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Autore: RubyChubb    10/11/2007    13 recensioni
Quello era troppo. Non era semplicemente la classica gocciolina che faceva traboccare il vaso. Era il macigno che si staccava dal fianco della montagna e cadeva direttamente dentro al bacino artificiale e squarciava completamente la diga, portando via tutto nel raggio di circa trenta chilometri. ---
Ragazze... l'ho fatto. RubyChubb lo ha scritto, contro tutte le vostre aspettative... Questo è il seguito ufficiale di 'Last night a rocker saved my life' e di 'Rock my life'
Genere: Generale, Commedia, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Life, Love and Hate by Tom and Mac' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Ebbene sì… Ebbene sì… Ebbene sì…

Avevo detto che non lo avrei fatto…

Ed invece l’ho fatto… Questo è il seguito di 'Last night a rocker saved my life (but not my broken heart)' e di 'Rock my life'... La coppia Mac e Tom...

Non dirò altro, solo che spero che vi piaccia anche più degli altri due capitoli!!! E che mi recensirete il doppio, ovviamente, ma questo lo dico sempre!

Per la vostra felicità.... cioè, anzi, diciamola così, ho dovuto mettere ROSSO come rating, purtroppo... e capirete perchè...

Quindi, che lo spettacolo inizi!

With love - RubyChubb

 

DISCLAIMER: i personaggi qua sotto citati, esclusi quelli di mia invenzione, non sono stati utilizzati per scopo di lucro. Né intendo dare con questa storia rappresentazione veritiera delle loro vite. Se, in fondo ad ogni capitolo, non ci saranno disclaimer su personaggi, canzoni, o quant’altro inventato da altri citati nel chap, si considerano comunque ‘no scopo di lucro’.

 

 

 

1. NOTHING LASTS FOREVER

 

Andò con noncuranza verso la porta, grattandosi la gamba. Sbadigliò, senza mettersi la mano davanti alla bocca. Starnutì, come faceva sempre appena sveglia. Beh, era pomeriggio inoltrato… una dormita un po’ troppo lunga, ma necessaria, se andava a letto alle cinque del mattino.
Passò davanti a tre porte: un’altra camera, un bagno, camera degli ospiti….
Qualcosa la bloccò…
La fece tornare indietro, sui suoi passi.
Uno, due, tre quattro passi indietro, davanti alla porta del bagno.
Una cosa fastidiosa, talmente insopportabile, così indescrivibilmente odiosa le entrò come una trave dentro l’occhio.
 

La tavoletta del gabinetto alzata.
Decise che era da troppo poco tempo in piedi per potersi arrabbiare.

 
Uno, due, tre, quattro passi avanti.
Poi un altro oggetto la spinse a indietreggiare.

 
Un paio di mutande penzoloni sul bordo della vasca.
Si era appena svegliata, non poteva farsi montare l’incazzatura per quel cazzo di paio di cazzose mutande su quel cazzo di bordo della vasca.

 
Uno, due,tre… nemmeno il quarto passo in avanti.
Tornò di nuovo indietro, in cerca di qualche altro pugno nell’occhio.

 
Scarpe da ginnastica puzzolenti vicino al lavandino.

 
Quello era troppo. Non era semplicemente la classica gocciolina che faceva traboccare il vaso. Era il macigno che si staccava dal fianco della montagna e cadeva direttamente dentro al bacino artificiale e squarciava completamente la diga, portando via tutto nel raggio di circa trenta chilometri.

 
Prese le mutande. Prese le scarpe.
Uscì dal bagno.
Si ricordò della tavoletta.
Tornò nel bagno e la abbassò.
Visto che c’era, tirò anche lo sciacquone.

 
Tornò fuori dal bagno, con in braccio il risultato del suo pessimismo quotidiano, e andò nella camera da letto. Con la mano rimasta libera scostò la tenda nera, facendo entrare il sole di settembre dentro la stanza.
 
Un gorgoglio sotto le coperte. Una richiesta di pietà. Voleva dormire ancora… solo cinque minuti.
“Cinque minuti…”, ripetè lei, mentre si stropicciava il naso. Quando il naso pizzicava, era segno che una bella litigata era in arrivo…
“Dai… ti prego… abbiamo fatto tardi ieri sera.”
“No… tu hai fatto tardi. Io volevo tornarmene a casa presto. Stamattina avevo un colloquio, meno male che ho potuto spostarlo a domani.”, disse lei. Si stava quasi dimenticando delle scarpe e delle mutande che aveva in mano, “E comunque… questa roba qua! Lo sai qual è il suo posto!”
"E che palle… erano le cinque di notte! Chiudi un occhio almeno per questa volta!”, disse lui, scostandosi definitivamente le coperte dalla faccia.
“Te lo chiudo io uno occhio… Kaulitz!”, esclamò lei, prendendo una scarpa e iniziando picchiarlo sulle gambe, ma non troppo forte. Anche se a volte avrebbe voluto strozzarlo con le sue mani… poi non riusciva mai a farlo!
“No… smettila! Basta! Mi fai male!”, disse Tom, cercando di fermarle le mani, “Sei una serpe Rosenbaum!”

 

 

***

 

Non ci poteva credere.
Quello che si era promessa di non fare mai e poi mai, all’inizio della loro storia tormentata, che sapeva tanto di telenovelas, era concedersi alla stampa. Cioè, era lui quello famoso, lei era la ragazza di provincia. E come si diceva popolarmente, lei era la grande donna (dietro) del grande uomo. Grande… era Tom Kaulitz, non John Fitzgerald Kenney o Orson Welles.
Ma cosa ci poteva fare? Già dopo due mesi che si frequentavano, iniziavano ad essere pubblicate fotografie di una strana e infida ragazza che si intrufolava in casa Kaulitz… e non era la signora che faceva loro le pulizie. Poi uno scatto di un bacio rubato in macchina, davanti alla casa di questa ragazza. E da li si seppe tutto: nome, cognome, data di nascita, professione… insomma, la carta di identità di Mackenzie Rosenbaum pubblicata su tutti i giornaletti stupidi delle ragazzine.
Domande idiote all posto di lavoro, sguardi strani dei suoi amici… poi qualche fotografo che si piazzava sotto casa sua. Occhiatacce delle ragazzine che incontrava nei centri commerciali. Paroline poco amorevoli alle sue spalle.
Insomma, non era da tutti i giorni vedere la propria faccia pubblicata sul giornale! E non era da tutti i giorni essere odiata da delle perfette sconosciute. E non era nemmeno da tutti i giorni trovarsi una lettera di minacce, scritta con le lettere tagliate dai giornali, infilata nella cassetta della posta.
Ma quando iniziò a diventare paranoica, non per le minacce verbali, ma per gli scatti dei giornalisti, decise che era meglio dare retta a Tom. Cambiare casa. Lasciare la casa che aveva acquistato, lasciare il mutuo che le pendeva come la spada di Damocle sul collo, lasciare la terribile vicina di casa e tutti i suoi gatti che le facevano venire l’allergia…
Per andare dove?

Ma che bella idea! Fare bagagli, valige, scatoline e scatoloni, prendere tutta la propria vita e impacchettarla con i vecchi giornali.
Lo odiava.
Le era bastato farlo quando si era trasferita dalla vecchia casa di sua zia a quel suo appartamento. E aveva sperato di non farlo mai più. Ma cosa aveva potuto dire quando un paio di occhioni castani le avevano chiesto, prendendole teneramente la mano, di andare a vivere con lui? Cosa aveva potuto dire, se non sì…
“Cosa?!? Non ci penso nemmeno a venire a vivere con te! Già litighiamo ottantasei ore su ventiquattro!”, disse Mac a Tom, “Non voglio finirmi la bile!”
“Ma senti cosa devo sentire… sei proprio… sei proprio…”, disse lui, infiammandosi.
“Sono ragionevole Kaulitz.”, disse lei. Ancora lo chiamava in quel modo. Non era capace di chiamarlo Tom… E lui non poteva chiamarla in altri modi se non Rosenbaum, oppure Rose, se proprio voleva essere romantico.
Lui aveva scosso la testa, calcandosi il capellino sulla fronte. Era segno che la discussione era finita per lui, che non sarebbe più stato a sentirla. Poi lei lo aveva preso per la mano, tirandoselo verso di sé.
“Sei proprio sicuro di quello che mi stai chiedendo?”, gli disse dolcemente, guardandolo negli occhi.
“Certo che sono sicuro… nessuno sa che abitiamo qui. Così staremo tutti più tranquilli e tu non sarai assediata da ragazzine idiote e dai fotografi.”
Mac, che per un attimo aveva sperato di sentire quelle determinate parole, rabbuiò il suo viso.
“Ah! E’ così? Allora tu non me lo stai chiedendo perchè vuoi vivere con me, perchè mi ami… ma solo perchè vuoi togliermi da un impiccio!”, fece, esplodendo di nuovo.
Era così.
Finita una litigata, ne iniziava un’altra.

 
Ma tutti sapevano che la catena non si sarebbe spezzata molto facilmente. Lo sapeva anche Bill, che viveva insieme a loro. Da quel famoso natale, aveva assistito a tutte le loro discussioni casalinghe ed aveva alzato il volume del televisore, passivamente, come fanno i figli durante i bisticci dei genitori. Oramai ci era abituato! E non gli dispiaceva che Mac fosse venuta a vivere stabilmente in casa sua. Da quando c’era lei aveva notato il profondo cambiamento di Tom e ne era rimasto molto contento. Almeno lei riusciva a metterlo in riga!
Accanto ai Tokio Hotel, aveva affiancato una prosperosa carriera televisiva, accoppiato con quel gran pezzo di gay quale era Thiago, il migliore amico di Mac. Avevano creato insieme una serie televisiva di successo, chiamata ‘Primadonna ed Io’, in cui entrambi recitavano. Il protagonista non era Bill, che interpretava un modello esasperato di se stesso, cioè il cantante famoso e le sue crisi da star, ma Thiago, il suo manager ad alto potenziale omosessuale e le strane vicende che ogni volta si creavano tra i due ed il mondo dello spettacolo. Era un telefilm molto seguito e la seconda serie, che era stata trasmessa fino all’inizio dell’estate, aveva visto la partecipazione di numerose star del jet set tedesco, ma anche internazionale, che interpretavano se stesse o personaggi ‘anonimi’, creando gag abbastanza esilaranti, di solito basate sul non sense e sui fraintendimenti.
Insomma, la casa dei Kaulitz era diventata una specie di porto franco. Grande com’era, riusciva ad ospitare benissimo i due fratelli, Mac ed anche Thiago, che vi risiedeva nei periodi in cui c’era da lavorare in terra germanica. L’unico piano in comune era il piano terra: il secondo era riservato a Bill e, eventualmente, c’era la camera di Thiago. Il terzo era di Tom e Mac. Anche i due fratelli avevano deciso di spostarsi dalla vecchia casa, per trovarne una spaziosa abbastanza per tutti  loro.
Oramai, aveva visto qualsiasi scena davanti ai suoi occhi: Mac che minacciava Tom con un mestolo di legno, Tom che si ribellava rincorrendola per tutto il giardino con un tubo di plastica per annaffiarla… Thiago che si disperava perchè aveva finito la ceretta per i suoi peli del petto…
Insomma, casa Kaulitz poteva diventare una sit-com.
Dal successo assicurato.
D’altronde, come era sempre stato.


Ma Mac ancora non poteva raccapezzarsi, non riusciva a ripercorrere quel procedimento logico che l’aveva portata a dire sì a quell’intervista fotografica. Due settimane prima Tom aveva ricevuto una chiamata da una rivista di moda. In principio, aveva chiesto per ben tre volte se avessero chiamato il Kaulitz giusto, dato che era sempre Bill ad essere contattato da giornali del genere. Poi, accertatosi che era Tom che volevano, aveva domandato quale fosse stata la questione da sottoporgli.
“Volevamo fare un’intervista a lei ed alla sua fidanzata Mackenzie, corredata anche da un servizio fotografico… non so se legge la nostra rivista, ma facciamo molti di questi servizi.”
“Beh… sì… la leggo.”, disse lui, mentendo profondamente.
“Ecco, ci chiedevamo se eravate disponibili… magari nelle prossime settimane. Volevamo pubblicarla per il mese di novembre.”

“Dovrei sentire lei… comunque non credo che sarà d’accordo.”
“Forse sapere che molte delle nostre lettrici ci hanno scritto dicendoci che trovano lo stile di Mac come un modello da seguire l’aiuteranno a cambiare idea a nostro favore.”, disse con voce suadente la ragazza con cui stava parlando. Beh, un tempo avrebbe subito pensato ad una determinata cosa. E quel tempo era tutt’ora attivo, tranne che lo nascondeva abilmente. Anche se era, diciamo, fidanzato (oh, che brutta parola) sapeva qual era il bene e qual era il male.
Poi riflettè… Mac come modello? In che senso?
“In che senso scusi?”, chiese.
“Beh, mi dispiace, non volevo offenderla.”, disse subito la ragazza, notando un certo fastidio nella voce di Tom.
“Assolutamente… volevo sapere che tipo di  modello era Mac… mi suona così strano…”
“Un modello nel senso del suo modo di essere, di vestirsi… così normale, così semplice, così uguale a tutte le altre.”
Se Mac avesse sentito quelle parole, si sarebbe imbufalita, pensò.
“Ho capito.”
“Essere come lei e stare con una star come Tom Kaulitz… beh, da molta speranza a tutte le donne di questo paese!”, disse lei, ridendo quasi maliziosamente.
“Ok… glielo proporrò.”
“La richiamerò domani.”, disse la ragazza, prima di agganciare.

La risposta di Mac lo sorprese… o forse no.
Cioè, Mac che diceva di sì ad un servizio fotografico concentrato sulla loro storia… questo era strano.
Mac che sorrideva al sapere di essere un modello per alcune delle lettrici di quella rivista… questo non era strano. Era una donna e le lusinghe facevano sempre effetto.
Eppure fu molto contento nel vederla a sua volta felice.
“Davvero vuoi farlo?”, le chiese.
“Certo… beh, non sarò abituata ad una cosa del genere, ma oramai è quasi un anno che stiamo insieme.”
Già… un anno, pensò Tom. E che anno! Se c’era una cosa di cui non poteva fare a meno era lei. Sì, questo era molto molto strano. Potevano litigare come pazzi, tirarsi dietro gli oggetti… ma alla fine non poteva resistere al suo sorriso.
C’erano dei giorni in cui non voleva saperne di lei, perchè si erano offesi così tanto che aveva bisogno di respirare aria pulita. Potevano passare giorni senza vedersi: lei, di solito, infilava qualcosa dentro uno zaino e se ne andava in un albergo. Ma poi tornava, o era lui a pregarla di tornare. Quante volte Bill gli aveva dato del rammollito, si disse, ma poi aveva sempre concluso la frase con: ‘Adesso mi piaci. Non come prima che sembravi una trottola.’.
Una volta si era davvero preoccupato… dopo un concerto, ad un after show, aveva ecceduto con l’alcol e una delle ragazze che gli giravano intorno si era avvicinata un po’ troppo. O meglio, lui si era avvicinato un po’ troppo a lei. Mac, che non aveva previsto di essere nei dintorni, li aveva beccati a baciarsi in un angolo, in disparte ma sotto gli occhi di tutti. L’avevano chiamata contemporaneamente, al telefono, Bill, Georg e Gustav.
Quella volta lei aveva impacchettato tutti i suoi vestiti, dal primo all’ultimo, e se ne era tornata a vivere da sua madre. Non rispondeva al telefono e non aveva dato a nessuno, nemmeno il suo recapito. Un mese intero chiusa in casa, lontana da tutti e anche dal suo lavoro. Oramai era diventata una free lance ed aveva solo un piccolo contratto di collaborazione con una rivista di musica, che spesso la contattava per servizi, appunto, sui Tokio Hotel. Era una fotografa indipendente, quindi nessun orario di lavoro se non quello che decideva lei.
Un mese in solitario, a fare la casalinga da sua madre e da suo padre, che puntualmente le ricordavano quanto fosse sbagliata quella sua relazione. Formalmente, non aveva mai presentato Tom ai suoi: virtualmente non ce n’era bisogno, sapevano chi era e a loro non piaceva affatto, ma più che altro era a lei che non interessava farlo. Non c’era un motivo specifico, solo non le andava.
Un mese in solitario, Tom e Bill. Fu Bill ad implorare Thiago di contattare Mac, in un modo o in un altro, perchè non sopportava più quel campione olimpico di lamenti di suo fratello.
“Allora dici di sì? Vuoi davvero fare questa intervista?”, le chiese di nuovo, per conferma.
“Sì, va bene.”, ripetè Mac, e gli dette un bacio.

 

“Facciamo prima l’intervista o il servizio fotografico?”, chiese loro una signora sulla quarantina, ma molto giovanile nel suo abbigliamento elegant-casual.
“Beh… non saprei…”, disse Mac, stringendosi tra le braccia, “E’ lui quello abituato ai giornalisti.”
“Ma non sei anche tu una fotografa? So che spesso viene ingaggiata anche come intervistatrice…”, le domandò la donna.
“Sì… vabbè, facciamo prima l’intervista.”, disse Mac, che non era interessata a sciogliere quel ginepraio di pensieri che le stava tempestando la mente. Al sentire le sue parole, alle loro spalle il team del fotografo si dette automaticamente una pausa, spegnendo le luci di scena e lasciando il set, composto semplicemente da un telone bianco e da luci neutre.
“Va bene… sedetevi qua, nel frattempo vado a prendere da bere.”, disse la donna, indicando loro un comodo divanetto, fronteggiato da una poltrona.
“Stai calma… vedrai, andrà tutto bene.”, le disse Tom in un orecchio, “Non essere così nervosa.”
“Di solito sono io a fare le domande e le fotografie…”, fece Mac, mettendosi i capelli biondi dietro alle orecchie e nascondendo le mani dentro alle maniche del suo pullover color lilla. Non era il suo colore preferito, ma andava dannatamente bene con la sua gonnellina a pieghe ed i suoi anfibi al ginocchio, come l’avevano consigliata contemporaneamente Bill e Thiago.
“Quest’aria da punk perbenista… un’evoluzione nel tuo look!”, aveva affermato Thiago, mentre le aggiustava il colletto della camicia bianca, che spuntava fuori dal maglioncino, “Hai abbandonato quegli orripilanti pantaloni a quadretti, vero? Facevano così misto barbona…”
“Misto barbona?!”, ripetè Mac, quasi offesa.
“Sì… insomma, ti ho portato un bel paio di shorts firmati Dannatament&Gnocca! Te li sei mai messi?”, fece lui. Con quel Dannatament&Gnocca indicava una celeberrima firma italiana, composta dalle prime due lettere dei cognomi dei due stilisti, e che lui aveva  abilmente riadattato.
“Thi…. Sembrano dei boxer….”, fece Mac, incrociando le braccia. Erano talmente corti che sembravano mutande, “Tom li ha scambiati per un paio di sue mutande e se li è portati per un mese prima che me ne accorgessi.”
“Siete degli assassini! Avete ucciso la moda!”, esclamò l’altro, infuriato per la disaccrazione che quei due avevano fatto al nome del buon gusto.
“Calze nere, calze a rete, calze decorate… o calze colorate?”, chiese Bill, portando alcuni esemplari dei collant di Mac.
“Colorate… a righe!”, disse subito lei, prediligendo le sue calze preferite.
“Assolutamente sbagliato!”, esclamò Thiago, assumendo l’espressione del celeberrimo urlo di Munch, “Calze a rete.”
“Ti sembro una prostituta?”, disse Mac, disgustata dalla scelta.
“Ok… calze decorate… la rosa laterale va bene.”, fece l’altro, spulciando tra i collant e scegliendone un paio liscio sul davanti, con delle rose ricamate sui lati.

 

“Molto bene.”, disse la donna, premendo il pulsante record sul suo registratore e appoggiandolo sulle sue gambe, “Iniziamo l’intervista con te, Mackenzie.”
“La prego, Mac. Mi chiami Mac.”, disse la ragazza.
“Va bene Mac… mi parli pure brevemente di sé stessa. Sa, ho letto qualcosa per preparare l’intervista e non sono riuscita a distinguere realtà dalla fantastia.”, disse la donna.
Era vero, sui giornali che avevano pubblicato articoli su loro due si poteva leggere di tutto: da Mac spogliarellista in un night club, a dolce commessa di negozio per bambini. Insomma, un mucchio di cazzate che le avevano fatto perdere la pazienza più di una volta ma, su consiglio di Tom, che era abituato a vedere pubblicate storie incredibilmente false sul suo conto, aveva imparato a dargli l’importanza che si meritavano.
“Beh… cosa posso dire. Mi chiamo Mackenzie Rosenbaum, ho ventisette anni.”
“Ventisette?”, chiese la giornalista, interrompendola.
“Sì… ho un anno, quasi due, più di Tom…”, disse Mac, voltandosi per guardarlo. Lui le sorrideva dolcemente e, con il braccio che le cingeva la vita, le faceva un lieve solletico sul fianco. Anche lui si era sottoposto alle ‘cure estetiche’ di Bill e Thiago, che gli avevano tassativamente proibito di mettersi cappellini e fasce varie, che avrebbero coperto i suoi rasta, già lunghi sotto al suo orecchio, tantomeno di indossare abiti di taglie più grosse della sua. Contrattando aspramente per più di mezzora, aveva accettato di indossare un maglioncino nero aderente a collo alto,  a patto di farlo contrastare con i pantaloni extra large vecchio modello.
“Devo ammettere che proprio non si nota questa differenza.”, disse la giornalista.
“Beh… grazie.”, disse Mac, arrossendo, “Comunque, tornando al discorso, sono una fotografa indipendente, ma continuo a collaborare saltuariamente con la rivista ‘Rock On’. Soprattutto vendo loro servizi sui Tokio Hotel.”
“E su chi sennò.”, disse Tom, facendola sorridere.
“Beh, mi hanno anche chiamato per fare uno speciale sui Muse e devo dire che mi sono divertita più con loro che con voi!”, disse Mac.
“Che traditrice…”, fece Tom, giocando con la sua affermazione e facendo sorridere anche la giornalista.
“Ha fatto anche altri lavori?”, domandò poi la donna.
“Sì, sono stata assistente sottopagata di redazione in una rivista che oramai non pubblica più niente… o forse ha cambiato nome, non so. Comunque si chiamava ‘Pop my life’. Poi ho anche lavorato in un locale come guardarobiera, prima di buttarmi nella fotografia.”
“Bene… penso che possa bastare come inizio… andiamo avanti, come vi siete conosciuti? C’è chi dice che vi hanno presentato ad un party…”
“No, non è vero. Ci siamo conosciuti quando lei lavorava per ‘Pop my life’. Venne con una giornalista della redazione, faceva la sua assistente… fu un momento abbastanza esilarante!”, disse Tom, sorridendo al ricordo di quei momenti,  “La giornalista la lasciò improvvisamente da sola e lei non sapeva più che pesci prendere!”
“Le era nato il suo primo nipote…”, disse Mac, “Quanti anni fa è successo?”
“Otto lunghissimi anni fa.”, fece Tom.
“E da quel momento state insieme?”, chiese la giornalista.
“No no, ne è passato di tempo prima di compiere questo passo …”, disse Mac.
“Sì, è vero. Dopo quell’intervista siamo diventati tutti suoi amici poi, per un motivo o per un altro, non ci siamo più visti per sei anni. Ci siamo incontrati per il matrimonio del nostro Georg.”
“Sì, e abbiamo ripreso la nostra amicizia.”, continuò Mac.
“Poi un altro anno separati.”
“E poi ci siamo…”
“Conosciuti approfonditamente,”, disse Tom, ridendo, “la notte di Natale.”
“Ci siamo ritrovati per Natale, è vero!”, fece Mac, ripensando a quella festa, tenutasi nella vecchia casa di Tom.
“E come mai tutte queste separazioni?”, venne automaticamente da chiedere alla giornalista.
“Beh… penso che sia stata un po’ per colpa di entrambi.”, disse Mac.
“Ma vi siete piaciuti subito?”
“A dire il vero no, almeno non per me.”, disse Mac, “Sinceramente non avevo mai posato gli occhi su di lui. Il nostro rapporto era sempre venato di molto sarcasmo e molta ironia, ci becchettavamo sempre.”
“Almeno non per te? Significa che non è stato lo stesso per Tom.”, sottolineò la giornalista, deducendolo dalle sue parole.
“Infatti… sì, mi era piaciuta da subito, mi aveva molto colpito. Ma avevo solo diciassette anni e non lo compresi subito. Poi quando ci siamo incontrati di nuovo… insomma, ci siamo scoperti a vicenda.”
“Vivete insieme?”
“No.”, disse Tom. Mac, che avrebbe risposto di sì, si voltò a guardarlo, nascondendo il suo stupore. Sicuramente lo aveva detto per un motivo ben preciso, pensò.
“No, non abitiamo insieme.”, disse Mac.
“Mac, questa domanda è rivolta direttamente a te. Sai che molte fans di Tom non ti vedono molto di buon occhio?”, le domandò la giornalista, “Mi azzarderei quasi a dire che per loro sei come fu Yoko Ono per i fans dei Beatles… la rovinatrice dei Tokio Hotel!”
“Sì, è una cosa che ho capito poco dopo che abbiamo iniziato a frequentarci. Ma sinceramente non mi interessa più di tanto. Io non sto rovinando nessuno. Possono pensare ciò che vogliono.”
“Non sei gelosa affatto?”, le domandò Tom, scherzosamente.
“Per me puoi avere tutto il mondo ai tuoi piedi. L’importante è rigare diritto, Kaulitz.”, gli rispose Mac, a metà tra il serio e l’ironico, dandogli un colpetto sulla mano.
“Me la sono meritata…”, fece Tom.
“Già…”, disse l’intervistatrice, “Non la spaventano le sue fans, che hanno messo in piedi un sito contro di lei, Mac?”
“Davvero? Ho un sito internet tutto mio senza saperlo?”, fece lei, “Tu lo sapevi?”
“No, proprio non lo sapevo.”, rispose Tom, cadendo dalle nuvole come lei.
“Sì ed è visitato quotidianamente da più di diecimila persone.”, precisò la donna.
“Oh cavolo! Sono famosa!”, esclamò Mac, sarcasticamente.
“Stanno facendo una petizione per farvi lasciare.”, disse la donna.
“Se non sono sufficienti le nostre litigate a farci lasciare… figuriamoci una petizione!”, disse Tom, ridendo.
“Litigate spesso?”
“Sì, abbastanza.”, disse Mac, che avrebbe preferito tenere nascosto quel particolare, “Il più delle volte solo per stupidaggini.”
“Come si dice? L’amore non è bello se non è litigarello.”, disse la giornalista, sorridendo, “E come sono le vostre discussioni?”
“Beh… come vuole che siano…”, disse Tom, infastidito da quell’ovvietà, “Litighiamo, ci prendiamo a parole…”
“Ci tiriamo dietro le cose.”, aggiunse Mac, quasi sussurrandolo, mentre faceva la gnorri guardandosi intorno.
“L’ultima volta mi voleva buttare dentro la piscina.”, disse Tom.
“E la volta precedente mi ci hai spinto tu dentro.”, precisò Mac.
“Amore violento?”, disse la giornalista.
“No!”, risposero entrambi, contemporaneamente.
Come no… altro che sì.
L’intervista si concluse di lì a poco, dato che né Tom né Mac volevano rispondere a domande troppo… piccanti. Cioè che riguardavano la loro vita molto privata. Tom fu contento di rispondere a domande che riguardavano il suo lavoro: anche lui, come Bill, accanto ai Tokio Hotel aveva affiancato un’attività che aveva a lungo sognato, negli ultimi tempi, ossia produrre altre band. Mettersi in sala registrazione e maneggiare su quei pulsanti, decidere quanta chitarra aggiungere, togliere un po’ di basso, mettere più rullante… Poteva sembrare un lavoro facile, ma dividersi tra il proprio gruppo e un altro di cui si era fatto ‘mentore’ non era per niente un gioco da ragazzi. Ma gli ‘Asian Fever’, musicisti divisi tra rock e melodie hip hop, gli rubavano quasi più tempo dei Tokio Hotel.

 

La giornalista li ringraziò per il tempo concessole e li lasciò nelle mani del fotografo.
“Come sono andata?”, gli domandò Mac, “Bene?”
“Certo che si.”, disse lui, schioccandole un bacio sul collo, “Sei andata benissimo Rosenbaum.”
“Credi che la giornalista traviserà completamente le nostre parole? Scriverà tutto quello che non le abbiamo detto?”
“Forse sì, ma se ci prova la strozzo.”, disse Tom.
“Bene bene bene!”, esclamò il fotografo, “Un po’ di trucco!”
I due ragazzi si trovarono assediati da spugnette di cipria e da spazzole nei capelli, spuntate improvvisamente alle loro spalle per dare loro una sistemata. Non che fossero proprio disastrati, ma per il fotografo una ritoccatina all’aspetto era fondamentale prima dell’inizio del suo servizio.
“Perfetto, mettetevi sul set, sopra la croce rossa.”, disse loro, molto sbrigativamente, “Tom, tu valle dietro, abbracciala e appoggia il viso contro il suo.”
“Così va bene?”, chiese lui, dopo che ebbe cinto la sua ragazza sui fianchi.
“Tienile le mani.”, lo corresse lui, “Incrociate le vostre dita e sorridete.”
Tom, che non riusciva a stare fermo durante i servizi fotografici, iniziò a giocare con Mac, facendole il solletico ovunque ed ignorando le direttive del fotografo. Ad ogni posa diversa, trovava sempre il modo per fargli scappare la pazienza. Mentre la teneva in braccio la faceva dondolare e gridare dalla paura di cadere in terra.
Poi mentre se ne stavano stesi per terra, su un fianco, con Mac che teneva la sua testa appoggiata sul braccio piegato, Tom, sdraiato dietro di lei, le dava dei pizzicotti sul sedere.
Seduti a gambe incrociate, l’uno di fronte all’altro, lui le faceva le boccacce.
Ma riuscirono anche a recuperare un po’ di serietà, quando l’assistente del fotografo dette loro un paio di chitarre elettriche.
“Ecco, adesso, se riuscite a non fare i bambini dell’asilo,”, disse l’uomo, “Comportatevi come delle rock star.”
Tom imbracciò subito la sua chitarra, Mac gli si affiancò, appoggiando la sua schiena contro la sua spalla e usando la chitarra come se fosse stato un bastone. Con le mani una sopra l’altra sulla testa della chitarra, e la gamba destra piegata con la punta del piede che toccava terra, guardava sorridente l’obiettivo.
“Molto bene!”, disse il fotografo, finalmente contento, dopo cinque o sei scatti, “Adesso mettetevi così.”
Andò verso di loro e, come fossero manichini, li mise nella posizione che voleva. Fece sedere Tom, a gambe incrociate, con la testa appoggiata sulla mano, in contrasto con il suo ginocchio.
“Fai un espressione alla Ollio quando Stanlio fa una cavolata.”, gli disse il fotografo.
“E… come sarebbe?”, gli chiese.
“Fai la faccia che ti pare.”, rispose l’uomo scocciato, “Tu, Mac, mettiti alle sue spalle, gambe divaricate, e fai finta di suonare la chitarra.”
Detto e fatto, gliela fece indossare ma Mac, che era mancina per natura, dovette cambiare direzione dello strumento, altrimenti non avrebbe saputo come suonarlo, se non goffamente.
“Ah… sei mancina?!?”, le fece Tom, con falso stupore.
“Stai zitto o te la rompo in testa.”, disse lei, ridendo.
Il fotografo, oramai rassegnato all’irriducibilità dei due, fece qualche scatto annoiato e, quando finì, fu contento di andarsene a casa a riposarsi. Tom, che era un giocherellone per natura e poco sopportava i servizi fotografici, aveva approfittato di quel momento per divertirsi con Mac.
“Ma che ti era preso!”, gli disse lei, una volta dentro alla piccola stanza che avevano affidato loro come ‘camerino’, “Il fotografo stava quasi per picchiarti con la sua macchina!”
“Mi stava antipatico a morte, era troppo serio per me…”, si giustificò lui, “E poi mi volevo divertire con te…”
Le si avvicinò e la abbracciò, appoggiando la fronte contro la sua. Iniziarono a dondolarsi, come per seguire una melodia inesistente.
“Sì… ma sicuramente siamo venuti dei mostri in quelle fotografie. Tutto per colpa tua.”, disse lei.
“Tranquilla, siamo noi a scegliere quali pubblicare e quali no.”, fece Tom, “Quindi sceglieremo solo le foto che ci piacciono.”
“Speriamo bene.”
Tom la baciò, profondamente, lasciandola quasi senza fiato. Gesto che poteva significare solo una cosa. Quella cosa.
“Dai… adesso non è proprio il momento…”, disse Mac, che cercava di riprendere il controllo di sé, ignorando i piccoli ma potenti baci che le stava dando sul collo.
“Sai a cosa stavo pensando durante il servizio?, disse lui, senza fermarsi, ed iniziando a muovere le sue mani sotto al maglioncino di lei.
“A cosa?”
“Che sarebbe stato molto eccitante iniziare a farlo lì… davanti a tutti…”
“Oh sì, una cosa bellissima…”, disse Mac, sarcasticamente.
“Non prendermi in giro.”, sbottò lui, prendendole con forza i fianchi.
Altro segno, il cui significato era ben preciso. Non si stava arrabbiando, stava semplicemente definendo la sua posizione di ‘maschio dominante’. Il che aveva come conseguenza un tipo di sesso molto particolare… il preferito da entrambi.
“Non c’è la chiave nella porta.”, gli ricordò Mac, guardandolo molto maliziosamente.
Tom la lasciò, si affiancò al divano che stava vicino all’entrata e lo spinse fino a che la porta non fu completamente bloccata.
“Contenta adesso?”, le disse.
Mac non gli rispose a parole, ma a gesti: si tolse il maglioncino, rimanendo con la camicia bianca. Lui se la riprese e, baciandola avidamente, gliela sbottonò in un secondo. Poi la afferrò per i fianchi e la avvicinò al muro…

 

“Diamine Tom! Mi hai rotto le calze!”, esclamò Mac, mentre cercava di rivestirsi. Lui, steso sul divano, in piena pace post-sessulale, non aveva la benché minima intenzione di riassettarsi. O meglio, era già completamente vestito, aveva solo i pantaloni abbassati… insomma, non era stato completamente necessario per lui togliersi gli abiti. E poi gli piaceva farlo in quel modo, in determinate situazioni… Con tutti i vestiti indosso, mentre si divertiva a togliere quelli di Mac.
“Non te le metti… è anche meglio…”, rispose, apaticamente.
Qualcuno bussò alla porta, era l’assistente del fotografo che chiedeva loro se entrambi fossero ancora lì dentro.
“Sì!”, esclamò Mac, imbarazzata, “Un momento e usciamo.”
“Tutto a posto?”, chiese di nuovo il ragazzo.
“Mai stato meglio.”, disse Tom, alzandosi e riappropriandosi dei suoi pantaloni bracaloni. Aveva bisogno di una sigaretta, e subito. Mentre Mac si pettinava i capelli allo specchio e si riassettava il trucco, se la fumò in santa pace, con la schiena appoggiata contro il muro sui cui lo avevano appena fatto. Cosa c’era di meglio di una bella scopata selvaggia?
La guardava pettinarsi i lunghi capelli biondi, sciolti, che rimanevano impigliati nella lana del suo maglioncino. Poteva avere tutte le donne di quel mondo; ad ogni after show, ad ogni festa, c’era sempre qualcuna che iniziava a sussurrargli pensieri molto allettanti, in un orecchio. Ma le altre, benché fossero veramente ‘belle da paura’ e lo mettessero terribilmente in tentazione, non erano Rosenbaum. Non erano Mac.
Mac era semplicemente Mac, lo aveva sempre pensato e lo avrebbe pensato fino all’ultimo giorno della sua vita. Non sapeva spiegarsi definitivamente il motivo per cui era irresistibilmente innamorato di lei. Non era bellissima, tutto sommato era decisamente carina quando decideva di mettersi in tiro per lui. Eppure poteva esserlo anche quando, per casa, si aggirava in pantofole, con una delle sue larghissime felpe dimesse, gli occhiali ed il naso gonfio per il raffreddore, che la faceva parlare come una papera.
Però il suo lato selvaggio, da ‘pervertito’, come lo chiamava Bill, continuava a vessarlo con pensieri su altre donne. Non poteva farci niente, era una parte innegabile di se stesso. Ma a sue spese aveva imparato a metterlo a tacere, anche quando la sconosciuta di turno gli diceva flebilmente che ‘glielo avrebbe succhiato fino a farlo impazzire’.
A volte, tralasciando quella volta, fu quasi per cadere in tentazione, doveva ammetterlo. Ed era quasi sicuro che sarebbe successo un’altra volta. Ma non lo avrebbe fatto perchè i suoi sentimenti per Mac si sarebbero consumati nel tempo… era tutta colpa di se stesso, del suo carattere, del suo modo di essere… del Tom Kaulitz che c’era in lui. Quello con le cornina rosse e il forcone in mano…
Mac riusciva a capirlo all’istante, come solo Bill sapeva farlo. Lo guardava in faccia e subito lo comprendeva. E così era capace di farlo lui, anche se era un po’ più complicato… beh, le donne erano tutte, a modo loro, complicate. Anche se più di una volta si erano ringhiati in faccia e si erano minacciati di reciproche separazioni… erano irrefrenabilmente attratti l’uno dall’altra.

 

Nemmeno Mac riusciva a comprendere il motivo per il quale c’era sempre lui tra i suoi pensieri. Era odioso, era infantile, era scostante, era disordinato… ma era Kaulitz. Lei, che non perdonava nessun tradimento, aveva chiuso gli occhi ed era tornata da lui. Erano bastate centoventicinque rose a convincerla!
Sapeva che quelle continue litigate non erano per niente salutari, né per la loro storia, né per il suo pancreas, continuamente corroso dalla sua bile. Sapeva che, prima o poi, sarebbe tutto finito, stanca delle discussioni.
Eppure, quando si svegliava la notte, e lo trovava lì, accanto a lei, anche se dormiva a bocca aperta e a volte russava… non gli resisteva. Nonostante tutto, nonostante le brutte parole, nonostante quel suo ‘piccolo’ errore, Tom riusciva sempre a stupirla. Non si riferiva però a quelle piccole cose quotidiane che ogni donna desiderava dal proprio uomo… si riferiva bensì a come lui poteva cambiare, da un momento all’altro, da essere il Tom pubblico, quello che lei poco sopportava, quello dei Tokio Hotel, quello che ammiccava alle fans durante i concerti e si comportava da brutto maschilista, ad essere il suo Tom. Un tutt’altro tipo di Tom, quello privato. Un adulto bambino, una persona terribilmente consapevole della sua vita e del suo successo, che non aveva bisogno di nient’altro che di una persona accanto che lo stabilizzasse. Detta in questo modo, la loro storia sembrerebbe quasi un rapporto madre-figlio. Tutt’altro.
Si completavano a vicenda: quando era Mac a fare le bizze, era lui a prendere la parte dell’adulto responsabile e viceversa. Quando era lui ad aver bisogno di coccole, era lei a fargliele, e viceversa. Al di là dell’alchimia fisica, ce n’era anche una immateriale, legata ai loro modi di essere.

 
Ciononostante, entrambi erano mortalmente coscienti che l’amore non era per sempre.

L’amore bruciava l’anima, come il titolo di un bel film.

 

   
 
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