizio del capitolo^^ Un'ispirazione decisamente radicale, come tutte lo sono per me, che finisco a buttarmi in quattrocentomila progetti perchè non riesco a star ferma^^
Non sapevo a che genere appartenesse questa OS. Alla fine il generale ha vinto^^
Non ho molto da dire onestamente, se non che potete trovarmi qui con la mia roommate adorata, e se siete appassionati di noir o di paesaggi urbani decadenti, questo è il contest che fa per voi^^
   
 
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