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Autore: KaienPhantomhive    22/04/2013    3 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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4.

Dono di Dio

 

Il corpo di Zeitland Dietrich era sospeso nella Camera di Flamel senza alcun peso. Così accerchiato da tutti quegli strani ologrammi runici e dalle schermate d’analisi, quasi non prestava attenzione alla strana sensazione che la sua nudità gli procurava. Piuttosto sentiva ribollirsi il sangue nelle vene, una percezione di forza e potere mai avvertita che permeava ogni fibra del suo corpo.

“E così è questo ciò che significa sincronizzarsi con una Machine?” – strinse un paio di volte il pugno sinistro, ammirando estasiato l’enorme mano robotica ripetere il gesto – “È incredibile.”

Rivolse gli occhi alla vallata: ovunque scorressero le sue pupille due piccoli puntatori le seguivano sugli schermi, identificando ogni elemento della visuale, e per un attimo si posarono su un soldato stremato al suolo dal viso deformato dal terrore, intento a balbettare qualcosa ad una trasmettente.

“Non ho tempo da perdere con insetti come te!” – e allungò la vista oltre. Con una mano tesa in avanti ruotò una finestra di zoom, avvicinando la visuale fino a pelo d’acqua.

Una spia d’avvertimento si accese sullo schermo, puntata sul fondo del lago. Zeit mormorò aggrottando la fronte: “Che cosa volete nascondere, laggiù?”

Strisciando ferito sul terreno, il soldato russo gridò disperatamente al telefono: “Passate alla contraerea! Non permettetegli di localizzare il laboratorio!”

Sulla sommità dei due colli più elevati, la copertura degli hangar di vedetta si ritirò e sei caccia-jet decollarono a grande velocità. Allo stesso tempo, torrette armate, prima mimetizzate, si sollevarono dal fitto della boscaglia, puntando bocche di mitragliatori verso l’intruso. Fafner mosse pesantemente un passo in avanti, prima che il suo Meister si accorcorgesse dei nuovi avversari: “Ce ne sono altri?”

A bordo degli aerei dalle lucide fusoliere grigie, il caposquadra ordinò un comando in russo e otto missili vennero sganciati dalle ali. Scivolarono nell’aria, tracciando lunghe scie di fumo. Fafner portò avanti il braccio sinistro e una vampata si originò dal nulla; avvolse il braccio e si ritirò, lasciando il posto a un enorme scudo affilato dalla forma di fiamma. I razzi lo colpirono ed esplosero senza arrecare danno.

“Avete scelto male.”

In risposta ai suoi ordini quasi inconsci, la Machine preparò una nuova configurazione di guida, mentre una copia olografica dei di decollo si materializzò intorno alle sue caviglie.

Fafner si piegò sulle ginocchia e due piccoli reattori sotto le coperture dei piedi fecero ardere un combustibile sconosciuto. Con un cupo brontolio, la sWARd Machine balzò in alto e il vuoto d’aria creato compresse il terreno in una voragine.

Con un unico gesto, Fafner sfoderò una lunga spada a due mani da un anello alchemico formatosi dal nulla e poi si fermò bruscamente; due aerei si immobilizzarono e un taglio netto e incandescente li divise a metà. Zeit teneva ancora gli occhi fissi sull’orizzonte di nubi di ferro, quando ansimò con un mezzo ghigno di soddisfazione: “Erste…![1]

 

*   *   *

 

Livello -5; laboratorio di Baksheevo.

 

Sordi echi di esplosioni rimbombavano fino alle profondità del lago, facendo tremare la copertura di vetro rinforzato dell’avamposto sotterraneo.

Nella confusione generale che si era formata ai piani bassi, un ansioso ometto in divisa si era precipitato al cospetto del dottor Asimov.

“Signore...sono loro!” – aveva boccheggiato, madido di sudore.

Nonostante fosse già certo della risposta, l’anziano ingegnere sperò di sentirsi venire smentito: “Chi?!”

“I Nazisti!” – sputò tutto d’un fiato il soldato semplice, quasi come fosse il suo peggior incubo – “E hanno anche un...una…insomma, uno di quei affari!

E puntò l’immobile gigantessa nera alle sue spalle. Ekaterina si irrigidì: “Hanno davvero…?”

Miša sentì un brivido corrergli lungo la schiena: per quanto fingesse di essere pronto alla guerra restava pur sempre un cadetto e ora l’idea che dei soldati nemici potessero trovarsi qualche metro proprio sopra la sua testa lo terrorizzava.

“Hanno anche loro quei bestioni?!”

Improvvisamente, una fitta trapassò il cuore di Nataša.

Era più profonda dello sgomento, ma meno intensa del terrore.

Era angoscia. Il totale spaesamento che le strinse la gola come una morsa. Indietreggiò di un passo, come se quelle stesse parole potessero ferirla, e portò una mano tremante alla bocca: “Nazisti? Qui?! Non può essere…”

 

*   *   *

 

Superficie del lago.

 

Quattro torrette balistiche facevano inutilmente fuoco dai mitragliatori contro lo scudo dell’enorme umanoide in armatura rossa, ancora in cielo. Tre caccia di classe Sukhoi T-80 sganciarono sei missili a ricezione.

Zeit tirò a sé una falsa leva di luce e di risposta Fafner retrocedette alla cieca, eseguì un rigido spostamento verticale, uno trasversale e verso il basso e infine uno scatto frontale. Nuovamente i missili mancarono il loro obiettivo, esplodendo a vuoto. Gli uomini alla guida di quei trabiccoli non avevano idea di cosa dovesse essere un combattimento aereo – pensò il giovane – e di certo non comprendevano con chi avevano a che fare.

Lui era Zeitland Dietrich: il gelido Cavaliere Nero del Quarto Reich, l’Asso dell’Aviazione Lunare. Il Meister della grandiosa sWARd MachineFafner’.

Digrignando i denti dalla tensione, Zeit caricò e affondò il pugno sinistra nell’abitacolo a zero-Gravità e la Machine ripeté il gesto con il grande e affilato scudo. Due caccia non fecero in tempo a deviare rotta prima di venire travolti, esplodendo.

Troppo veloce per rallentare, l’Unità dello Schwarz Ritter continuò a precipitare verso le torrette nella boscaglia e altri due aerei la sorpassarono in senso opposto sfiorandone la corazza, fin quando il suo pilota non serrò con più forza possibile i pugni, intimando alla Machine di arrestarsi. I reattori delle gambe si invigorirono, spazzando via gli alberi della collina e fondendo una torretta, che venne poi schiacciata dall’atterraggio del gigante. Zeitland sollevò di scatto la testa: i sottili capelli biondi si scomposero in assenza di gravità assieme a gocce di sudore. Semplicemente pensò di voler raggiungere quegli ultimi due T-80 che ancora lo intralciavano. Gli serviva un’arma adeguata a coprire certe distanze e il suo Fafner lo accontentò: le otto aculei disposti in corrispondenza delle vertebre dorsali si allungarono in fruste meccaniche. Si agitarono, si inarcarono e poi si estroflessero come tentacoli intelligenti.

I due caccia salirono di quota nel vano tentativo di evitarli, mentre le code del Drago schioccavano e serpeggiavano agili e veloci attorno a essi, intrecciandosi e piegandosi rabbiosamente in un contorto gioco di ramificazioni. Un areo e ne rimase trafitto, ma la sua esplosione si perse nella confusione della mischia. L’ultimo T-80 riuscì a sfuggire e il suo pilota ebbe per un istante l’illusione di essere salvo, prima di ritrovarsi la visuale invasa dall’enorme volto di Fafner. Quegli occhi azzurri simili a quelli di un uomo, dietro a piastra facciale priva di altri lineamenti…quella finta mascella prognata irta di zanne…

Per riflesso condizionato, il pilota russo serrò le dita sui comandi, scaricando a vuoto gli ultimi quattro missili dell’areo, che precipitarono nel lago. L’ultima cosa che videro i suoi sensi percepirono fu il palmo gigante artigliato della Machine calare su di lui e un sibilo acuto provenire da un foro posto al centro della mano di metallo e fibre muscolari. Un potente getto di energia rovente come una fornace solare esplose dal palmo, illuminando la plumbea oscurità di quel giorno che già volgeva alla sera.

 

*   *   *

 

Livello -5; laboratorio.

 

Quando i primi quattro missili dispersi in acqua raggiunsero la copertura del laboratorio, una forte esplosione ne scosse le fondamenta. Ma quando anche l’onda d’urto dell’ultimo attacco di Fafner si propagò per il lago, le luci sfrigolarono e il soffitto di vetro si incrinò in più punti. Una delle lunghe e pesanti lampade al neon della sala si staccò dai tiranti, crollando sul pavimento. Per Nat, l’attimo che precedette lo schianto sembrò durare molto più a lungo: le gambe le tremarono per la scossa sismica; quella trave di metallo che ora le cadeva con innaturale lentezza addosso le paralizzò ogni volontà e le suggerì che quella sarebbe stata la conclusione della sua vita breve ma abbastanza ironica da concludersi il giorno del suo compleanno.

Poi…

Il corpo di qualcuno la investì con forza, ghermendola in una stretta e gettandola al suolo.

Uno schianto di lamiere sul pavimento e un crepitio di scintille.

Un generale schiamazzo di voci allarmate e grida di paura.

Restò per un attimo stesa sul pavimento freddo – gli occhi serrati il più possibile e le mani contro il volto – mentre delle braccia forti ma gentili continuavano a stringerla.

Lentamente schiuse le palpebre, mettendo a fuoco la scena capovolta che le si offriva dalla sua posizione: dappertutto cavi elettrici spezzati scoppiettavano pericolosamente e l’acqua del lago iniziava a filtrare copiosamente da alcune incrinature apertesi nel soffitto. Voltò appena la testa e il primo viso familiare che incontrò fu quello malconcio e atterrito di Miša. Il ragazzo la guardò con quei suoi occhi affranti e le chiese: “Stai bene?”

Stare bene? Come poteva ‘stare bene’ dopo aver sbattuto con forza la testa contro il pavimento, a seguito di un’esplosione?

Come poteva anche solo lontanamente avvicinarsi al concetto di ‘bene’, quella situazione? Ma quel ragazzone dalla faccia impaurita si meritava una rassicurazione quasi più di lei, non fosse altro per l’averla coperta con il proprio corpo. Con la poca forza di volontà che trovò, mentì: “Sì…grazie.”

 

Notarono che una piccola folla di persone si era radunata accanto alla grande lampada crollata e faticavano a sollevarla. Quando li raggiunsero, Nat fu colta da un tale senso di orrore che non riuscì a trattenere un grido: steso al suolo e riverso in una pozza di sangue giaceva l’anziano dottor Asimov, il cui corpo trascinato da sotto i detriti aveva disegnato un’irregolare via di sangue. Miša fissò la scena impietrito, mentre nello stomaco di Nataša iniziava ad agitarsi una bile acida. Non aveva mai visto un uomo ridotto in fin di vita, i suoi piedi non erano masi stati lambiti da sangue umano e più di tutto non era mai stata partecipe di un massacro.

Ekaterina Asimov si gettò a terra – il camice immacolato ora intriso di rosso – accanto al corpo agonizzante del padre senza nemmeno riuscire a toccarlo. Lacrime calde già le scioglievano il trucco e le sue labbra tremavano incontrollate: “No…papà…no…sta’ calmo, respira…”

L’uomo la guardò con occhi carichi di dolore e sofferenza – ben più profonda del dolore inflitto dalle ferite – e tentò di articolare una frase: “Tesoro mio…devi…”

Poi una serie di colpi di tosse gli strozzarono la voce; del sangue fuoriuscì dalla sua gola.

“No, non devi parlare!” – lo scongiurò la figlia.

Nataša gridò di disperazione, voltandosi in cerca di qualcuno: “Vi prego, qualcuno ci aiuti!”

“No…lascia stare.” – sussurrò ancora l’uomo, con un fil di voce – “Nat…vieni qui.”

Lei si inginocchiò in silenzio; gli occhi sgranati e la gola stretta.

 scienziato si sforzò di allungare una mano verso la sua guancia, sfiorandola appena: “La Machine…prendi la Machine.”

Nat lo guardò sconcertata, come se di tutti i pensieri possibili quello fosse proprio il meno opportuno: “Che cosa…?”

“Quella Macchina…” – ripeté l’uomo – “…sei l’unica…in assoluto.”

“Papà, ma cosa stai dicendo?!” – lo interruppe sua figlia, quasi innervosita da tanta inutile caparbietà – “Non c’è modo in cui questa ragazzina possa combattere ora!”

“Non è così.” – Asimov iniziava a sentire le sue palpebre chiudersi inesorabilmente – “Puoi riuscirci…devi riuscirci.”

Sostenne ancora la mano lungo il viso di quella ragazza dagli occhi stravolti: “Nataša…tu sei un dono di Dio.” E poggiò la testa al suolo.

“Insomma qualcuno ci aiuti!” – gridò esasperato Miša, mentre due uomini di servizio già iniziavano a caricarsi il corpo pesante del professore. Qualcuno gridò che il soffitto stava per cedere e che le esplosioni iniziavano a farsi più precise.

 

Nataša rimase inginocchiata, con le mani a tapparle le orecchie.

Non poteva credere a ciò che stava succedendo, non poteva accettare ciò che aveva appena sentito, non voleva udire il mondo urlare tutto intorno a lei. La dottoressa aveva ragione: non era in alcun modo possibile che riuscisse a manovrare quel robot. Il segreto del lago, il gigante sotterraneo, la morte di quelle persone, l’attacco dei Nazisti: quello che doveva essere un giorno lieto si stava trasformando in una mostruosità impensabile. E in tutto questo lei era lì: lì dove quasi nessuno dovrebbe essere, lì dove suo padre aveva accettato di mandarla, lì dove chiunque non si era fatto troppe domande sul suo conto. Non poteva trattarsi di un caso: tutta quell’orribile svolta di eventi doveva riguardarla in qualche modo. Ma come rendersi utile? Non era possibile ma avrebbe dovuto. E se fosse morta? Lei era nata per ballare, non per combattere. Ma se non lo avesse fatto, se non avesse neanche provato pur sapendo che l’ultimo pensiero in vita di quell’uomo era stato rivolto a lei, come avrebbe mai potuto guardarsi allo specchio, ammesso che fosse sopravvissuta?

 

Ekaterina Asimov tentò di ingoiare il groppo alla gola che aveva e di riguadagnare lucidità, sollevandosi in piedi e ordinando a un drappello di uomini: “Non possiamo rimanere qui! Evacuate il laboratorio e poi avviate l’autodistruzione! Priorità alla sWARd Machine: non permettetegli di recuperarla!”

“No!” – gridò Nat, alle sue spalle. La donna si voltò a fissarla.

Nataša si era alzata in piedi, sotto gli occhi attoniti dell’amico; strinse un pugno e arricciò le labbra nel tentativo di trattenere le lacrime; i suoi grandi occhi azzurri si erano incupiti in una smorfia di collera: “Salirò io a bordo della sWARd Machine!”

“Cosa?!” – la rimproverò Miša – “Nat, sei fuori?!”

“Dottoressa, la prego, mi permetta di salire a bordo di quel robot!” – ripeté con ancora più forza.

Lei si voltò dalla parte opposta, serrando i denti: “Non posso. Sei praticamente una ragazzina, sarebbe un suicidio inutile.”

Le ho detto di prepararmi all’uscita!” – la ragazza si rese conto che le stava gridando contro – “Se suo padre voleva che fossi io a entrare lì dentro…allora devo almeno provare!”

Un interminabile silenzio.

La figlia del dottor Asimov la fissò a lungo e Nat si chiese cosa stesse pensando, su quali basi avrebbe accondisceso o meno. “D’accordo.” – annuì d’un tratto, senza ulteriori spiegazioni – “Faremo a modo tuo.”

Si voltò verso i tecnici abbarbicati sulla gigantessa nera, intenti nel disinstallarla: “Cambio d’ordine! Procedere al collaudo diretto dell’Unità! Preparare il pilota d’emergenza a salire nella Flam-ber!”

La sala macchine riprese con incredibile zelo le sue funzioni, tentando di affrontare contemporaneamente le difficoltà nel rallentare le perdite del soffitto e dei cali di tensione. La dottoressa Asimov accompagnò Nat lungo l’alta piattaforma di ingresso all’abitacolo, riducendo concitatamente anni di ricerca in poche frasi: “Nat, ora tenta di memorizzare ciò che ti dirò: quando salirai a bordo dell’abitacolo entrerai in contatto con un liquido chiamato ‘Mercury-D’; il suo scopo è aumentare la tua sensibilità per interfacciarti con l’Unità sWAn. Ammesso che funzioni sarebbe la sua prima attivazione, di conseguenza non abbiamo armi da passarti in battaglia.”

“E quindi cosa dovrei fare?” – chiese sempre meno convinta.

“Prendere tempo. Difenderti, magari, ma non ingaggiare una mischia: ne usciresti di certo sconfitta. Cerca solo di convincerlo a demordere.”

Raggiunsero la fine della predella; la sfera di titanio che emergeva dal torace aperto della sWAn attendeva un pilota. La donna guardò ancora Nataša: “Non c’è bisogno di alcun comando meccanico, il sistema di interfaccia diretta si basa sulle tue onde celebrali. Pensi di ricordare tutto quello che ti ho detto?”

“I-io credo di sì…” – pessima bugiarda.

“Bene, perché quando sarai là fuori noi non potremmo aiutarti in alcun modo.”

 

Nataša prese un profondo respiro e saltò nella penombra della Flam-ber.

 

*   *   *

 

“Cosa diavolo c’è la sotto?” – Zeit continuava a far scorrere gli occhi sulle decine rilevazioni del fondo lacustre, che si avvicendavano sugli schermi della sua cabina di guida. I grafici a raggi X si facevano sempre più definiti, finché la sagoma e allungata di un oggetto molto grande a venticinque metri di profondità iniziò a delinearsi vagamente.

“Ma quella non sarà…?”

 

*   *   *

 

Nataša atterrò su quello che avvertì come il fondo concavo dell’abitacolo e udì il pesante portellone ritirarsi nella gabbia toracica, quindi chiudersi ermeticamente con una serie di scatti.

Nel totale buio della cabina sentì affluire un suono acquoso, mentre un in un liquido freddo e vischioso le lambì le caviglie.

Ma cos’è? – pensò un po’ allarmata – Mercurio?

 

Contemporaneamente, i grandi anelli di contenimento della Machine iniziarono a scorrere verticalmente lungo il corpo. Gli altoparlanti della sala macchine erano solo un’accozzaglia di voci sovrapposte.

“Avviare sequenza d’attivazione; scansione biogenica dell’Unità in corso.”

“Registrazione e tuning delle onde celebrali della pilota in corso; configurazione psicometrica completata; restrizioni di sicurezza affidate all’Oreikhalkos.”

“Impostare le funzioni di guida sul modello a bassa scambiabilità; priorità all’incolumità della pilota.”

“Livelli di tossicità psichica e biochimica in percentuali non significative; le funzioni della Flamel’s Chamber sono operative.”

“La tensione elettrica d’accumulazione ha superato il punto critico: procedere con l’avvio per Elettroconduzione.”

Il corpo metallico del robot fu percorso da intensi archi elettrici bluastri, sollecitando ogni fibra muscolare. Sotto il visore d’ametista si accesero due sottili orbite oculari.

 

“A tutto il personale: pronti ad abbandonare il Livello! Arma Umanoide ad Interfaccia Diretta, Unità Biomeccanica per le Operazioni Militari Speciali…” – la dottoressa Asimov sperò in cuor suo che la decisione di impiegare un’arma che non aveva intenzione di muoversi da trent’anni, e in più con una civile come cavia, non equivalesse a un tentativo kamikaze – “…attivazione!

 

Una luce rossastra si accese nella Flam-ber, rivelando a Nat le pareti a specchio che la circondavano. Il liquido argentato che riempiva il fondo prima si irrigidì in una lastra compatta che le imprigionò i piedi e una serie di iscrizioni luminose in una lingua sconosciuta si accesero sulla lucida superficie. Nat rimase attonita a guardare alcuni grossi globi di Mercury-D staccarsi dal resto e iniziare a levitare verso l’alto. Non ebbe tempo di lasciare andare la poco elegante esclamazione a cui aveva pensato.

 

*   *   *

 

Una luminosità sovrannaturale color magenta squarciò il buio delle profondità del lago. Come sospinta dalla mole di un mostro marino, la superficie dell’acqua si incurvò notevolmente e poi esplose con violenza. Una torre di plasma si innalzò fino alle nubi, accerchiata da strani circoli alchemici, si deformò e poi si dissolse in una tempesta di quelle che potevano essere definite piume di cigno, nere come l’inchiostro. In quel turbine nero, la slanciata sagoma della Machine russa s’intravedeva appena.

 

Le pareti della cabina, il mondo esterno, lo Spazio e il Tempo: tutto si dissolse e perse consistenza, attorno a Nataša. Al loro posto, un vortice di colori d’aurora che trascendeva le dimensioni catturò il corpo della ragazza, gettandola in un abisso di indescrivibile bellezza; ovunque danzavano disegni confusi di una lingua dimenticata e fiamme di luce gelida divorarono i suoi abiti. La ragazza strinse le braccia al petto – il suo cuore batteva di una forza mai provata – mentre confuse emozioni suonavano le corde del suo animo.

“Queste sensazioni, quest’energia…da dove provengono? È meraviglioso!” – il calore e la vibrazione che le pervasero il corpo la fecero gridare di puro piacere, misto a vertigini. Udì una musica intensa e veloce, uno stridore di violini: era la sua anima che risuonava nel cuore dell’ignoto.

Anelli di rune luminose le circondarono il seno, i fianchi e le braccia, mentre perfino gli schermi dell’abitacolo tornarono a descrivere uno spazio fisico.

L’eleganza dello spazio, il mistero della notte.

La bellezza del cristallo e la rarità di un cigno nero.

Una nuova sWARd Machine si era risvegliata.

Si ritrovò spoglia e sospesa nel vuoto dell’abitacolo di guida; il Mercury-D sembrava essere scomparso, nonostante fosse certa si trovasse ancora lì.

“Questa sarebbe la cabina di guida?” – si chiese davanti a quella serie di schemi incomprensibili – “Ma non c’è neanche una leva!”

Poi si rese conto di essere completamente nuda e con un moto d’imbarazzo non proprio opportuno strinse braccia e ginocchia, tentando di coprirsi.

In lontananza, la sagoma slanciata di una Machine rosso sangue si voltò nella sua direzione.

“Così è quello l’aspetto dei nostri nemici?”

 

 

 

 

[1] Dal Tedesco; lett.: “I primi…!”

   
 
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