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Autore: elsie    12/11/2007    5 recensioni
"Avete idea di che significhi essere la condanna del vostro stesso fratello? Essere la pietra di paragone a confronto della quale lui uscirà eternamente sconfitto?" Dalla base sotterranea di Alkali Lake, Alex, la figlia più piccola di William Stryker, racconta la sua storia e quella della sua famiglia. Pre X Men 2.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lbc

Disclaimer: I personaggi di questo racconto, a parte Alex Stryker, appartengono a Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Salve a tutti!

Come vedete, anche questa volta non si tratta di Dark Road, il seguito della storia di Meredith e John che ho promesso (ahimè) mesi fa e che ormai sta diventando una specie di tela di Penelope. Spero di venirne a capo prima o poi; nel frattempo, ecco a voi questa piccola one-shot. Spero che vi piaccia.

Mi rendo conto che come storia è un po' anomala, ma lasciate che vi spieghi come è nata. Qualche settimana fa ho rivisto X Men 2 e per la prima volta mi sono resa conto di quanto siano interessanti le storie personali e le motivazioni dei "cattivi", in particolare Stryker e Yuriko (che secondo me è il personaggio più sfortunato e tragico della trilogia; spero di scrivere qualcosa su di lei prima o poi), e ho pensato che sarebbe stato un vero peccato trascurare del materiale tanto interessante.

Dopo aver rimuginato qualche giorno sul personaggio del colonello Stryker e del suo "rapporto" (scusate le virgolette ma credo che in questo caso siano d'obbligo) col figlio Jason, il mio cervello ha creato questo personaggio assolutamente sgradevole, una "figlia di papà" arrogante, pavida e viziata ma contemporaneamente così fragile. Ancora non so se sono contenta o no di questo racconto; non riesco ancora a capire se Alex sia funzionale alla storia della famiglia Stryker oppure sia un personaggio assolutamente inutile e ridondante. E' che ho l'impressione che la gente tenda ad essere più spietata se combatte per qualcosa invece che contro qualcosa, ma questa è solo una mia idea.

Ancora più che per gli altri miei racconti avrei davvero piacere se qualcuno mi volesse dire cosa ne pensa di questa fic e del personaggio di Alex Stryker, dato che nemmeno io so bene cosa pensarne. Vi ringrazio fin da ora per ogni singola recensione che vorrete lasciarmi.

Buona lettura!

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Mi chiamo Alex Stryker.

Credo che il mio nome non vi sia totalmente nuovo. Se siete mutanti, probabilmente a questo punto avrete già smesso di leggere. Se invece fate parte di quei circoli privati con nomi tipo “Amici dell’Umanità”, o “Lega Contro i Mutanti”, allora con tutta probabilità io e voi ci siamo già presentati ad una delle riunioni di mio padre.

Mio padre. Il colonnello William Stryker.

Di solito io sono la ragazza che se ne sta in un angolo senza parlare. No, non la giovane donna asiatica con gli occhi spaiati e la stretta di mano come una pressa di ghisa. Quella è Yuriko, povera crista, e prima o poi vi parlerò anche di lei. Io sono la ragazza con i capelli biondi e gli occhi verdi seduta accanto alla finestra, quella a cui Stryker si rivolge chiamandola bambolina.

“Bambolina, abbi ancora un po’ di pazienza. Abbiamo quasi finito.” “Bambolina, sei sicura di non voler mangiare qualcosa? Sei pallida.”

Sì, immagino che a voi (siate pure mutanti o simpatizzanti fascisti pro-umanità) faccia un certo effetto pensare che un uomo come mio padre possa pronunciare un nomignolo tanto dolce, eppure è così. Per quanto io mi sforzi, non riesco a ricordare che lui si rivolga a me in altro modo. Credo di essere stata la sua bambolina dal giorno in cui sono nata.

Dopo tanti anni, e dopo averci rimuginato a lungo, sono giunta alla conclusione che questo dipenda principalmente da due fattori.

Il primo è che sono quello che comunemente si definisce “il figlio della vecchiaia”. La mia nascita non era stata programmata in alcun modo, e credo nemmeno desiderata. A quattordici anni di distanza dal loro primo figlio i miei genitori non avevano alcuna intenzione di metterne al mondo un altro, specialmente considerando tutte le variabili e i rischi connessi. Ma alla fine sono arrivata io, una neonata sana che con le sue urla e i suoi gorgogli riempiva una casa altrimenti buia e silenziosa.

Il secondo fattore è che io non sono Jason.

“Sano”, nella mia famiglia, ha sempre avuto un’accezione molto particolare. Per la maggior parte delle persone questa parola indica la mancanza di patologie o menomazioni che invalidino un soggetto. Per i miei significa tutto ciò che mio fratello non è, o meglio, il contrario di tutto ciò che mio fratello ha in più delle altre persone. Il che dovrebbe bastare da solo a spiegare molte cose.

In tutta onestà, ancora mi meraviglio del fatto che mia madre non abbia abortito non appena ha saputo di essere nuovamente incinta. Ho provato a chiederglielo una volta, anni fa, quando era ancora in vita, ma lei si è subito innervosita e ha rifiutato di continuare ad ascoltarmi. Non so se è stato più perché la parola “aborto” urtava la sua sensibilità da stereotipo bianca-anglosassone-protestante che si era costruita o perché tutto ciò che anche da chilometri di distanza riguardasse mio fratello la faceva trasformare improvvisamente in una statua di gesso. Non vedo, non sento, non parlo.
No, non sono tenera con mia madre. La amavo moltissimo e il suo suicidio mi ha spezzato il cuore, ma riconosco il suo ruolo. Dietro ogni persecuzione c’è sempre un istigatore silenzioso.

Da piccola ero convinta di essere malata. Periodicamente, (diciamo una volta ogni quattro mesi circa, ma è capitato che accadesse anche una volta ogni quindici giorni), mia madre mi metteva i vestiti belli e mi diceva che oggi sarei andata con papà a fare “la visita”. Ricordo un cappottino di panno color blu scuro e il pelo morbido del mio orsacchiotto che mi solleticava la guancia. Ricordo la mano di mio padre in cui la mia scompariva, mentre camminavo insieme a lui lungo i corridoi bianchi di quello che suppongo fosse una sorta di laboratorio. Ricordo i sorrisi gentili del personale medico che ci passava a fianco. “Ciao, Alex! Santo cielo, sei proprio un amore con quel cappottino!” Credo di avere anche una foto vestita in quel modo da qualche parte, scattata insieme al personale della base durante una delle mie “visite”.

Ricordo i miei pianti perché non volevo la puntura, e ricordo la voce dolce di mio padre che cercava di convincermi: “Shh, bambolina, non fare così. Ancora questa e poi torniamo a casa. La fai ancora questa puntura soltanto, eh? Solo questa e poi basta. Per il tuo papà.”

Le “visite” sono continuate finché non ho compiuto quattordici anni. Ogni volta, terminati gli esami, rimanevo seduta sul lettino con il cuore in gola e osservavo mio padre controllare ansiosamente lo schermo del computer e scorrere febbrilmente i fogli che i suoi assistenti si affrettavano a consegnargli. Io ero troppo piccola per comprendere pienamente quello che stava accadendo, ma avevo la vaga sensazione che l’amore di mio padre dipendesse da quello che era scritto su quelle pagine. Che la mia unica possibilità fosse non essere “sbagliata” come lo era mio fratello.

Quando tornavamo a casa mia madre ci aspettava appena fuori la porta, in piedi a pochi passi dall’albero di ibisco che cresceva nel parco. Il suo sguardo angosciato passava rapidamente da me a mio padre finché lui non si avvicinava e sussurrava pianissimo: “Va tutto bene, Theresa. E’ sana.” Mia madre si posava una mano sul cuore e sospirava come se si fosse appena liberata di un macigno pesante tonnellate, poi lei e mio padre si mettevano a confabulare tra di loro. Io sgusciavo in salotto, dove sapevo che avrei trovato ad aspettarmi un nuovo giocattolo. Una bambola, la maggior parte delle volte. Sono sempre stata viziata da fare schifo.

In caso ve lo siate domandando, sì, sapevo di Jason, ma in maniera molto vaga e nebulosa. Sapevo di avere un fratello grande che stava lontano, in una scuola speciale, e che era meglio non parlarne. Nessuno me lo aveva detto esplicitamente, ma io sapevo che c’era qualcosa che non andava in Jason, e che mai e poi mai avrei dovuto menzionarlo, soprattutto davanti a degli estranei. I bambini le capiscono queste cose, sapete, anche se nessuno gliele spiega. E’ il Grande Segreto di Famiglia di cui nessuno ammette l’esistenza anche se è lì di fronte a tutti. Dicono che ogni famiglia ne abbia uno, e a me era bastato sentire un paio di volte mio padre sbraitare al telefono contro qualcuno e mia madre piangere al di là della porta del suo studio per capire che Jason era il nostro segreto.

Se i miei erano reticenti e ostili nei riguardi di mio fratello, di contro con me erano protettivi fino a sfiorare l’ossessione. Mia madre soprattutto. Ho avuto diverse tate, ma nessuna durava mai più di due o tre settimane, perché per mia madre erano tutte troppo poco attente oppure apertamente negligenti. (E per essere bollati come negligenti bastava permettermi di giocare sul pavimento). Così, alla fine, lei ha smesso di lavorare ed è rimasta a casa per occuparsi di me a tempo pieno. Non potete nemmeno immaginare quanto potesse essere apprensiva. Mi ricordo che una volta, quando avevo otto anni, stavo correndo sul vialetto di cemento davanti ai garage quando improvvisamente inciampai e caddi, sbucciandomi le ginocchia e procurandomi un taglietto sul labbro. Mia madre ebbe una crisi isterica. Fece persino venire dal St. Hellen di Boston il primario di chirurgia pediatrica (uno degli “amici-degli-amici” di mio padre) perché mi visitasse. Non che mio padre fosse poi da meno, a dire la verità. Se davo un colpo di tosse tutta la casa smetteva di respirare finché non riprendevo a farlo io.

L’unico momento in cui mi era concesso farmi male era quando danzavo. Vedete, mia madre era stata una ballerina di danza classica da ragazza, ma quando aveva circa vent’anni un infortunio l’aveva costretta a smettere. Così fu deciso che sarei stata io a portare a termine i suoi sogni di gloria e diventare prima ballerina al Bolshoi, alla Scala o all’Opèra di Parigi, a scelta. La danza classica mi è sempre piaciuta, ma non quanto credevano i miei genitori. Fin da piccolissima ho sempre cercato di essere all’altezza delle loro aspettative, la copia perfetta di come secondo loro doveva essere un bravo figlio, e così ho finito per assomigliare alle bambine che si vedono nelle pubblicità dei biscotti: sempre buona, tranquilla ed educata. Non ricordo di essere mai stata rimproverata perché facevo i capricci, ma d’altra parte non ne avrei avuto motivo, dato che molto raramente mi veniva negato qualcosa. E così, quando è arrivato il momento di dire no, ho scoperto di aver totalmente disimparato a farlo. Ma questo è avvenuto molti anni dopo; a quell’epoca io ero la bambina più dolce e affettuosa del mondo, e se i miei genitori volevano che diventassi una ballerina io non li avrei delusi.

Non per essere presuntuosa, ma posso dire di essere diventata, negli anni, piuttosto brava. Certo, magari non brava come una ballerina del Bolshoi, ma ho ottenuto comunque un certo numero di ruoli da protagonista negli spettacoli che la mia scuola di ballo (la migliore che ci fosse a Providence, ovviamente; i miei genitori volevano sempre che tutto ciò con cui avevo a che fare fosse alla mia altezza) metteva in scena. Se siete mai entrati nell’ufficio di mio padre, al Dipartimento per le Politiche Mutanti, avrete sicuramente visto la grande fotografia in bianco e nero che è appesa dietro la scrivania. La ballerina che vi è ritratta sono io: avevo dodici anni e mi stavo esibendo al National Theatre di Boston. I miei genitori erano così orgogliosi di me. Mio padre lo è ancora a tal punto che nella base di Alkali Lake ha fatto sistemare una stanza, pavimentandola di legno e piazzando degli specchi e la sbarra alle pareti, in modo che io possa continuare ad esercitarmi anche reclusa qui sotto il lago.

Forse alcuni di voi hanno sentito qualcosa a proposito degli avvenimenti che hanno portato alla morte di mia madre e a tutto ciò che ve ne è scaturito, ma posso assicurarvi che quello che sapete è solo una menzogna. La storia che Jason ha fatto impazzire mia madre perché ce l’aveva con i miei, la storia che era arrabbiato perché all’Istituto Charles Xavier non era riuscito a farlo “guarire”, beh, quella è solo la versione di mio padre, la favoletta che lui si racconta per riuscire a dormire, altrimenti nemmeno la dose da cavallo di sonniferi che trangugia ogni notte per racimolare due o tre ore di sonno basterebbe.

La prima volta che vidi Jason io avevo tre anni e lui diciassette. So che è impossibile da immaginare oggi, ma prima che mio padre facesse scempio del suo corpo e della sua mente mio fratello era splendido. Arrivò a casa nostra un giorno d’inverno, i capelli biondi inumiditi dalla neve e le sue iridi spaiate, una blu e l’altra verde a causa dell’eterocromia, che riflettevano le luci artificiali dei lampadari di cristallo. Mia madre mi disse di andare subito in camera mia, ma io non resistetti e rimasi a sbirciare dalle scale mentre i miei genitori discutevano in salotto. Lui era lì; il nostro Grande Segreto di Famiglia, mio fratello Jason, era tornato a casa. Ed ora cosa sarebbe successo?

“Non dirmi di stare calma, William!” sentii gridare mia madre. “Perché lo hai riportato qui? Cosa dirà la gente? E la bambina? Hai pensato ad Alexandra, almeno?”

A quel punto qualcuno afferrò una delle mie trecce e diede un leggero strattone, e allora mi voltai di scatto e vidi Jason troneggiare su di me con un’espressione severa sul volto. Trattenni il respiro.

“Stiamo spiando, eh, mostriciattolo?” disse lentamente.

Lo guardai sconvolta. Nessuno mai mi aveva tirato i capelli e mi aveva chiamato mostriciattolo. Mai. Incapace di distogliere lo sguardo dai suoi bizzarri occhi spaiati, misi le mani nelle tasche del mio maglioncino ed annuii.

Jason scoppiò a ridere. “E bravo mostriciattolo!” esclamò. “E’ così che si fa. Vedo che fortunatamente i geni migliori non sono andati sprecati. Ed io che mi aspettavo una marmocchietta piagnucolosa. Sei molto meglio di come pensavo, mostriciattolo.”

Io distolsi lo sguardo e feci il broncio. “Non sono un mostriciattolo!” protestai.

Jason si mise le mani sui fianchi. “Ehi, ti ho appena fatto un complimento, non costringermi a cambiare idea.” rispose, per nulla intenerito. “E poi sei una tappetta con le braccia corte e la candela al naso, secondo te come dovrei chiamarti?”

Ero talmente oltraggiata che dimenticai tutte le regole di mia madre e mi strofinai il naso con il dorso della mano. “Non è vero, non ho la candela!” replicai. “Sei un bugiardo!”

Mio fratello rise di nuovo. “Bleah, che schifo!” disse tra le risate. “Molto, molto bene, mostriciattolo, a mamma verrebbe un attacco di cuore se ti vedesse pulirti il naso in quel modo. Sono molto fiero di te.”

Da bambina viziata e coccolata quale ero, non ero abituata ad essere presa in giro e Jason era decisamente andato oltre quello che potevo sopportare come prima esperienza. Troppo offesa persino per parlare, chinai la testa e cominciai a piangere. Jason smise immediatamente di ridere e si inginocchiò di fronte a me.

“Oh, andiamo, mostriciattolo, non c’è bisogno di mettersi a frignare.” disse. Io singhiozzai più forte, e allora mio fratello mi mise entrambe le mani sulle spalle e sospirò. “Va bene, va bene. Alex. Ti chiedo scusa, Alex, ok? Non volevo farti piangere. Stavo solo scherzando, davvero. Mi dispiace se te la sei presa.”

Io continuai a piangere con lo sguardo basso, arrabbiata e ferita, e allora Jason mi attirò più vicino a sé. “Ehi, ehi, Alex.” sussurrò. “Ehi, piccola, guardami.” Mi mise una mano sotto il mento e mi fece alzare il viso. Io tirai su col naso un paio di volte prima di alzare gli occhi su di lui, ma appena lo feci rimasi immediatamente incantata dalle sue iridi colorate, così diverse da qualunque altra cosa io avessi mai visto prima. Sentii una strana sensazione di vertigini, ma durò solo un istante, poi vidi che mio fratello aveva alzato la mano destra e tra le dita stringeva una grande margherita con i petali bianchi raccolti a corolla.

“Dai, prendila.” mi disse Jason. “E’ tua.”

Perplessa e incuriosita allo stesso tempo, allungai cautamente una mano, ma un secondo prima che le mie dita sfiorassero lo stelo i petali si dischiusero improvvisamente, rivelando una faccina seminascosta dai pistilli gialli. Rimasi a bocca aperta mentre la margherita si schiariva la gola e cominciava a cantare con la voce più sguaiata del mondo:

“You are my sunshine,
My only sunshine,
You make me happy
When skies are grey…”

Risi di gusto, l’offesa di poco prima già dimenticata, e Jason sorrise. Guardai di nuovo il viso di mio fratello, i suoi tratti perfetti piegati in un’espressione serena e divertita, e mi chiesi per quale ragione i miei pensavano fosse sbagliato. La margherita canterina faceva ridere; sicuramente non era per quello. Innocente e sfacciata come tutti i bambini, aprii la bocca per domandarlo direttamente a lui.

“Jason!”

Quella voce inaspettata mi fece sobbalzare. Mio fratello si girò di scatto e di nuovo provai quella sensazione di vertigine, ma questa volta fu abbastanza forte da farmi chiudere gli occhi. Quando li riaprii, la margherita e la sua canzone stonata erano svanite. Per qualche secondo mio fratello continuò a guardare preoccupato dietro di sé, verso il punto da cui era provenuto il richiamo, poi si girò nuovamente verso di me e mi scoccò un altro dei suoi proverbiali sorrisi sfacciati.

“Oh, non c’è bisogno di farsela sotto, mostriciattolo, è me che vogliono.” disse. Rimasi a guardarlo mentre si incamminava lentamente verso il salotto, dove i nostri genitori erano in attesa. “E’ meglio se te ne vai in camera tua, adesso. Ci saranno un sacco di urla.”

Jason si sbagliava. Urla e strepiti non erano nello stile di mio padre e di mia madre, e come sicuramente saprete ci sono altri modi, più sottili e crudeli, per fare del male a qualcuno, modi che sono, come potrei dire? Più eleganti, ecco.

Mia madre si comportava come se nemmeno lo vedesse. Se ne stava sempre rigida e impettita, lo sguardo vacuo e il viso pallido e tirato come se Jason fosse un intruso che suo malgrado le toccava sopportare, o, in alternativa, una cacca di cane che qualcuno aveva spiaccicato sul tappeto. E tutto questo, badate, senza mai dire una sola parola, come un efficientissimo Torquemada muto.

Mio padre, invece... Beh, mio padre non è sempre elegante, questo sono sicura che lo sapete. E così, ogni tanto, quando guardavo fuori dalla finestra, vedevo Jason fare flessioni nella neve fino a quando non crollava a terra sfinito, o stare in piedi per ore e ore sotto il salice che cresceva accanto al laghetto, tremando per il freddo finché mio padre non gli permetteva di tornare in casa. Sapete quante volte ho sentito mio padre ordinargli di seguirlo in cantina e poi vedere Jason uscirne dopo qualche ora con i lividi sul volto e le labbra spaccate, magari perché non aveva risposto “sì, signore.” o “no, signore.” abbastanza in fretta?

E accadeva che a volte, a volte, mio fratello perdesse il controllo. Credo che ci sia solo una certa quantità di umiliazioni e di sofferenze che un essere umano può sopportare prima di esplodere, e dopo, quando Jason riusciva a tornare padrone di sé, il suo sguardo era talmente terrorizzato che credo lui temesse quegli episodi molto più dei nostri genitori. Non importa quello che dice mio padre: Jason non ha mai, mai, usato di proposito i suoi poteri su di noi, potete credermi. Sì, mio fratello era arrabbiato con i nostri genitori, ma non perché li incolpava “della sua condizione”. Quale “condizione”? Mio fratello non si sentiva malato, ma odiava che qualcuno lo facesse sentire malato. Avanti, voi come avreste reagito? Credo che Jason sia stato fin troppo buono con loro; forse persino più buono di quanto non avrebbe voluto essere.

La notte, quando era tutto buio e i nostri genitori già dormivano, Jason sgusciava nella mia stanza e si sdraiava accanto a me, sul mio letto. Io rimanevo in silenzio per un po’, poi gli posavo una mano sulla spalla.

“Jason.”

Mio fratello continuava a fingere di dormire, ma, grazie alla fioca luce proveniente dalla finestra, vedevo le sue labbra piegarsi in un impercettibile sorriso. Allora cominciavo a scuoterlo delicatamente. “Jason.”

Mio fratello grugniva infastidito, come se lo avessi appena svegliato da uno splendido sogno. “Che vuoi, mostriciattolo?” mormorava ad occhi chiusi.

“Fammi vedere una storia.”

Lui si voltava su un fianco, dandomi la schiena. “Adesso no, mostriciattolo, non vedi che sto dormendo?”

Io mettevo il broncio. “Questo è il mio letto.” replicavo. “Tu non puoi dormire qui.”

“Dormo dove mi pare, mostriciattolo.”

Per un po’ nessuno di noi due parlava, poi io cominciavo a scuoterlo di nuovo, con più forza. “Jason. Jason.”

Lui si voltava verso di me, sbuffando. “Ma insomma, che ti prende? Possibile che uno non possa stare tranquillo?” Vedevo i suoi strani occhi guardarmi attraverso la penombra.

“Fammi vedere una storia.” ripetevo. “Per favore.”

Jason si sforzava di mantenere un’espressione scocciata, ma le sue labbra faticavano a trattenere un sorriso. Gli è sempre piaciuto fare il prezioso.

“E va bene, mostriciattolo, ma solo perché così chiudi la bocca.” sbuffava. “Guardami, adesso...”

E io lo guardavo mentre i suoi occhi mi trasportavano in un mondo di castelli incantati e di cigni di cristallo, di draghi e di eroi dove la protagonista era sempre una coraggiosa principessa dai capelli biondissimi e gli occhi verdi di nome Lixandre di Greenwillow. Quante avventure meravigliose ho vissuto, semplicemente guardando negli occhi verde e blu di Jason.

Nessuno, nemmeno mio padre, nemmeno Charles Xavier, conosce gli occhi di mio fratello quanto li conosco io. Io mi sono tuffata nel blu del loro mare e ho corso nel verde dei loro prati, e nemmeno posso cominciare a descrivervi che cosa si prova. Ogni notte, per quasi un anno, le iridi di mio fratello si illuminavano soltanto per me, il mostriciattolo con il moccio al naso. E in quelle notti ho capito più io di mio fratello di quanto mio padre, anzi, nostro padre, riuscirà mai a capire in una vita intera. Ho provato a spiegarglielo una volta, di mostrargli quello che io ho visto negli occhi di Jason, ma lui non mi ha voluto ascoltare. E dopo tutto quello che ha fatto e detto, nemmeno credo sia più in grado di comprendere, ammesso che lo sia mai stato.

Accadde la notte in cui mio fratello commise l’errore fatale di addormentarsi nel mio letto dopo che Lixandre aveva ucciso la strega cattiva e riportato la pace nel paese di Greenwillow. La porta della mia stanza si aprì di colpo, poi sentii le urla di mia madre.

“Lasciala stare, mostro! Lasciala immediatamente!”

Cinque parole. Le uniche che io le abbia mai sentito rivolgere a mio fratello.

Jason balzò in piedi, e io vidi mio padre arrivare dal corridoio e afferrarlo per i capelli. Mi misi a urlare, tentando di spiegare che era solo colpa mia , che Jason si era addormentato nel mio letto solo perché io lo avevo implorato di mostrarmi la fine della storia, ma mio padre nemmeno mi sentì. Trascinò mio fratello fuori dalla mia stanza, e mentre mia madre si sedeva accanto a me sul letto e mi abbracciava, sussurrandomi frasi di conforto di cui non avevo bisogno, sentivo la voce furibonda di mio padre allontanarsi lungo il corridoio, di tanto in tanto punteggiata dai rumore dei colpi e dalle urla di dolore di Jason:

“Ti avevo avvertito, disgraziato! Ti avevo avvertito di non avvicinarti a lei!”

Già all’ora di pranzo di Jason non c’era più traccia. Né lui né le sue cose sembravano essere mai state nella nostra casa, e su mio fratello tornò a calare il silenzio. Fu come se lo avessero inghiottito le tenebre dell’oblio, talmente oscure e potenti da cancellarne persino il ricordo. Piansi due giorni interi dopo che Jason sparì, e i miei genitori pensavano che fosse per qualcosa che lui mi aveva fatto; nemmeno si posero il problema di ascoltare quello che io avevo da dire. E così, alla fine, smisi di tentare di spiegare e tornai lentamente ad essere la bambina buona e ubbidiente dei loro sogni, la bambolina, la loro unica figlia.

Mentre mio fratello veniva massacrato nella sua tomba sotto la diga di Alkali Lake, io crescevo in un’elegante casa in stile coloniale immersa nella ricca campagna del Rhode Island, frequentavo le migliori scuole private che i soldi di mio padre potessero pagare e mi preparavo a diventare una stella del balletto. Il ricordo di Jason aleggiava sullo sfondo come un disegno sbiadito, un’oscura maledizione di cui nessuno voleva parlare e che pesava sui miei genitori. Il senso di colpa è qualcosa a cui nessuno può sfuggire, anche se ti sei costruito un alibi talmente convincente che alla fine cominci a crederci tu stesso. Di tanto in tanto mio padre stava via di casa per alcune settimane (“per lavoro”, diceva mia madre), e quando tornava mi portava sempre una bambola. Così io sapevo che aveva fatto del male a Jason. Alla fine avevo talmente tante bambole che nella villa a Providence ho dovuto liberare una stanza per riuscire a conservarle tutte.

Col passare degli anni mia madre divenne sempre più protettiva. Era ossessionata all’idea che io non fossi mai abbastanza al sicuro. Arrivai al punto di dover fare di nascosto anche le cose più elementari, come iscrivermi al corso di nuoto o andare a pattinare con le amiche. Quando mi chiese di smettere di ballare perché aveva paura che io cadessi e mi rompessi una gamba avrei dovuto capire che c’era qualcosa che non andava, ma ero troppo arrabbiata con lei per preoccuparmene. Ero arrabbiata per quello che aveva fatto a Jason e perché mi stava rendendo la vita impossibile. Sapete come mi chiamava la mia amica Abby?

“La ballerina di cristallo.”

Per il mio decimo compleanno i miei genitori mi avevano regalato un carillon di legno laccato della fine del diciannovesimo secolo. Quando lo si apriva, una piccola ballerina di ceramica volteggiava in una perfetta pirouette sur la pointe sulle note della Ninna Nanna di Brahms. Le sue membra aggraziate erano talmente sottili e fragili che sembravano sul punto di spezzarsi da un momento all’altro. “Questa sei tu.” mi diceva Abby indicando la ballerina. “Non ti si può nemmeno guardare per paura di romperti.”

Mia madre viveva nel perenne terrore che questo succedesse. Aveva paura che io potessi farmi male, o ammalarmi, o che qualcuno mi facesse qualcosa. Riusciva a tranquillizzarsi un po’ solo quando stavo vicino a lei, al suo fianco, ma appena mi allontanavo ecco che tornava ad enumerare dentro di sé tutte le cose orribili che potevano capitarmi e ricominciava a dannarsi. Avrei dovuto prestarle un po’ più d’attenzione, preoccuparmi di più per lei, ma ero troppo impegnata ad odiarla per le sue stupide ossessioni, e perché mi faceva sentire sporca nei riguardi di Jason. Forse è normale, a quindici anni, odiare i propri genitori. Non lo so. Ma oggi vorrei essere stata un po’ più buona con mia madre. Se potessi tornare indietro, al giorno prima di quel pomeriggio, farei di tutto per spiegarle perché non doveva farlo. Per farle capire che avevo ancora bisogno di lei. Mi piace pensare che mi avrebbe dato retta.

E’ strano, come le cose che fanno a pezzi la tua vita per poi rimettere insieme i brandelli in una forma totalmente nuova accadono sempre in quelle che paiono essere le giornate più banali e ordinarie della tua esistenza. Ero appena tornata da scuola, e come ogni giorno presi la posta dalla cassetta delle lettere e la scorsi distrattamente prima di appoggiarla sul tavolino stile Luigi XVI accanto allo specchio, nell’ingresso. Poi, dopo aver annunciato di essere tornata, entrai in cucina e presi una mela dal cesto della frutta sul tavolo, afferrai una rivista che giaceva sul bancone accanto alla finestra e mi diressi verso la veranda. Chiamai ancora una volta mia madre, ma ero talmente presa dall’intervista a Colin Farrel che solamente una piccola parte del mio cervello registrò il silenzio che c’era nella casa. Fu solo quando arrivai in salotto e vidi mio padre in piedi nel centro della stanza che mi resi conto di tutti i dettagli che erano fuori posto. Come il fatto che tutte le tende erano tirate e la casa era al buio. O che ancora nessuno era sceso dalle scale per assicurarsi che anche oggi fossi tornata a casa tutta intera.

Abbassai la mela, a cui avevo appena dato un morso, e guardai mio padre. Lui mi restituì lo sguardo senza parlare. “Come mai sei a casa così presto, papà?” chiesi.

Mio padre abbassò gli occhi per un secondo, poi tornò a guardarmi. “Bambolina.” disse. “Devo parlarti a proposito della mamma.”

I due giorni successivi passarono come in una nebbia. Non so dirvi esattamente cosa è successo; credo di aver pianto, di aver urlato, forse ho perfino rotto qualche oggetto, non ricordo molto bene. So che dopo il funerale me ne stavo seduta in un angolo a piangere in silenzio, poi mio padre entrò nella stanza, si avvicinò a me e mi abbracciò senza dire niente. Io appoggiai la testa sul suo petto, come quando ero piccola, e piansi e piansi finché non ebbi più lacrime. Mio padre mi tenne stretta ancora per qualche minuto dopo che ebbi finito di singhiozzare, poi mi asciugò il viso, mi baciò e prese le mie mani tra le sue.

“Alex, ascoltami, voglio che adesso tu vada a preparare le valige. Devi venire con me in un posto per qualche tempo, d’accordo bambolina?”

So che portarmi qui ad Alkali Lake, nel luogo più sicuro che mio padre conosca, sia il suo modo di volermi bene. Di proteggermi dal mondo. Da tutti voi. Dalla guerra che sta per scoppiare. Credo che in qualche parte oscura e dimenticata della sua mente questo vada a pareggiare tutto il male che continua a fare a Jason. E la cosa che mi fa più paura di tutte, quella che mi fa più male di tutte, è che credo che tutto questo lui lo faccia per me. Per me. Per la sua bambolina.

Avete idea di che significhi essere la condanna del vostro stesso fratello? Essere la pietra di paragone al confronto della quale lui uscirà eternamente sconfitto?

Oh, non è che io mi stia lamentando. So bene che tra me e Jason quello che soffre davvero è lui, non io, e che il mio dolore non può nemmeno lontanamente essere paragonato al suo. Fa meno male torturare che essere torturati, per dirlo in maniera brutale. Se non altro, da due anni a questa parte, siamo tornati a vivere insieme come una famiglia, noi tre. Sì, sto facendo del sarcasmo. Scusate.

Quello che succede qui sotto non ha niente di normale o rassicurante, e mi è bastato guardare negli occhi di Yuriko una sola volta per capirlo. Guardare i suoi occhi spaiati, uno verde e l’altro blu, che scrutano il nulla finché mio padre non si avvicina e le sussurra qualcosa nell’orecchio. Come vi ho detto poco fa, conosco gli occhi di mio fratello talmente bene da riconoscerli in un secondo. E da lì è bastato poco a rendermi conto che mio padre aveva creato un’infelice in più.
Ci sono molte cose che io non voglio sapere qui ad Alkali Lake, così per la maggior parte del tempo sto in camera mia, che mio padre ha fatto sistemare in modo che assomigli il più possibile alla mia stanza nella nostra villa di Providence, fatta eccezione per le finestre, ovviamente. C’è qualcosa di estremamente tragico ed estremamente poetico in tutto questo, una ballerina di cristallo che danza all'interno di un carillon di acciaio e cemento armato.

La parte “positiva” della mia reclusione forzata ad Alkali Lake è che ho moltissimo tempo libero, dato che non frequento la scuola e non faccio vita di società. Il primo anno mio padre è riuscito a farmi ammettere d’ufficio alla classe successiva, dato che prima della morte di mia madre avevo già frequentato quasi tutto l’anno scolastico. Sì, lo so che è illegale, ma per uno come mio padre, che pranza con il Ministro della Difesa e cena con il Presidente, che volete che sia ottenere un piccolo favore come questo?
Quest’anno probabilmente dovrò dare un esame, ma la cosa non mi preoccupa poi tanto. Come ho detto, il tempo è l’unica cosa che proprio non mi manca. Ho perfino iniziato a studiare il russo, per nessun altra ragione se non quella di fare qualcosa. E poi mi piace la letteratura russa dell’ottocento; Tolstoj, soprattutto. Piace molto anche a Nadja, il mio gatto d’angora grigio, la mia unica compagnia. Quando leggo o studio lei sonnecchia sdraiata sulle mie gambe, così ogni tanto le leggo qualche frase che io trovo particolarmente bella. Di solito miagola disturbata dalla mia voce, ma quando le leggo Tolstoj continua tranquilla a fare le fusa. Sospetto però che sia anche perché è pigra in maniera patologica.

Dato che di permettermi di uscire insieme a Nadja per fare due passi nella foresta nemmeno se ne parla, le uniche occasioni che ho di emergere dal mio sarcofago sotto il lago è quando accompagno mio padre a Washington, le volte che lui ha una riunione al Dipartimento o deve incontrare qualche pezzo grosso. Dopo che ha finito, mi concede di fare tutto quello che voglio. Una volta, in una boutique del centro, ho speso cinquemila dollari in vestiti solo per vedere che cosa sarebbe successo. Mio padre ha tirato fuori la carta di credito e ha pagato senza battere ciglio. Immagino che cinquemila dollari sia una cifra tutto sommato accettabile per avere l’amore di tua figlia.

Forse sarà la solitudine, forse sarà per tutte le cose inquietanti che, nonostante io mi impegni, a volte non riesco a fare a meno di vedere, ma credo di essere cambiata, qui ad Alkali Lake. In meglio o in peggio, ancora non lo so. So che una volta ero in camera mia a fissare le ballerine di Degas che danzano nei poster sulle pareti, e improvvisamente mi sono sentita furiosa. Mi sono sentita come se stessi per... per annegare, credo. Come se stessi andando a fondo e intorno a me ci fosse solo buio e gelo. E allora mi sono detta che non volevo morire ad Alkali Lake, almeno non senza aver lottato.

Ho preso Nadja sottobraccio, il primo volume di “Guerra e pace” nell’altra mano, e mi sono diretta verso la stanza in cui tengono mio fratello. I soldati di guardia mi fissavano come se fossi un alieno mentre camminavo in mezzo a loro senza nemmeno guardarli, come avevo visto mia madre fare con Jason, molti anni fa. Solo quando ormai avevo aperto la porta il sergente Lyman, il segugio capo del branco di mio padre, si è fatto avanti e ha messo una mano sullo stipite.

Mi sono stretta più forte Nadja contro il petto e l’ho guardato negli occhi. “Voglio vedere mio fratello. Adesso.”

Lui ha scosso la testa. “Mi dispiace, signorina Stryker. Non è autorizzata ad entrare.”

Io gli ho riso in faccia e ho attraversato la soglia. “E allora perché non mi spara, sergente?” ho risposto chiudendomi la porta alle spalle.

Lui guardava in basso, verso il pavimento, perciò per qualche istante non ho capito chi o cosa fosse quell’essere seduto su una sedia a rotelle in fondo alla stanza. Poi sono riuscita a scorgere i suoi occhi, uno blu e l’altro verde, ed immediatamente è stato tutto chiaro.

“Ciao, Jason.”

Lui non mi ha guardata, perciò io mi sono avvicinata e mi sono inginocchiata davanti a lui. Da qualche parte, dietro i tratti del suo volto deturpati dalla sofferenza e dalla cicatrice della lobotomia, dietro la placca di adamantio che è innestata nella sua spina dorsale e che ormai è l’unica cosa che lo mantiene in vita, mio fratello era in ascolto.

“Sono io, Jason.” ho sussurrato. “Sono Alex.” Ho cercato i suoi occhi e mi sono sforzata di sorridere. “Ehi, chi è il mostriciattolo adesso?” gli ho detto. Sì, lo so che a voi può sembrare una frase davvero orribile, ma sono sicura che Jason ne ha apprezzato l’ironia.

Nadja ha miagolato debolmente, ed io le ho dato una veloce carezza prima di sistemarla in braccio a Jason. “Nadja, lui è mio fratello Jason. Jason, questa è Nadja. Sono sicura che diventerete amici.”

Jason è rimasto immobile. Nadja si è stiracchiata, ha sbadigliato, e poi si è acciambellata sulle sue gambe. Io mi sono seduta su una sedia lì a fianco, ho aperto il libro e ho cominciato a leggere ad alta voce.

Mio padre è arrivato proprio mentre Nikolàj perdeva la sua partita a carte contro Fëdor Dolòchov.

“Che stai facendo qui, Alex?”

Io sono arrivata alla fine della frase, ho piazzato un segno tra le pagine e ho chiuso il libro. “Trascorro del tempo con mio fratello.” ho detto mentre guardavo la mia mano posarsi sulla copertina nera.

Ho sentito mio padre sospirare. “Bambolina.” ha iniziato con il tono condiscendente che usa sempre quando vuole convincermi di qualcosa, lo stesso che usava durante “le visite”. “Questo non...”

Ho alzato la testa di scatto e l’ho guardato negli occhi. “Sì, invece.” ho risposto. “Sì che lo è.”

Non so se è stato perché sono una ragazzina prepotente e viziata, o perché Alkali Lake mi aveva reso un po’ meno vigliacca. Fatto sta che per la prima volta nella mia vita avevo deliberatamente deciso di deludere mio padre e non essere la bambina buona e ubbidiente che lui voleva. Di non essere la bambolina per la quale sta combattendo.

Per qualche minuto nella stanza ci fu solo il rumore del respiratore di Jason e le fusa di Nadja. Poi mio padre ha chiuso gli occhi per qualche secondo, ed è stato come se qualcosa dentro di lui fosse improvvisamente invecchiato di anni. “Adesso devi uscire, Alex.” ha detto infine. Non avevo mai sentito la sua voce suonare così debole e stanca, nemmeno dopo la morte di mia madre.

Io mi sono alzata in piedi. “Vorrei tornare domani.”

Mio padre ha scosso la testa. “No. I miei uomini hanno l’ordine di non farti più entrare.”

Ho guardato Nadja fare la fusa in braccio a Jason, poi ho di nuovo alzato gli occhi su mio padre. “Allora rimarrò qui fuori e leggerò attraverso la porta chiusa, se per te va bene.” ho risposto alzando le spalle.

Mio padre ha chiuso di nuovo gli occhi. “E’ quello che vuoi davvero?” mi ha chiesto.

Per un istante mi è sembrato di avere di nuovo quattro anni e di stare seduta sul lettino del laboratorio mentre mio padre leggeva i risultati degli esami. Per un istante ho avuto paura che lui mi avrebbe guardata come guarda Jason. “Sì, papà. E’ quello che voglio davvero.”

Mio padre ha fissato i suoi occhi nei miei, ma nel suo sguardo non c’era traccia del disprezzo e della freddezza che riserva a mio fratello. Mi stava guardando come mi aveva guardata anni e anni prima, la prima volta che io avevo avuto un pezzo da solista nella rappresentazione di “Romeo e Giulietta” che la mia scuola di danza aveva messo in scena. Mi aveva detto che non ci sarebbe stato, invece era comparso in fondo alla sala proprio mentre io iniziavo a ballare. Per un istante, mentre eravamo l’uno di fronte all’altra nella stanza di Jason, ho visto nei suoi occhi la stessa luce di allora. Lo stesso totale, incondizionato amore.

“D’accordo, bambolina.” mi ha detto, e io mi sono sentita morire. “Puoi tornare domani.”

Da quel pomeriggio le mie visite a Jason sono diventate quotidiane. Ogni giorno, per un ora, Nadja dorme sulle sue gambe e io leggo a mio fratello qualche pagina di “Guerra e pace”. Di tanto in tanto ho un po’ di paura a guardare Jason negli occhi, sapete, ma non per via dei suoi poteri. Anche senza la lobotomia a cui mio padre l’ha sottoposto anni fa so benissimo che non mi farebbe mai del male. Quello che temo davvero è scrutare dentro le sue iridi spaiate e avere la certezza che lui mi odia.

Che mi disprezza per aver avuto tutto mentre lui non aveva niente. Per essere stata ciò che lui, agli occhi dei nostri genitori, non avrebbe mai potuto essere.

A volte, quando l’ora che ho a disposizione è terminata, e mi chino lentamente su Jason per prendere in braccio Nadja e riportarla nella mia stanza, quando io e lui siamo abbastanza vicini da ingannare le telecamere che lo sorvegliano giorno e notte avvicino piano la bocca al suo orecchio e gli sussurro delle cose. Gli dico che andrà tutto bene, che finirà presto, e che io e lui ce ne andremo lontano da Alkali Lake. Soprattutto gli dico che gli voglio bene. Spero davvero che lui riesca a sentirmi.

Ieri è c’è stato un nuovo arrivo alla base. Un mutante con la pelle blu e una lunga coda appuntita. L’ho intravisto per un secondo mentre i soldati di mio padre lo portavano verso i laboratori, ma dato che alcune cose preferisco non saperle mi sono girata in fretta dall’altra parte. Poi mi è venuto in mente che sto cominciando ad assomigliare a mia madre e mi sono vergognata. Subito dopo, però, l’idea di vergognarmi di mia madre mi ha fatto stare ancora peggio.

Ieri sera, dopo cena, mio padre è venuto nella mia stanza. Io stavo seduta alla scrivania, di spalle alla porta, e mi sono resa conto della sua presenza solo quando lui mi ha posato una mano sulla spalla. Sa essere estremamente silenzioso, quando vuole. Immagino che gli anni trascorsi a organizzare operazioni segrete nella giungla del Vietnam gli abbiano insegnato qualche trucchetto.

Non mi sono voltata a guardarlo. Come ho detto, sono una vigliacca.

“So che non capisci, Alex.” Le sue dita hanno stretto un po’ più forte la mia spalla. “So che per te è impossibile capire. E sono contento che sia così. Spero che tu non debba mai arrivare a comprendere perché io stia facendo tutto questo.”

Le lacrime mi hanno immediatamente offuscato gli occhi. Ho lottato con tutte le mie forze per trattenerle, perché non volevo che mio padre l’avesse vinta così facilmente.

“Tra qualche giorno sarà tutto finito. Te lo prometto. Ancora qualche giorno e potremmo lasciare Alkali Lake, e tornare a casa nostra. Ricominceremo tutto da capo, vedrai.” Mio padre ha tolto la mano dalla mia spalla e mi ha accarezzato i capelli. “Non piangere, bambolina.”

Avevo appena perso la mia battaglia con le lacrime che ora mi scendevano silenziose e roventi sul volto, eppure nemmeno allora mi sono voltata a guardarlo. Ho continuato a guardare il poster appeso davanti alla scrivania, una riproduzione dell’ “Ofelia” di Paul Steck. Anche quello è stato un regalo di mio padre: una volta, anni fa, quando mia madre era ancora viva, ero andata con i miei genitori in vacanza a Parigi, e al Musée du Petit-Palais ero rimasta incantata davanti a quel dipinto, ai capelli rosso fuoco di Ofelia che si confondevano con le alghe mentre la ragazza affondava nel fiume. La sera, in albergo, avevo trovato il poster con la riproduzione arrotolato e appoggiato sul mio cuscino.

Mio padre si è chinato lentamente verso di me. “Siamo rimasti solamente io e te, bambolina.” ha sussurrato. “Io ho solo te.” Mi ha dato ancora una carezza, l’ultima, poi si è voltato ed è uscito.

Io ho guardato Ofelia sprofondare nelle acque alcuni centimetri sopra la mia testa. I suoi capelli ondeggiano verso l’alto, verso la superficie, e la corrente le sta strappando via dalle mani il mazzo di fiori che si stringe al petto, eppure il suo viso è talmente sereno e tranquillo che uno pensa che forse, forse, annegare non le dispiace poi così tanto.

Beh, a me dispiacerebbe. Non sono ancora pronta per affogare ad Alkali Lake. Non voglio affogare ad Alkali Lake.

Oggi, dopo che la mia ora con Jason è terminata, ho ripetuto a mio fratello quello che nostro padre ha detto a me ieri sera, ma ho cambiato la frase finale. “Io non ti lascio qui, Jason. Verrai via con noi. Ancora non so come, ma vedrai che mi inventerò qualcosa. Devi solo...” Ho fatto scivolare la mia mano nella sua e ho dato una leggera stretta. Veloce, così i soldati di guardia non si sarebbero accorti di niente. “Devi solo avere fiducia in me.”

Ancora non so se quelle frasi le ho dette a Jason per consolarlo, o a me stessa per farmi coraggio. Fatto sta che quando ho preso in braccio Nadja ho avuto l’impressione che gli occhi di mio fratello cercassero i miei. Per un secondo solo, anzi, per una frazione di secondo, i nostri sguardi si sono incrociati, poi Jason è ritornato a fissare il pavimento.

Non so ancora cosa ho visto negli occhi di mio fratello, se la ragazzina ricca e viziata che spende migliaia di dollari in vestiti solo per capriccio, o la bambolina buona e obbediente che mio padre desidera, o questa nuova Alex, questa ballerina di cristallo che ha deciso di smettere di danzare in tondo sul suo piedistallo e di affrontare la vita. Anche a rischio di spezzarsi alcune delle sue membra di vetro. Anche a rischio di perdere l’amore di suo padre.

Immagino che a questo punto vi starete domandando quale di queste persone sceglierò di essere quando arriverà il momento. Di solito le storie finiscono con l’eroina buona e coraggiosa che prende la decisione più nobile anche a costo di sacrificarsi; questa storia, invece, non terminerà così. Non ci sarà nessun “... e vissero tutti felici e contenti.”; almeno, non subito. L’atto finale è ancora da scrivere, e non posso dirvi cosa sarà accaduto quando la parola fine comparirà sulla pagina. Per il momento, osservo il poster di Ofelia in camera mia, stringo forte Nadja tra le mie braccia e aspetto.

Auguratemi buona fortuna. Ne avrò bisogno.

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Allora, come vi è parso? Che ne dite di questo finale aperto? Secondo voi, per semplice e pura ipotesi, cosa potrebbe fare Alex di fronte agli avvenimenti di X Men 2? Sarei molto curiosa di conoscere la vostra opinione, dato che io non ne ho la più pallida idea. Non ho ancora ben capito se Alex sia o meno una brava ragazza.

Seguono alcune precisazioni:

1) Sono sicura che avrete riconosciuto la canzone che Jason fa cantare alla margherita il giorno in cui lui e Alex si incontrano per la prima volta, ma tanto per non incorrere in una denuncia per violazione dei diritti d'autore ci tengo a precisare che si tratta di "You Are My Sunshine" di Jimmy Davis e Charles Mitchell.

2) Ammetto di non essere un'esperta di danza classica. Se ho utilizzato qualche termine a sproposito fatemelo sapere e sarò felicissima di correggermi.

3) Ho letto "Guerra e Pace" qualche anno fa e non sono sicura al cento per cento di ricordare esattamente chi fossero i due partecipanti alla famosa partita a carte, e non ho avuto la forza di rileggermi i quattro volumi che compongono il romanzo. Di Dolòchov sono quasi sicura, ma non mi ricordo se l'altro giocatore fosse proprio Nikolàj Rostov. Anche in questo caso una correzione sarebbe più che benvenuta.

4) Vorrei tanto poter dire che il titolo "La ballerina di cristallo" sia una mia invenzione. Purtroppo non lo è. Nell'originale inglese, una delle puntate della terza serie di "Lost" si intitola "The Glass Ballerina" (non so se in italiano abbiano fatto una traduzione letterale o se lo abbiano cambiato radicalmente). Io l'ho trovato bellissimo e molto poetico, e anche se in "Lost" il titolo si riferiva ad un soprammobile di cristallo raffigurante appunto una ballerina, questa frase mi è sembrata molto indicata per descrivere Alexandra Stryker.

Come ho detto all'inizio qualsiasi recensione, sia positiva o negativa, sarebbe molto apprezzata. Un bacio a tutti quanti e a presto!!!

  
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