Cuore violato
Schwarz conobbe Schmitt quando erano giovani,
rincorrendo un copertone per le strade affollate della capitale tedesca. I
fumi, le macchine rombanti e veloci, gli odori dei pini, e il suo sorriso.
Questo si ricordava Schwarz, nei giorni limpidi d'estate.
L'amicizia nacque spontanea, e crebbe con i giovani,
fino al drastico anno dell'inizio della Seconda Guerra Mondiale.
Discussero, quella sera, fuori da quel pub ormai
vuoto, la birra calda, e l'aria del respiro che si gelava in piccoli cristalli
di vapore che lenti si innalzavano in quella buia notte ghiacciata.
«Mi arruolo, Schwarz.».
Quella frase rimbombò come il rumore di un albero
abbattuto.
Il giovane che parlò, fermo nella sua postura
rigida, osservò la reazione dell'amico, chiaro di occhi e di capelli. Gli
invidiava col cuore quell'aspetto puramente ariano. I suoi, di capelli, erano
troppo scuri per essere chiamati biondi. E gli occhi troppo volubili di colore
per definirsi azzurri.
Distolse lo sguardo.
«Quindi sei un nazista? Credi in quello che ti
dicono, Schmitt?».
Il castano annuì, il biondo appoggiò le spalle al
muro, scagliando la bottiglia a terra con forza, rompendola in mille pezzi. La
birra schizzò, imbrattando il pavimento.
«Sei uno stupido, Schmitt, in guerra si muore!» urlò
l'amico, il cuore che tentava di ancorare a sé quell'anima giovane ma ancora
troppo morbida per essere completamente uomo. Gli afferrò la giacca che
avvolgeva il suo corpo, e provò un moto al cuore, uno dei mille e più che, dal
giorno che si erano conosciuti, Schwarz aveva provato e sentito per il giovane
amico dai capelli riccioluti e gli occhi mutevoli come l'arcobaleno.
«Lo so!» ribatté «Ma è questo ciò che desidero.
Voglio scendere in battaglia, conquistare terre, arrestare ebrei, mussulmani, zingari,
omosessuali!» e a quella parola sputò per terra.
Schwarz sentì, in un angolo remoto delle sue
budella, un tramestio, nell'anima un'onda di sconvolgente terrore e il cuore in
mille pezzi e ancor più infrangersi, dilatandosi e annegando nell'acqua del silenzio.
«Tu parli con parole di odio, amico mio...».
Schwarz, come se avesse perso tutte le energie, si
spense come su se stesso, ma non mollò la presa. Poi, come d'un impeto, alzò il
volto e poggiò le labbra secche di freddo su quelle bollenti e morbide di
Schmitt.
Fu un attimo. Un parziale istante di follia
dell'uno, e di smarrimento e sgomento dell'altro. Poi un pugno, e il biondo si
ritrovò ansante sulla terra e lo zigomo destro pungente.
«E tu invece sei ubriaco, amico mio.».
«Non sono mai stato più sobrio e serio di tutta la
mia vita, invece.».
Il silenzio calò tra loro, nessuno nella via passò,
se non un magro gatto in cerca di cibo.
Schwarz si rialzò, e gli occhi non persero quel
bagliore di follia che passò in quelli, ora scuri, del migliore amico e persona
amata.
«Io sono innamorato, Schmitt, ed è come essere
sempre ubriachi. Tu sei il vino che mi inebria e mi stordisce...sin da quando
ti ho conosciuto io...» ma il suo discorso venne interrotto. L'amico si scagliò
su di lui con forza brutale, menando fendenti e calci dove trovava carne da
colpire. E dopo pochi affannati minuti di lesioni accettare a labbra serrate
Schmitt d'un tratto si fermò.
Si voltò e lasciò l'amico, sanguinante e dolente lì,
su quella fredda pietra di strada, che sapeva di piscio, a piangere l'amore non
ricambiato, maledicendo i pochi secondi di follia che avevano spezzato
tutto.
Schmitt si toccò le labbra inviolate, perso in
pensieri confusionari e così veloci che, accortosi del suo incedere incerto, si
ripulì con la manica e riprese il passo marziale a cui votava vita e morte,
gloria e sconfitta, mente e cuore.
Chi
cresce d'amore, cresce col pane.
Chi
cresce d'odio, cresce col sangue.
I due amici, da quella sera, non si
parlarono più. Schwarz aveva paura, che lo prendessero, lo uccidessero. Ma
Schmitt, il suo ex amico ormai, non parlò. E venne il giorno in cui quel
piccolo nazista in erba salì su quella nave, per scendere in battaglia. Schwarz
ricordava ancora il colore dei suoi capelli, costretti sotto il cappello di
soldato semplice, e gli occhi fissi, determinati e vuoti. Ricordò il suo
bagliore di odio quando lo aveva intravisto, tra la folla, e dirigere gli occhi
altrove.
Schwarz iniziò il suo lavoro di medico,
lavorando duramente per una medicina contro il cancro e le malattie infettive,
e intanto Schmitt uccideva i “nemici della patria”.
Passò un anno, e la guerra divenne
cruenta. Schwarz, in un meeting in America, si ritrovò fuggitivo, spaventato
dalle voci che i nazisti stessero facendo strage di tutti coloro che erano
diversi dall’ideale germanico. E il pensiero corse al suo migliore amico,
l’amore mai ricambiato, rimembrando la brutalità con cui lo aveva rifiutato.
Una lacrima cacciata in fondo all’anima, e gli occhi diventarono decisi.
Schmitt, dopo una seria ferita in
battaglia, venne assegnato nei campi di concentramento, e non più al fronte,
dopo essere aumentato di grado. Sorrideva, con quel ghigno distorto da una
cicatrice, mentre gli ebrei, ridotti a peggio che animali, sgobbavano magri in
quella fabbrica di amianto e sangue.
Quando gli americani decisero di
contrattaccare e fermare il movimento nazista, due anni dopo, Schwarz era fra
le loro fila, fucile in mano, bandiera americana stampata in fronte, e pronto a
morire per ripulire la sua patria dalla brutalità di un cancro non più fisico
ma sociale e mentale, dottore della società e non più del corpo.
Uccise tanti nazisti, con il terrore
che uno di loro fosse l’amato mai dimenticato, sempre ricordato e a volte
esaltato nelle notti solitarie, ma mai tradito né in un bordello né in un
pensiero.
Quanto sangue sprecato, quanti giovani
morti per una causa sbagliata, contro natura e contro Dio.
Pregava silenziosamente, Schwarz,
mentre nella furia dei proiettili scivolava nel terreno arido della radura e
raggiungeva l’ennesimo campo di concentramento da liberare, persone da salvare.
Schmitt, nella sua decantata gloria del
suo partito, assegnato nello stesso campo di concentramento attaccato da
Schwarz, sparava con la sua pistola d’ufficio, in mezzo alla baldanza di carni
lacerate e urla di dolore, lo scoppio di qualche granata più lontano.
Un uomo armato di fucile però lo colpì
al torace, lasciandolo abbandonato al suolo agonizzante.
Dalla sua bocca, violata dal sangue,
sgorgavano parole vane ma mai di aiuto.
Dai suoi occhi, violati dalla paura,
urlavano parole di comando e di soccorso.
La mano, stretta intorno alla ferita
provocata dal proiettile, si bagnò di sangue caldo e il fiato diminuiva sempre
più.
Seppe che era la fine della sua guerra
contro tutto, contro tutti. Seppe che era finita, e non solo per lui, ma per il
nazismo.
E rise, con rantoli sinistri, della sua
sorte e della sua vana gloria, del suo finto patriottismo e del mancato amore.
In quei tre anni di serrato servizio,
perso tra un bordello e violenze fisiche, il pensiero correva al vecchio amico,
Schwarz, e al suo sorriso. Ricordò l’attimo in cui le sue labbra toccarono
quelle di lui. Labbra violate. Ma ora, di violato, aveva il cuore. Gli era
entrato a forza. Ed era andato oltre le trincee del suo cuore, scavando e
lottando, arrivando fino al centro. E iniziò a piangere, in silenzio.
Disperato, nel sapere che non lo rivedrà più.
I rumori della guerra non li udiva più,
lì steso a rantolare, preso dal dolore e dalla disperazione di continuare a
vivere in quel mare di sangue e dolore, lì, senza di lui, a sorridergli. Poi,
nella vista appannata, apparve una figura.
Lo stesso soldato americano, biondo,
che lo aveva colpito mortalmente.
E riconobbe gli occhi, e i capelli. E
l’anima.
«Schmitt!» lo chiamò Schwarz,
riconoscendo l’amico da tempo perso, l’amato non contraccambiato. Il nazista
sentì le sue mani sul proprio corpo, cercare di bloccare il sangue che sgorgava,
i suoi occhi che correvano spaventati e pieni di paura, leggendo negli occhi la
colpa, riconoscendo il misfatto come opera propria. Sentì la sua bestemmia, e
le mani fremere.
«Schwarz...» chiamò l’amico, con voce
roca, e con fatica. Faceva fatica a focalizzare il suo volto, sporco di sangue
e terra.
«Mi sei mancato...» mormorò Schwarz,
sistemandogli un ciuffo ribelle. La sua mano era sporca del suo sangue e terra.
Ma era calda. Dolcemente calda. «Scusami...» e pianse.
«Tre anni in un pensiero. Tre minuti,
due nomi, due S.S.» disse Schmitt, cercando di parlare, con la bocca intasata
dal sangue. «Due parole.» gli ultimi bagliori di vita li usò per alzare la
mano, e sfiorargli il volto, asciugargli quelle parche lacrime, fiume
torrenziale, e sorridergli.
Schwarz, capendo le parole, sorrise,
stringendo la mano a sé, disperato e morì. Consapevole che aveva ucciso l’unico
uomo che avesse mai amato con tutto se stesso. Gli morì tra le braccia, stretto
e cullato come un bambino, per farlo addormentare.
La scena si consumò nel tumulto di
soldati silenziosi ed ebrei magri di fame.
Un americano piangeva alla morte di un
nazista. Alla morte di un amico. Alla morte di un amore non coltivato. Un amore
rovinato dalla guerra e dalla paura.
Quel giorno, Schwarz ricordava ancora
il suo sorriso, come lo era sempre stato. Limpido. Limpido come il giorno del
loro incontro.
E i suoi occhi acquosi e dolci, come
quella pioggerella morbida che iniziò a cadere.
E piove, e piove...
Piove sul campo di morte.
Piove e piango.
Mi manchi, amico mio...
Ma sei volato via, in questa giornata
dove i camini non bruceranno più.
Ma il mio amore ancora brucia, e tu
vivrai.
Tu vivi, in me.