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Autore: Libra Prongs    23/04/2013    5 recensioni
"Aveva smesso di pulsare, la cicatrice aveva smesso di pulsare da mesi e si era come rimpicciolita d’un tratto riducendosi a poco più di un graffio sulla fronte ormai limpida e priva di chiazze di sangue, sotto la frangia incorreggibilmente scarmigliata di Harry Potter. Erano trascorse settimane interminabili, silenziose, dense, durante le quali il mondo magico era piombato in una sorta di esausto torpore: la guerra era finita nel giubilo collettivo, ma aveva lasciato squarci troppo profondi, lacerazioni nell’anima che si sarebbero cicatrizzate forse in qualche mese, forse in molti anni, o forse mai.
Eppure, la vita era ricominciata. Nel brulichio di Diagon Alley con i suoi negozi dalle porte divelte e i vetri in frantumi; nei corridoi pregni di odore di disinfettante del San Mungo; negli uffici del Ministero che lentamente tornavano alla routine; nelle stanze di casa Weasley, al solito gremite di abitanti, ma insieme innaturalmente vuote."
Harry/Hermione|Angst|Introspettivo
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Potter, Hermione Granger | Coppie: Harry/Hermione, Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
- Questa storia fa parte della serie 'It could have gone that way, 'cause Harmony is the way. '
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YOU FOUND ME - LOST AND INSECURE 

 

A Roxy, che ha fatto la proposta indecente cui non ho potuto resistere. 
E a Bea, che ha suggerito come prompt questa canzone bellissima. 
Mi ha sempre commosso un po'. 
E, già che ci sono, a tutti i fantastici Aurorucci di 

Cercando chi dà la roba alla Rowling [Team Harry/Hermione].


 

Una fine che trascina con sé i detriti come fa il fiume sospinto dalla corrente non è mai una vera fine.
Fine è acqua stagnante, il cui unico destino può essere l’evaporazione e, dovesse ripresentarsi sotto forma di pioggia, non sarà che un temporaneo inconsistente ritorno di nuvole sfilacciate.
Fine non ha mezzi termini, né esitazioni, né ripensamenti, né virgole.
Punto.
Fine è, per sua natura, definitiva. Linea tracciata, marcata e oltrepassata.
Tutto il resto è un vigliacco inganno, è il tentativo di persuadere — persuadersi — che dal punto si possa ricominciare, magari con la maiuscola. Giungere a un nuovo inizio.
Il che sarebbe degno di nota, se solo non ci si ostinasse a voltare pagina.
Quello si chiama ignorare, è sin troppo semplice.
Se è vera fine, se il punto è fermo, non occorre un nuovo foglio bianco per scrivere l’incipit.
Fine è sì confine, ma non distanza.
È conoscere il limite, accettarlo, abitarlo.
Superarlo, senza voler cancellare.
Fine è traghettare a riva i detriti come fa il mare, fine è abbandonare il peso dei ciottoli sulla battigia cullandoli come onde per poi lasciarli andare.
Fine è farsi travolgere dal dolore, esorcizzarlo; poi, ricucire le ferite.
Fine è ricominciare dalla cicatrice.
 

◊◊◊

 
Aveva smesso di pulsare, la cicatrice aveva smesso di pulsare da mesi e si era come rimpicciolita d’un tratto riducendosi a poco più di un graffio sulla fronte ormai limpida e priva di chiazze di sangue, sotto la frangia incorreggibilmente scarmigliata di Harry Potter.
Erano trascorse settimane interminabili, silenziose, dense, durante le quali il mondo magico era piombato in una sorta di esausto torpore: la guerra era finita nel giubilo collettivo, ma aveva lasciato squarci troppo profondi, lacerazioni nell’anima che si sarebbero cicatrizzate forse in qualche mese, forse in molti anni, o forse mai.
Eppure, la vita era ricominciata. Nel brulichio di Diagon Alley con i suoi negozi dalle porte divelte e i vetri in frantumi; nei corridoi pregni di odore di disinfettante del San Mungo; negli uffici del Ministero che lentamente tornavano alla routine; nelle stanze di casa Weasley, al solito gremite di abitanti, ma insieme innaturalmente vuote.
Persino nel minuscolo appartamento di Andromeda Tonks.
Harry andava sovente a far visita a lei e al piccolo Teddy dalle manine forti, beandosi dei risolini gioiosi del figlioccio e faticando a tenerlo sulle ginocchia.
«Sei molto caro a venire a trovarlo, Harry» gli aveva detto una volta Andromeda, lasciandogli una carezza lieve sui capelli.  
E Harry aveva annuito al pavimento di linoleum scuro, mentre il respiro placido e regolare di un Teddy addormentato scandiva i secondi.
Da allora era tornato più volte a settimana, rifiutando i tè di Andromeda e accettandone gli abbracci materni nella maniera sempre un po’ goffa e sorpresa di chi non si capacita di meritare affetto perché gli è stato negato nell’infanzia e proprio non riesce a farci l’abitudine.
Teddy amava giocherellare con i suoi maglioni troppo larghi e Harry lo lasciava fare, fissando ammirato le espressioni buffe che animavano il viso del bambino e gli accendevano gli occhi, inequivocabilmente uguali a quelli di Remus.
S’intratteneva spesso fino al crepuscolo nel piccolo soggiorno di casa Tonks, abituandosi alla voce acuta di Teddy e declinando le proposte di restare a cena che Andromeda, pur immaginando ormai la risposta, gli rivolgeva ogni volta con la medesima accondiscendente dolcezza.
Le serate erano solitarie. Harry si era stabilito al numero dodici di Grimmauld Place per il solo motivo che non sapeva dove andare — e non perché non ricevesse inviti a iosa: da amici di vecchia data e amici che non sapeva neppure di avere e che spuntavano come funghi; da giornalisti curiosi e distinti maghi filantropi — e non aveva voglia di invadere ulteriormente l’intimità dei Weasley. Negli anni aveva procurato loro sin troppe preoccupazioni, ricevendo in cambio una calda familiarità e un’accoglienza immutata. Erano stati per lui più di una famiglia,  Ron era divenuto più di un fratello, e forse era stato questo a convincere Harry a farsi da parte. Ron, un fratello, l’aveva perduto in quella maledetta guerra. Nessuno, men che meno lui, Harry, avrebbe potuto colmare il vuoto lasciato da Fred. Non era giusto che fosse morto, non sarebbe stato giusto vivere alla Tana e ricordare costantemente che, al tavolo della cucina, sulla terza sedia da sinistra, nessuno sedeva quando era in giro Fred. Era il suo posto; la famiglia doveva avere il tempo di piangere la sua morte senza sentirsi in dovere di cucinare per Harry, intrattenersi con Harry, ciarlare con Harry del tempo o della ricostruzione dell’Atrium del Ministero.
Aveva preso a nascondersi dietro presunti appuntamenti con questo o quel funzionario, l’impellente necessità di riordinare il polveroso appartamento e varie altre scuse più o meno plausibili, riducendo le visite alla Tana a due o tre pomeriggi a settimana e poi a uno, finché non aveva smesso di farsi vedere ripulendo la coscienza con le poche parole cordiali scambiate al Ministero con il signor Weasley e le promesse vaghe di recarsi a casa loro per un pranzo come ai vecchi tempi.
Ma tutto era cambiato. E se non c’era più Fred, Malocchio, Remus e Tonks e Silente e Sirius, non c’erano i vecchi tempi né la forza di vivere i nuovi.
Anche con Ginny la situazione era sospesa. Dopo essersi finalmente riconciliati, abbracciati, asciugati vicendevolmente le lacrime, avevano scelto con un tacito accordo di darsi del tempo.
Per capire, aveva detto Ginny. Per capire, si era ripetuto Harry, lasciandosi baciare e guardandola voltarsi e andare via. E, vigliaccamente, aveva tratto un sospiro di sollievo.
Non sapeva neppure cosa esattamente dovesse capire, ma aveva compreso di dover rivalutare la loro relazione — quel che ne era rimasto tra le macerie della guerra.
 

La vecchia cucina di Grimmauld Place era ingombra di sedie che probabilmente nessuno avrebbe utilizzato; sull’unica vaschetta dell’acquaio erano ammonticchiati diversi piatti sporchi e sbeccati, nonché pile di giornali datati. Harry non era mai stato famoso per l’ordine, del resto, eppure quell’accumulo di ciarpame era eccessivo anche per lui. Gli oggetti recenti — in larga parte stoviglie unticce e copie su copie della Gazzetta del Profeta, finalmente attendibile dopo il cambio ai vertici della redazione — si erano stratificati su quelli più antichi, tradendo la superficialità e la trascuratezza con le quali Harry tentava ormai da mesi di sopravvivere. Provava persino una vaga soddisfazione nel sentirsi affine all’anima profonda di quell’ambiente: in origine doveva esser stato un impeccabile appartamento da maghi rispettabili, ma lui l’aveva sempre associato a Sirius. Il ribelle, il diverso, il reietto Sirius. Eterno migliore amico, padrino, spirito tormentato. In uno slancio di immaginazione, aveva persino pensato che fossero entrambi destinati a una vita piena di amici ma di irrimediabile solitudine. Solo che era stata la solitudine ad abbattersi su Sirius, mentre Harry l’aveva volontariamente cercata, non senza una vena di arcano masochismo che da sempre l’aveva condotto a chiudersi in sé nei momenti difficili.
 


 

Dove sei finito?
Harry, sono giorni che non ti fai vedere né rispondi al telefono.
Sono preoccupata.

 
La più recente lettera di Hermione giaceva inerte sul tavolo, segnata nell’esatta metà da una piega orizzontale. Il foglio era inutilmente ampio rispetto alla ridotta quantità di parole scritte nella grafia minuta di lei, lievemente inclinata a destra e vergata in inchiostro blu scuro. Harry indugiò sulla firma, carezzandola con lo sguardo prima di distoglierlo e tornare alla punta delle proprie scarpe. Sbuffò, inquieto, e aprì il rubinetto solo per verificare che ancora, come da tre giorni a quella parte, l’acqua stentasse a fluire. Scendeva in un filo sottile per ridursi poi a poche, costanti gocce che ticchettavano contro la ceramica ingiallita del lavello. Sarebbe andata avanti per la prossima mezz’ora. Harry pensò che avrebbe chiamato un idraulico; magari il signor Weasley sarebbe stato felice di assistere alla riparazione. Liquidò il pensiero con uno sbadiglio, confinandolo nella lunga lista mentale di cose procrastinate. Fare una spesa decente, lavare la biancheria, presentarsi al colloquio con il Capo Auror McEwan.
Lo farò domani, si ripeteva. Ma il domani era sempre identico a ogni ieri, i buoni propositi preventivati restavano uguali a se stessi senza tradursi in azioni.
Il telefono trillò. Cinque squilli, come ogni sera.
Era Hermione, probabilmente. Hermione che non accettava, Hermione che insisteva, Hermione che riprovava. Hermione Granger che non beveva le dozzinali scuse di Harry Potter, Hermione che scriveva senza ricevere risposta.
Hermione non capirebbe, si convinceva Harry, non accetterebbe. Ma è solo questione di tempo, poi riprenderò in mano le redini della mia vita. Solo questione di tempo.  
E di tempo n’era trascorso molto. Non si faceva vivo con lei da due settimane e l’ultimo contatto che avevano avuto era stata una telefonata. Si era svegliato un mattino all’alba con l’esigenza di sentire la sua voce, di trovare un appiglio per non affondare e l’aveva chiamata, lasciandosi travolgere dall’istinto proverbiale che più volte lo aveva spinto ad agire. Voleva parlarle, avrebbe perfino acconsentito a rispondere al fuoco di fila di domande che Hermione era solita rivolgergli. Dopo un paio di squilli, una voce assonnata di ragazza aveva risposto con gentilezza, trattenendo una risatina e, l’istante dopo, a quella di Hermione si era unita un’altra voce. Familiare, bassa, dal tono ironico. La invitava a riappendere e tornare a letto. Harry aveva riconosciuto Ron e, quasi come avesse vita propria, la cornetta era ripiombata al suo posto troncando sul nascere quella mancata conversazione.
Sei un idiota, si era detto, azzardando una risata che aveva echeggiato beffarda nella stanza vuota. Ovviamente c’era Ron con lei, ovviamente dormivano insieme e non era stato saggio telefonare a quell’ora del mattino. Erano una coppia, doveva pensare a loro due come a una coppia. Hermione e Ron, Ron e Hermione.
E lui, Harry, l’eterno migliore amico.
 
 

«Apri questa porta, Harry. Subito.»
La voce di Hermione, questa volta decisa, lo fece sobbalzare.
Si guardò attorno, disorientato, e realizzò di essersi addormentato sul pavimento del salotto. Il vecchio pendolo segnava le ventidue. Harry imprecò.
«Apri, Harry. So che sei lì, e pretendo che tu mi faccia entrare!»
Tentò di tirarsi su, ma aveva un tremendo cerchio alla testa che lo fece gemere. Hermione, dinanzi alla porta di ingresso, sembrava sul punto di perdere le staffe, a giudicare dal modo insistente in cui bussava.
«Harry, ti avvert—»
«Arrivo, un momento!» riuscì ad articolare, stizzito, trascinandosi alla porta.
Quando la spalancò, fu colpito dall’intensità della luce dei lampioni che inondava la piazza. Subito dopo, i capelli cespugliosi di Hermione coprirono interamente la visuale e un profumo fruttato gli invase le narici.
«Sei un idiota» furono le prime parole che si sentì rivolgere.
Avvertì le labbra che si piegavano in una smorfia e fu quanto di più vicino a un sorriso riuscisse a produrre.
«Grazie.»
«Non sei nella posizione di fare dell’ironia. Che ti succede, Harry?»
L’apprensione era chiaramente visibile sul viso di Hermione, insieme al sollievo e a una punta di rabbia. Harry si limitò a scuotere le spalle, precedendola nel salotto buio e disordinato.
Ignorò deliberatamente gli schiocchi di disappunto che Hermione emise nell’entrare e si preparò alla ramanzina che sarebbe seguita.
Ma Hermione non disse nulla di quanto Harry si sarebbe aspettato; nulla sul caos che regnava sovrano in casa, nulla sul fatto che non si facesse vivo da settimane, niente di niente.
Allora Harry si voltò a guardarla, sorprendendosi del fatto che fosse rimasta parecchi passi indietro, le braccia conserte. Il disagio cominciò a formicolare nelle viscere, risalendo alla bocca dello stomaco in una morsa crudele.
«Perché?» sussurrò d’un tratto Hermione.
«C-cosa?»
Si avvicinò in silenzio, a passi lenti, in un tempo che sembrò interminabile.
«Perché sei sparito? Hai smesso di andare alla Tana, hai smesso di andare al Ministero. Oh, non penserai che abbia creduto alle tue balle colossali!»
Harry scosse la testa, sentendosi uno sciocco con le braccia penzoloni lungo il busto.
«Ho voluto lasciarti il tuo tempo, ma sarei venuta qui anche prima. Speravo che fossi tu a tornare…»
Gli occhi di Hermione erano severi, ma troppo dolci nel profondo da poter risultare cattivi. Era arrabbiata, però, Harry glielo leggeva nelle iridi marroni.
«Capisco che non ti andasse di farti vedere di persona o di rispondere alle lettere, ma… avresti potuto fare almeno una telefonata, non so…»
Mentre parlava, Hermione gesticolava nervosamente, congiungendo le mani e allontanandole, stringendo i pugni e scuotendo la testa.
«Ero così preoccupata, quando ti allontani c’è sempre qualcosa che non va e…»
Harry la fissava in silenzio, quasi apatico.
«Non mi stai ascoltando» constatò Hermione, frustrata. «Ma forse non era il caso che venissi, no? Magari è vero, non ti importa niente. Magari tu non hai alcun problema e vuoi startene da solo. Be’, sai una cosa? Fa’ un po’ come ti pare, Harry» disse, delusa.
I capelli le ondeggiarono sulle spalle mentre si volse di scatto per andarsene.
«L’ho fatto!» esclamò Harry, come risvegliandosi da un improvviso torpore.
Hermione si fermò, restando in silenzio.
«L’ho fatto, io… ho provato a telefonare. Una volta» confessò.
«Oh, certo. E, dimmi, come mai non—» ribatté Hermione, prima di interrompersi portando una mano alla bocca. «Perché hai riattaccato? Eri tu quella mattina?»
Harry annuì, sorpreso che avesse compreso così presto, e poi rise, sorpreso di essersi sorpreso. In realtà aveva quasi sperato che lei capisse, appena prima di riattaccare.
«Non sapevo che cosa dire.»
Le narici di Hermione fremettero, le labbra si assottigliarono, come ai vecchi tempi.
I vecchi tempi. Lei era la sola a non essere cambiata. Non in peggio, almeno.
«Ma avrei parlato io! Ammetto di aver pensato per un attimo che potessi essere tu, ma poi—»
«Poi eri con Ron. Eri con il tuo fidanzato, Hermione, avrei soltanto disturbato.»
Troppo tardi si accorse di aver caricato di spiacevole sarcasmo l’espressione “il tuo fidanzato”; troppo tardi si rese conto di aver pronunciato ad alta voce un pensiero che avrebbe fatto meglio a rimanere tale.
«Il mio… andiamo, Harry, non essere ridicolo!» arrossì. «Stavamo… stavamo solo—»
«Dormendo insieme, è normale. Non mi devi spiegazioni, Hermione, davvero.»
La conversazione stava prendendo una piega imprevista e priva di senso. Non era di quello che avrebbe voluto parlarle, non era di quello che avrebbe dovuto parlarle. Hermione e Ron erano i suoi migliori amici e dopo sette anni avevano finalmente dato sfogo a quella frustrante tensione sessuale che si era trascinata nell’ombra, tra uno scampato pericolo mortale e l’altro.
E il trio era divenuto un duo, ma non era quello il problema.
O sì?
«Questo non significa… Harry, santo cielo, stai—»
«No, no, scusami. Non intendevo—»
«Mi dispiace tanto.»
I solchi sulla fronte aggrottata di Hermione si rilassarono d’un tratto, il dorso della sua mano sfiorò la mano di Harry. Restarono a lungo a fissarsi.
«Dispiace anche a me.»
Hermione sospirò, mordendosi un labbro.
«Lo sospettavo. Per quanto ti conosco, sapevo che ti fossero balenate in testa idee del genere. Con i Weasley, con…» esitò, «me e Ron. Ma ti assicuro che per nessuno di noi, Harry, per nessuno tu sei di troppo. All’inizio giustificavo il tuo atteggiamento in riferimento alla tua situazione con Ginny, pensavo volessi evitare lei, ma…»
Quanto parlava, Hermione.
Solo allora Harry si accorse pienamente di quanto avesse sentito la sua mancanza, di quanto avesse sperato, inconsciamente, che lei andasse a cercarlo.
Che lo trovasse.  
«Mi sono perduto.»
«Harry, io—»
La voce di Hermione tremò, spezzandosi. E Harry mentì.
«Sarebbe stato meglio che non mi trovassi.»
Perduto, insicuro. Si sentiva così confuso e arrabbiato e solo.
Avevano combattuto insieme, avevano sofferto insieme, ce l’avevano fatta insieme.
Ma non c’era altro noi eccetto quello che legava Hermione e Ron. E Harry non capiva per quale ragione gli facesse così male, visto che era pronto da anni a quel momento.
Sin dall’inizio era pronto alla fine.
«Non avrei smesso di cercarti.»
Alla fine dell’avventura, alla fine di Hogwarts, alla fine dei tempi del trio adolescente.
«Ma prima stavi andando via.»
Al termine dell’indefinito, al principio delle definizioni.
La mia amica. La mia amica Hermione.
«Tu mi hai trattenuta, non volevi che me ne andassi. E non volevo nemmeno io. Non riesco a vederti così; questa casa è un porcile, hai una barba lunga di giorni e Merlino sa da quanto tempo non lavi i tuoi vestiti! Ti stai lasciando andare, Harry, non posso permetterlo…»
La mia Hermione.
«Sto solo… lasciando andare… te
La mia amica. Hermione.
Harry le volse le spalle, stupito dalle proprie parole. Era come se il malessere accumulato fino a quel momento stesse assumendo sembianze precise solo adesso che la guardava negli occhi. Solo adesso che l’aveva così vicina e sentiva di averla perduta.
La sentì singhiozzare.
Il suo allontanamento era stato un inconscio, egoistico, inutile desiderio di non soffrire, giustificato anche a se stesso come la volontà di lasciare a tutti la giusta privacy.
Si era rifugiato dietro la corazza dell’amico discreto per paura di restare travolto dalla realtà, ma il momento era giunto. Hermione meritava un amico che non si tirasse indietro.
«Non puoi piangere per me, io… sono quello che ti consola, di solito» bisbigliò, asciugandole le lacrime. «Non le merito, Hermione.»
«Io non voglio… che mi lasci andare. Sei…» ribatté lei, tirando su col naso.
«Un cattivo amico» disse, abbozzando un sorriso.
La teneva tra le braccia quasi cullandola, in piedi al centro della stanza.
«L’unico che abbia conosciuto chi sono.»
E, nella penombra del salotto, Harry sentì che con uno sguardo, con un abbraccio, con le parole, Hermione l’avrebbe trovato. Fuggire sarebbe stato inutile.
Avrebbe potuto raggiungere un altro emisfero, ma il pensiero di lei non l’avrebbe abbandonato.
Avrebbe potuto segregarsi in casa ed evitare Ron e il resto del mondo. Non lei.
Si sarebbe fatto trovare, solo un po’ in ritardo.  
In una stanza con le finestre chiuse e i piatti da lavare. 
In una tenda in mezzo al nulla o sulle scale in procinto di andare a morire. 
Perduto e insicuro.
L’avrebbe trovato, sempre.

 
 

"Lost and insecure, you found me, you found me
Lying on the floor, surrounded, surrounded
Why'd you have to wait? Where were you? Where were you?
Just a little late, you found me, you found me."

-You found me, The Fray 

https://www.youtube.com/watch?v=xMlou7Q0GRE

   
 
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