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Autore: The queen of darkness    22/04/2013    4 recensioni
"Mi chiamo Kagome Higurashi.
Sono viva.
E sono appena tornata a casa".
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Un po' tutti | Coppie: Inuyasha/Kagome
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 “Mi chiamo Kagome Higurashi”.
Tossì e sputacchiò un po’ di polvere, tornando lentamente alla vita. Davanti alle palpebre ancora chiuse, danzavano demoni sorridendi che abbracciavano umani ubriachi con visi promiscui. Le sue narici fremettero sentendo un odore forte, pungente, e sperò che tale olezzo non provenisse da lei.
“Ho sedici anni”.
La vista era annebbiata, ma le permise comunque di osservare una parete scura e viscida fatta di legno davanti ai suoi occhi. Dietro la sua schiena e ai fianchi era uguale: una gabbia scavata nel terreno, un bunker da cui le pareva impossibile trarre aria.
“Vivo a Tokyo”.
L’unica cosa che ricordava era che c’era stata un’esplosione di luce e potere, prima che la terra diventasse il cielo e che i fiori cominciassero a sussurrare il suo nome. Un enorme boato fatto di silenzio aveva squarciato l’aria come un’esplosione e l’aveva investita in pieno, travolgendola. La sua mano si era spasmodicamente stretta a quella di lui, sentendo gli artigli perforarle la carne nel desiderio di trattenerla.
“Ho una madre, un fratello di nome Sota e un nonno”.
Miroku, Sango, Shippo e tutti gli altri avevano i visi accartocciati in una smorfia d’orrore. Prima sorridevano sollevati, poi si erano finalmente resi conto che i due amici non li avrebbero mai raggiunti. Si portò faticosamente una mano davanti al viso, nello spazio angusto. I segni delle unghie c’erano ancora.
“La mia famiglia gestisce un tempio”.
Continuando ad eseguire il metodo imparato a scuola per controllare il panico, ovvero ripetere come un mantra delle frasi ovvie per recuperare la calma, cercò di mettersi a sedere, ma si rese conto di essere troppo incastrata per permettersi un movimento qualsiasi. Un lungo bastone rigido le si era conficcato in un fianco, premendo all’altezza delle costole.
“Devo diplomarmi entro un anno”.
Sentendo il proprio fiato venire meno con quella cosa infilatale nella carne, la strappò via da sé spasmodicamente, con una mano mossa nel buio. Toccandolo, si accorse che il guscio era ruvido e sgualcito, ma comunque familiare. Le sue sopracciglia si inarcarono in un movimento improvviso: quello era un fodero.
“Mercoledì prossimo ho la verifica di trigonometria”.
A tentoni partì alla ricerca frenetica del possessore di quel particolare oggetto. Se pensava bene, doveva trattarsi della stessa persona che le aveva tenuto la mano, aveva combattuto al suo fianco e che l’aveva baciata – baciata! – dopo che lei l’aveva desiderato per quasi un anno.
Le sue dita inciamparono in una pioggia di finissimi fili d’argento. Non riuscendo a vedere bene si affidò al tatto, li toccò a piene mani, fino a raggiungere un ammasso uniforme di capelli nivei. La testa. Era la testa di Inuyasha, ne era sicura: nessuno aveva una chioma tanto liscia eppure resistente.
“Quand’ero piccola volevo un cane”.
-Inuyasha! – cercò di chiamarlo, scuotendo disperata quella che credeva essere una spalla. –Inuyasha!
Dalla sua bocca uscivano gemiti strozzati, con un suono roco e sgradevole. Per un attimo temette che tutta la polvere che aveva ingerito nell’impatto l’avrebbe privata per sempre della sua vera voce, decisamente più armonica, ma l’importante era solo che lui si svegliasse.
Il suo corpo forte e ammantato di fuoco stava raggomilato su un fianco, abbattuto contro un lato del pozzo. Era troppo grande per poter stare in quello spazio minuscolo, infatti giaceva molto simile ad un manichino buttato via che non ad un guerriero. Tessaiga sporgeva fiera verso l’aria, come se fosse uno stendardo nobile di una casata importante. Era stato grazie a lei se Kagome si era svegliata.
-Inuyasha, ti prego, svegliati – piagnucolò, sentendo le lacrime pungere contro i suoi occhi. Era così disidratata che non riuscì a farne uscire nemmeno una, rimanendo a singhiozzare pateticamente come se non avesse più fiato. E, in effetti, era così.
“Mio nonno, invece, mi regalò un gatto”.
Non voleva arrendersi alla prospettiva che, dopo un’infinità di battaglie, di scontri e di avventure fosse davvero finita così, in un luogo sconosciuto. Non poteva continuamente vivere in un crudele gioco del destino, non poteva lasciare che l’amore finalmente manifesto per lui potesse sparire da un istante all’altro! Non sapeva nemmeno se fosse stata ancora nell’epoca Sengoku oppure nel presente, e neanche quanto tempo fosse passato dall’esplosione, semplicemente lasciava che le sue mani si aggrappassero alla stoffa resa oleosa dalla polvere, con disperazione.
“Gli vogliamo così tanto bene che lo rimpinziamo di continuo”.
All’improvviso, dal corpo uscì un rantolo dolorante. –K…Kagome’ – mormorò il ragazzo.
Lei stava per mettersi a piangere dal sollievo ma, come prima, niente scese dai suoi occhi. La pelle era striata di grigio e i suoi vestiti erano tutti stropicciati, unti di materiali fangosi che non voleva identificare. Le sue unghie si aggrapparono al terriccio compatto sotto di sé come se volesse veramente sincerarsi che non fosse soltanto un sogno.
-Sì – mormorò, commossa. –Sono io, Inuyasha. Sono proprio Kagome.
Il giovane, voltando il capo verso di lei, fece una smorfia. –Stai bene? – disse, in un gemito rauco.
Lei annuì brevemente, facendo scivolare ciocche di capelli luridi davanti al suo viso. La pelle liscia del suo amato mezzo-demone era stata resa grigiastra da una patina di sporcizia, mentre le labbra esangui avevano un taglio proprio nel mezzo, una ferita superficiale che doveva bruciare tantissimo.
Al solo vedere che era in grado di riconoscerla, gli accarezzò la linea dello zigomo, assaggiando con i polpastrelli la sua carne gelida. Parve riprendersi a poco a poco, gradualmente.
“È diventato la cosa più grassa che io abbia mai visto”.
I suoi occhi gialli si aprirono incerti, come risvegliandosi da un lungo sonno. La focalizzarono subito, e Kagome vide l’iride colmarsi di lei, della sua presenza, del fatto che fossero ancora insieme nonostante tutte le avversità. Questo fu sufficiente a farla sentire bene, rilassata; al suo fianco era sicura che non aveva bisogno di temere nessun pericolo, nessuna minaccia.
Si chinò piano verso di lui, e gli stampò un bacio leggero a fior di labbra. Si ritrasse subito, però, perché non aveva avuto la forza di fare altro. Il rossore sul suo viso da diciottenne venne celato dalla misteriosa polvere grigia, e le venne quasi da sorridere per la tenerezza.
“Anche le mie amiche hanno dei gatti, ma i loro sono magri”.
-Che ne dici se usciamo da qui? – gli sussurrò. La stanchezza stava già allungandosi verso le sue membra intorpidite, e le pareva che la testa stesse per scoppiare. Sicuramente aveva preso una brutta botta sulla fronte, magari cadendo, e adesso il livido stava sbocciando in tutto il suo macabro splendore.
-Buona idea – grugnì lui, permenttendole prima di spostarsi da lì. Insomma, per quanto lo spazio le concedesse movimento.
Kagome si rattrappì in un angolo per lasciare che lui si sollevasse a sedere, mettendo a posto la spada e assicurandosi di non avere ossa rotte. Visto in quella posizione, con la schiena in grado di arrivare quasi fino all’apertura in cima, sembrava stare già meglio, e in effetti era proprio così; il suo corpo aveva già iniziato a rigenerarsi, mettendo a posto le ferite di minore entità procedendo in ordine progressivo.
Quasi per riflesso, la ragazza alzò lo sguardo laddove l’aveva puntato anche lui: quando lo faceva nel pozzo nell’epoca Sengoku, vedeva chiaramente una fetta di cielo blu purissimo e incontaminato. Se, invece, succedeva a casa propria, si ritrovava a fissare solo delle assi mezze-marce incastrate sul soffito, incapaci quasi di reggere il peso della capanna in fondo al cortile.
In quel momento vedeva solo buio, ma l’aria non era di certo incontaminata come quella del bosco. I due i scambiarono un’occhiata, pregna di significati. La sfera era stata chiara: lei, che non apparteneva a quel mondo, se ne sarebbe andata non appena il compito fosse stato portato a termine. E, a meno che non esistessero altri pozzi oppure scantinati nell’era medievale, allora voleva dire che qualcosa era andato storto.
Non voleva mettersi a sperare di avere sia la famiglia sia l’amore della sua vita nello stesso luogo, nella realtà dove aveva sempre vissuto, perché avrebbe decisamente chiesto troppo. Si limitò a mantenersi imperturbabile mentre Inuyasha, con un agile balzo, superava l’apertura squadrata e usciva di fuori, ovunque quel luogo si trovasse.
Su Marte, forse?
“Ma io credo che i gatti cicciotti siano più simpatici”.
L’unica cosa che potè notare fu solo la sua chioma bianca che si muoveva, simbolo che si stava guardando intorno. Per lo meno non aveva sfoderato la spada, segno che non c’erano nemici in vista, e non aveva neppure lasciato traccie di sangue o strillato urla doloranti. Era già qualcosa, una magra consolazione.
Il suo viso sbucò all’improvviso dall’apertura, dubbioso. Sembrava non avesse scoperto dove si trovavano, e a Kagome parve davvero molto strano. Che l’impatto li avesse feriti più a fondo di ciò che pensavano? Non avrebbe saputo dirlo con certezza, anche se si sentiva un po’ meglio rispetto a prima.
-Vieni – le disse, poco convinto. –Non sento puzza di demone -. Le allungò una mano e lei, alzatasi in piedi, la prese, prima di ricevere l’aiuto necessario ad uscire da quel buco tetro e soffocante. Le pareva quasi che i muri claustrofobici le stessero spezzando il respiro, chiudendosi attorno a lei, stringendosi come corpi attorno ad un fuoco. Quando riuscì ad appoggiarsi sull’orlo di assi pericolanti, però, capì subito in che posto fossero capitati.
-No – disse, sgomenta. –Non è possibile.
Avrebbe riconosciuto fra mille il piccolo portachiavi rosa attaccato ad una porta scorrevole, davanti a lei. Quelli che sembravano mille anni prima l’aveva comprato per le chiavi di casa, ma Eri le aveva regalato una cosa molto simile a quella e doppiamente voluminosa, con un gancio per attaccarlo alla borsa, quindi aveva preferito usare quello.
Alla fine, il simpatico gattino color confetto era stato relegato nello scantinato vicino alla casa, a proteggere il suo più grande segreto da occhi indiscreti. Un’orecchio era un po’ sporco, smussato sulla punta, ma nel complesso era lo stesso: aveva persino la minuscola scheggiatura che ben ricordava, fatta appena dopo averlo comprato.
La ragazza spalancò gli occhi, e Inuyasha parve capire. Tutto, in un instante, perse il senso che pensavano di aver trovato alla situazione, e si ritrovarono spiazzati e pieni di dubbi che nessuno sapeva spiegare loro.
“Mi chiamo Kagome Higurashi. Sono viva. E sono appena tornata a casa”.
 
 
 
L’AUTRICE CHIEDE UN PICCOLO AIUTO:
Buongiorno a tutti/e! Allora, questa è la mia seconda storia nella sezione Inuyasha, (che amo alla follia), e premetto che non so neanc’ora quale sarà il suo destino. Mi affido a voi, quindi, con una domanda: secondo voi, la continuo oppure la cancello? Fatemi sapere cosa ne pensate, il seguito sarebbe appettitoso, se mai vi siete chieste come potrebbe reagire Inuyasha a vivere nel futuro!
Vi lascio all’ardua sentenza ;)
Ciao ciao! Un bacio ;)   
  
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