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Autore: Loveless    12/11/2007    1 recensioni
Perché tutto è effimero, niente è eterno. Ma ci sono tracce e ricordi che durano a lungo. E ci consentono di ricominciare a vivere per qualcun altro.
(Spolier num. 16, 17, 18)
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Fuuma Monou, Seishiro Sakurazuka, Subaru Sumeragi
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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“Prega per me, perché ho perso fiducia nelle guerre sante

Il cielo mi è stato negato, perché non posso più farne parte?

L’oscurità mi ha avvolto, consumando la mia anima mortale

Tutte le mie virtù sacrificate, può il paradiso essere così crudele?”

The Truth Beneath The Rose – Within Temptation

Quella mattina, nella città di Tokyo si era arrivati a sfiorare i quaranta gradi di caldo.
Vampate roventi di calore si alzavano dall'asfalto, andando ad investire i passanti, che si trovavano schiacciati fra quei vapori quasi liquidi e gli impietosi raggi del sole.
Se in strada la situazione era insopportabile, in auto o in un qualunque ufficio non dotato di aria condizionata pareva di stare vicino alla bocca degli inferi.
Il calore emanato dal motore di una macchina in corsa, quello di un computer, quello emanato dagli stessi umani... Tutto sembrava volersi trasformare in fiamme di un fuoco invisibile.

Al pomeriggio, come se il tempo stesso avesse voluto fare uno scherzo crudele a tutti coloro che si erano attrezzati al meglio per affrontare quell’insolita giornata autunnale di caldo torrido, il cielo si rabbuiò improvvisamente e cominciò a piovere di quella pioggia sottile e fastidiosa che sapeva infilarsi con innaturale abilità fin dentro i vestiti.

Subaru Sumeragi si strinse addosso il leggero spolverino scuro che indossava e non trattenne un brivido di freddo. Alzò il bavero, per proteggersi almeno il collo, e continuò per la sua strada.

Si fermò soltanto davanti ad un portone di ferro ormai arrugginito, in un quartiere in cui non si era mai recato prima di allora, e per ovvi motivi.

Nessuno amava mettere piede in territori abbandonati dalla stessa yakuza, perché nemmeno la mafia aveva alcun interesse a controllarli, e per questo erano in preda alla più totale anarchia. In quel luogo, un quartiere dimenticato di una delle città più moderne del mondo in cui vigeva, più che in altri posti, la legge del più forte.

Pezzi di vernice essiccata si staccarono dalla porta, quando l’onmyouji la spinse leggermente per entrare. All’interno dell’edificio, una vecchia fabbrica elettronica abbandonata da ormai una decina d’anni, regnava un tanfo maleodorante di umidità ristagnante e rifiuti di animali del sottosuolo.

Gemette leggermente, sentendo quell’odore, ma si costrinse ad avanzare nel buio, a tentoni come un cieco.

Le vecchie tubature scricchiolavano, graffiate dai piccoli zampettii dei topi, quasi volessero sottolineare ogni suo passo col loro rumore, e qualche rara goccia d’acqua cadeva dai muri ricoperti di vecchio intonaco screpolato ed ammuffito.

Malgrado l’ambiente ed il buio gli impedissero di vedere bene, - l’unica luce veniva dagli spiragli delle finestre sbarrate e leggermente rientranti sul muro, almeno da quanto riusciva a vedere, - il suo passo era veloce. Strizzando gli occhi, sforzandosi di dare forma e nome alle ombre più chiare davanti a lui, procedeva spedito in avanti, con ogni senso all’erta.

Si bloccò quando il suo piede scivolò su qualcosa di morbido. Lo raccolse. Era una scarpetta nera. Diverse macchie scarlatte ne macchiavano la suola.

La scarpa era immersa in qualcosa di più vischioso dell’acqua. Abbassandosi e toccando il pavimento con la punta delle dita, si portò la mano bagnata alle labbra. Le ritirò subito, quasi inorridito, e si pulì sul cappotto.

Il sangue non si era ancora seccato. Come temeva, non era arrivato abbastanza in fetta.

Almeno doveva trovare il corpo di quella bambina. Riportarla ai suoi genitori.

Sapeva quanto il dolore si acuisse, nel piangere ogni giorno davanti ad una tomba vuota.

Qualcosa lo colpì sulla testa. Qualcosa di liquido.

Solo allora capì come mai la pozza di sangue non si fosse ancora rappresa. Il cadavere doveva essere là sopra.

Vicino a lui c’era una scala di metallo, nuova, appoggiata su un’impalcatura anch’essa in metallo stranamente in buone condizioni.

Dopo aver preso fiato, Subaru cominciò lentamente a salire. Non era così impaziente di arrivare a fine scalata.

Una parte del tetto era sfondata, permettendo alla debole luce che riusciva a filtrare tra le nuvole di entrare. Era molto fioca, ma per lui era abbastanza per permettergli di distinguere la piccola sagoma scura che sembrava librarsi poco sotto una delle numerose travi di sostegno in acciaio.

Si puntellò sulle ginocchia per mantenersi in equilibrio, una volta issatosi sull’impalcatura. Un tempo si sarebbe sentito arrabbiato per un tale scempio, ma in quel momento sentiva solo un dolore profondo all’altezza del cuore, e tristezza.

La bambina era tenuta fissa alla trave con una corda attorno al collo. Era stata impiccata, era vero, ma la causa della morte non era stata quella. Numerosi squarci amarantini all’altezza del petto della bambina, che lasciavano cadere il vestito azzurro che la piccola indossava in piccoli brandelli di stoffa misti a sangue ormai rappreso, testimoniavano i veri segni dell’assassinio.

Il sangue le colava lungo la gamba nuda, raccogliendosi appena nella stoffa della calza bianca, per poi continuare a scendere. Da lì veniva il sangue che gli era caduto addosso.

Il viso della bambina sembrava una maschera di cera, per quanto era pallido, cianotico solo all’altezza del collo, ma quella era una cera su cui uno scultore poco pietoso aveva voluto imprimere dei lineamenti di paura e di dolore. Al giovane ricordarono le maschere che si usavano per le rappresentazioni teatrali drammatiche.

Lentamente – non tanto lentamente, forse – si spostò dal suo appiglio alla trave. La corda era stata legata a quasi metà percorso, come se lo stesso assassino avesse voluto rendere difficile il recupero di quei poveri resti.

Mettendo con cautela un piede davanti all’altro, Subaru avanzò lungo la trave, fino a trovarsi a pochi centimetri dalla bambina. Sciogliere il nodo stando in equilibrio fu stranamente più facile del sollevare quel corpo inerme.

Ormai si era abituato a tenere corpi morti tra le braccia, comunque…

Non gli faceva più molta impressione stringere forte delle membra gelide come marmo, non pensava più ai cadaveri come dei pupazzi di stoffa che sembravano volersi afflosciare su loro stessi, privi di sostegno e privi di appoggio. Erano dei corpi svuotati, non tanto diversi da dei gusci vuoti di una crisalide.

In quello, Seishirou era stato un buon maestro. Gli era bastata una sola lezione, per fargli imparare il concetto.

Aveva cominciato a piovere forte. L’acqua entrava a fiotti dal buco del tetto, cadendo su parte della trave e sul pavimento.

Subaru inspirò l’aria umida per darsi coraggio, quando un altro odore, già più pungente e fastidioso di quello della pioggia, gli colpì le narici. Si concesse un attimo di riflessione per identificarlo, anche se dentro di sé aveva già capito.

Benzina.

Qualche metro più in basso, nell’oscurità si accese un piccolo puntino fiammeggiante, come quello di una sigaretta che si accende. Poi, una piccola scia luminosa fatta di piccole braci.

Dèi del cielo, doveva aspettarselo.

Qualcosa esplose sotto i suoi piedi talmente forte da farlo traballare mentre delle sottili lingue di fuoco, alimentate dalla non modica quantità di benzina in giro per l’edificio, cominciarono a distribuirsi in giro per l’edificio con uno scoppiettio allegro.

Se prima non c’era luce, ora ce n’era davvero troppa.

Subaru non si fermò a considerare l’assurdità della situazione ma arretrò lentamente lungo lo spazio percorso in precedenza, cercando di guadagnare l’uscita.

L’ossigeno venne risucchiato dalle fiamme, facendo annaspare il giovane e costringendolo ad inalare lunghe boccate di un’aria che sapeva di benzina e vernice che andava incendiandosi. Chissà quanto avrebbe potuto resistere.

Sotto di lui, sentì un altro paio di tubature scoppiare. Una parte della struttura di metallo su cui si era arrampicato poco prima franò su se stessa, e lui dovette schiacciarsi contro il muro per non fare la stessa fine. Le fiamme avevano raggiunto la porta d’uscita. Rimanevano le finestre come unica uscita, anche se il fuoco era paurosamente vicino.

Ma per salvarsi la pelle, era anche disposto a lasciarsi abbrustolire un po’.

A parte un leggero calore alla mano che aveva alzato per proteggersi il viso, quando superò le prime fiamme non provò particolarmente dolore. Atterrò perfettamente sulla rientranza della parete, larga abbastanza per stare seduto.

Non si aspettava proprio che la finestra su cui si era gettato fosse chiusa.

Incredulo, Subaru le mollò un pugno, ma sentì la mano sbattere contro il ferro. Da lontano credeva che le avessero bloccate al solito modo, con delle travi di legno, ma le avevano sigillate con il metallo. Aprirle a spallate o a calci non era possibile.

Tirò fuori un ofuda dalla manica, tenendo sempre stretta a sé la bambina con un braccio, e cominciò a recitare una breve formula di offensiva, ma a metà le parole gli si troncarono in gola.

Era da tempo che non aveva più quel tipo di potere.

- Maledizione! – imprecò ad alta voce. Il fuoco si era propagato ad una velocità spaventosa, e già stava lavorando alacremente per circondarlo, sfiorandogli i piedi. Non c’era davvero più niente da fare.

Subaru si rannicchiò contro se stesso, stringendo il cadavere della bambina. Era lei il motivo della sua presenza in quel posto. Anche per lei doveva fuggire.

Ma non sapeva come fare ad uscire da quella situazione.

Una parte di sé esultò, disgustosamente felice.

Meglio, no? Morire. Raggiungere Hokuto e Seishirou. Basta responsabilità, basta sensi di colpa, basta storie sulla fine del mondo, basta tutto. Fai un passo avanti e lasciati raggiungere, stupido. Sarà doloroso, è vero, brucerai, ma poi non ci sarà più nulla. L’intensità del dolore dura solo qualche attimo, poi c’è solo silenzio al posto del crepitio del fiamme, poi c’è il nero al posto della luce del fuoco, poi c’è l’odore della notte al posto della carne bruciata.

Ma poi c’è lui, no? Anche se ti sforzi di farlo diventare parte integrante di te, il suo occhio non sarà mai tuo. Sarà sempre parte di Seishirou Sakurazuka, e non di Subaru, ormai ex capofamiglia dei Sumeragi.Tu potrai anche morire, ma non è giusto che anche ciò che rimane della sua essenza scompaia con te.

E’ così crudele farlo morire ancora…

Senza nemmeno accorgersi di quello che stava facendo, diede un ultimo colpo violento con la mano alla copertura d’acciaio della finestra, gridando dalla voglia di rimanere vivo e dal dolore al polso.

Senza un apparente motivo logico, il metallo saltò in aria.

Senza più un appoggio, Subaru si sentì per un attimo sospeso in aria, poi vide se stesso precipitare verso il basso, come risucchiato da un buco nero.

I suoi polmoni inalarono ossigeno e pioggia.

Era fuori. Non sapeva come, ma era fuori da lì.

Sentì le reni battere violentemente contro qualcosa di duro, ed il colpo gli fece mancare il fiato di colpo. Tutte le ammaccature, le bruciature e le escoriazioni si misero ad urlare il loro dolore tutto in una volta. Aveva la vaga percezione di essere ancora abbracciato al cadavere della bambina, ma non aveva alcuna intenzione di lasciarlo andare, malgrado si sentisse le braccia ridotte alla stregua di due stuzzicadenti rotti.

La testa pulsava dolorosamente in zona tempie, facendolo sentire come una pallina da flipper che schizza impazzita dentro una stanza vuota.

- Subaru Sumeragi, - mormorò, a bassa voce, stupendosi del suono roco della sua stessa voce, - Subaru Sumeragi, vivo per miracolo.

…A sette anni, Hokuto già sapeva cosa sarebbe diventata: una stilista di grido. Rubava ogni rivista che riusciva a trovare e le nascondeva dentro la fodera vuota di un cuscino, poi la sera le tirava fuori e gliele mostrava. Si armava di un paio di forbici e ritagliava le pubblicità che ritraevano dei vestiti e le incollava su un quaderno a seconda di come voleva comporle. Si sedevano poi sul pavimento e lei, sfogliando le pagine, indicava le figure e si inventava le storie di quelle persone. Quando i loro genitori erano ancora vivi, lei si intrufolava nella loro camera e prendeva i vestiti della loro mamma, per provarseli. Uno dei suoi primi ricordi era lei che si provava un vestito bianco davanti allo specchio, con una striscia di rossetto sul labbro superiore e le palpebre completamente azzurre di trucco.

Solo qualche anno più tardi aveva preso lei stessa a disegnare i propri modelli, prima a matita, dove risultavano ben visibili le cancellature, poi con una penna a punta fine nera, ma lì doveva sforzarsi di tenere la mano che ripassava sollevata dal foglio, o si sarebbe macchiato tutto.

Altro ricordo: Hokuto sul lavandino che si pulisce le mani, dopo che una sua fedele penna aveva perso inchiostro, ed il liquido scuro inghiottito nel vortice metallico di una tubatura. Lei che solleva la testa e gli sorride, mostrandogli la mano completamente nera, mentre una goccia d’acqua le scivola lungo il palmo, tingendosi di scuro man mano che scende…

…Seishirou che accosta la Mild Seven alle labbra, la mano sopra scarlatta di un sangue non suo, mentre una goccia cremisi gli scivola lentamente lungo il polso…

Quando la testa smise di girargli, Subaru si arrischiò a tentare di mettersi in piedi. Il peso dell’acqua piovana l’aveva tenuto inchiodato al suolo fino a quel momento, ed ancora lottava per costringerlo in ginocchio. Anche i vestiti inzuppati gli pesavano. La prima cosa che desiderò, molto egoisticamente, fu di trovarsi da qualche parte lontano da lì, con dei vestiti asciutti addosso ed una sigaretta in mano.

Riuscì a mettere a fuoco una sagoma scura ed un paio di fari, attraverso la nebbia che gli offuscava gli occhi, quando abbassò la testa.

Chi se ne importava.

Qualcuno gli appoggiò qualcosa sulla schiena. Qualcosa di caldo e, dèi del cielo, asciutto. Una giacca.

Due mani appoggiate sui suoi avambracci lo aiutarono a mettersi in piedi. Le gambe gli traballavano.

Quando lo sconosciuto tentò di levargli la bambina dalle braccia, Subaru la strinse a sé più forte.

Subaru Sumeragi. Vivo per miracolo, lei non ha avuto questa fortuna.

Senza nemmeno usare la forza, l’altro gli aprì lentamente le dita strette attorno alla nuca della bambina. Subaru non ebbe nemmeno la forza di stringerle ancora e lasciò cadere il braccio lungo il fianco.

Il cadavere gli venne levato di dosso con la stessa delicatezza che si usava per togliere un neonato dalla braccia della madre apprensiva.

Chiuse gli occhi, stranamente scaldato dal tessuto di quel cappotto troppo grande per lui.

Li riaprì. Stava fissando quello che sembrava il tetto di una macchina. Nero. Era sdraiato sul sedile del passeggero. Sul parabrezza, la pioggia schizzava con tanta violenza da sembrare grandine. Malgrado la sottile nebbia che offuscava il vetro per via del riscaldamento acceso, si vedevano i bagliori non troppo lontani dell’incendio. Gli indicatori del quadro del guidatore erano accesi, le chiavi erano ancora inserite. La portiera era aperta, non c’era nessuno vicino a lui.

Chiuse gli occhi, li riaprì ancora.

Aveva la guancia premuta contro la stoffa ruvida del poggiatesta. Tutto rannicchiato su se stesso, usando la giacca come coperta, sembrava un feto nel grembo della madre.

Non se n’era accorto, ma il cappotto aveva un odore tutto suo. Annusandolo, scoprì un lievissimo odore di tabacco, quello che sembrava il profumo di un balsamo agli oli essenziali cinesi e qualcos’altro che non riuscì ad identificare.

Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il cerchietto arancione di una sigaretta accesa. Lo sguardo risalì sulla mano appoggiata quasi svogliatamente sul volante, lungo il braccio della persona accanto a lui, - camicia scura, registrò il suo cervello ancora sopito – le spalle e le ciocche disordinate di capelli neri. Poi, più niente.

L’auto andava. Vedeva, oltre la sagoma scura del guidatore, le luci schizzare a velocità folle.

- Dove siamo? – chiese, con voce roca. Si sentiva in bocca un gusto amaro, il suo stomaco era a pezzi.

- Non ti preoccupare.

- Dove andiamo?

- Non ti preoccupare.

- Sei troppo veloce, Seishirou-san, - biascicò Subaru, pur sapendo che stava dicendo cose prive di senso, - Così ti fermano…

Il guidatore si girò verso di lui. Il suo viso sembrava un buco nero.

Sentì delle labbra calde premergli contro la fronte. Senza respirare, sentì l’altro compitare lentamente: Dormi.

Come obbedendo ad un ordine, le sue palpebre si chiusero di scatto.

Ci mise qualche secondo per svegliarsi e ricordare chi fosse. Sentiva una metà del corpo calda e l’altra fredda. Si ricordò di una volta che si era addormentato sul treno di ritorno a Tokyo, dopo un impegno di lavoro particolarmente spossante. Si sentì come allora, rigido come una statua, confuso, imbarazzato senza un motivo preciso.

Senza aprire gli occhi, provò a muoversi, voltato su un fianco com’era. Il corpo reagiva con la stessa lentezza di quello di un malato terminale, si sentiva le membra pesanti. Ma la testa era davvero la cosa peggiore.

Doveva averla battuta da qualche parte, perché sentiva qualcosa di gonfio sulla nuca. Quello che prima era un dolore fatto di piccole punture di fastidio che si propagavano dalla fronte ai nervi del collo era diventato un'unica pulsazione sorda ed opaca.

- Ben svegliato, dormiglione che non sei altro. Credevo ci sarebbero volute la trombe del giudizio per riportarti sulla terra. Hai dormito la bellezza di sei ore filate. Come va la testa?

- Cosa? – chiese lo sciamano, ancora con le idee in disordine, aprendo istintivamente gli occhi e girandosi sulla schiena.

Si trovava disteso su un futon, ed aveva una coperta di lana stesa con cura dal collo alle caviglie. Kamui, il capo del suo nuovo schieramento, era seduto sul tatami, con un libro aperto sulle ginocchia e dei piccoli occhiali rettangolari da lettura indosso.

- La testa, - ripeté lentamente l’altro indicando il capo con un gesto vago della mano, – Ti ho chiesto come va.

- Non molto bene, - ammise Subaru. Kamui annuì, come se si fosse aspettato una risposta non molto diversa.

- La prossima volta, potrei suggerire un bel salto dai resti del Raimbow Bridge? Di sicuro sarebbe un suicidio molto meno indolore che gettarsi da una finestra di un edificio in fiamme, anche se di minor effetto.

Lo sciamano non rispose e si mise a fissare il soffitto. Gli dava fastidio vedere il volto sorridente e rilassato del capo dei Chi no Ryu. Al confronto si sentiva uno zombie.

- Guidavi tu quella macchina?

- Sì.

- Hai diciassette anni…

- Credimi, non li dimostro.

Come se fosse stato quello il punto, che conversazione puerile. La cosa che più infastidiva Subaru era aver chiamato l’altro – e con quella le volte salivano a quota due – Seishirou.

Eppure erano due persone diverse. Completamente diverse. Perché finiva per confonderli?

Senza contare che, con l’occhio destro ora funzionate, non avrebbe più dovuto avere certi problemi.

Il suo dolente flusso di pensieri venne interrotto dalla mano di Kamui che gli toccava la fronte per sentirgli la temperatura.

- Sei la prima persona che conosco che dopo essere scampata ad una giornata del genere rischia di morire di polmonite, - commentò il giovane, alzandosi, - Vado a prendere qualcosa che ti faccia calare la febbre. Vuoi un tè?

- Come? – chiese stupefatto Subaru, chiedendosi se aveva capito bene. L’altro scrollò le spalle.

- Al latte, con tanto limone e poco zucchero, come vuoi tu.

Aveva frainteso la sua domanda. Tanto valeva adeguarsi.

- Come ti fa comodo.

- Bravo ragazzo, - disse Kamui con un sorriso furbo, prima di sparire dietro lo shoji che dava sul corridoio.

Visto che il dolore al capo non gli dava tregua e lo costringeva a stare con il collo rigido, Subaru decise di limitare i movimenti il più possibile per guardarsi attorno.

Le pareti in legno che lo circondavano erano totalmente spoglie, completamente impersonali, talmente bianche da fargli socchiudere gli occhi. Alla sua sinistra c’erano un armadio di mogano scuro ed un cassettone, entrambi mobili di buon gusto, ma stranamente privi di graffi, come se non fossero mai stati usati. Dietro di lui, una finestra leggermente sopraelevata rispetto al suo giaciglio. Allungando la mano, sentì anche il frusciare delicato di una tenda di stoffa ruvida. La lampada sul soffitto era spenta, ma la luce che passava oltre la finestra era abbastanza forte da illuminare la stanza, per quanto tenue; forse era il colore delle pareti che potenziava quei deboli raggi. Non pioveva più.

Nell’aria c’era un gradevole odore di cannella che diede un po’ di pace ai suoi nervi infiammati. Gli faceva pensare ad un posto lontano dal mondo reale, che galleggiava nel vuoto.

- Se un uomo la mattina conosce la retta via, potrà morire la sera stessa senza alcun rimpianto, – disse il Kamui della Terra, quando rientrò nella stanza. Replicò allo sguardo perplesso dello sciamano con un sorriso.

- Andiamo. Dovresti conoscere questa frase. Prova ad indovinare.

- Non credo di essere nella condizione di ricordarmi chi l’ha detta.

- Confucio. Comunque hai ragione, neanche io me lo ricorderei se avessi trentanove di febbre e così tante ustioni e lividi sul corpo da poter essere scambiato per una persona di colore, - commentò il ragazzo, posando sul pavimento di tatami un piccolo vassoio con sopra due tazze di tè, due cucchiaini, un contenitore di zucchero di canna ed una scatoletta bianca che sembrava contenere medicinali, - Non ho aggiunto il limone, so che non ti piace, ma se vuoi posso andartelo a prendere, - aggiunse.

Subaru sapeva che era sincero. Una volta lasciato il mondo esterno fuori dalla porta, lo spietato capo dei Chi no Ryu si ritirava e lasciava il posto ad un’altra persona. Nel vederlo così bello con la camicia profumata di pulito e gli occhiali rettangolari, col sorriso ampio e l’aria da bravo ragazzo, ogni madre l’avrebbe guardato come il figlio modello ed ogni ragazza avrebbe sognato anche solo di scambiarci qualche parola.

Tuttavia, l’aver visto l’altra faccia di quel ragazzo lo faceva apparire meno splendente ai suoi occhi. Quella gentilezza lo metteva a disagio, la sua totale disponibilità lo imbarazzava.

- Va bene così, grazie.

- Non mi disturba farlo, - lo rassicurò Kamui.

- Sul serio, va benissimo.

- Ti ho portato anche un antipiretico, così sfebbrerai più velocemente. Però le istruzioni dicono che non bisogna prenderlo a stomaco vuoto. Appena finisci il tè vado a preparare qualcosa. Non sarò un bravo cuoco, ma spero di saper cucinare qualcosa di commestibile.

- Mi basta anche del pane.

- Sciocchezze. Scommetto che è da parecchio che non metti nulla sotto i denti, ed il pane non è esattamente la cosa più indicata per una persona a digiuno. Finirai per digerirti lo stomaco.

Subaru, incapace di replicare, si portò la tazza alle labbra e tentò di bere il suo tè il più in fretta possibile, ma la sua foga fu tale da scottarsi la lingua e di irritarsi la gola già infiammata. Kamui lo vide ma non commentò.

- Non ho capito dove siamo, - disse Subaru alla fine, cercando di sembrare spontaneo.

- Non potevi capirlo, visto e considerato che qui non ci sei mai stato. E’ la casa del tuo predecessore.

Di tutte le sorprese, quella era l’ultima che poteva aspettarsi. Per fortuna aveva appoggiato la tazza vuota per terra, altrimenti gli sarebbe caduta per terra.

- Seishirou viveva qui?

- E’ quello che ho detto, - rispose il Kamui dei Chi no Ryu, imperturbabile.

Ci fu qualche attimo di silenzio, nel quale Subaru capì che non sarebbe riuscito a fargli dire altro. Decise di ripiegare sulla conversazione, finché l’influsso caldo del tè gli teneva snebbiata la testa e lo manteneva abbastanza lucido.

- Lo conoscevi?

- Oh ho, ripieghiamo sulla conversazione.

Silenzio. Non trovare subito qualcosa da ribattere era stranamente snervante.

- Direi che lo capisco.

Subaru non capì perché usasse il presente.

- Due predatori si intendono sempre alla perfezione.

Già. Due lupi in un mondo di agnelli. Due cacciatori solitari con cui non c’erano seconde pelli che resistessero.

- Visto che hai finito il tè, vado a cucinare. Non ti consiglio di alzarti, finiresti subito per svenire.

Subaru aspettò che l’altro avesse raccolto tutto e fosse già a metà strada tra lo shoji ed il suo letto.

- Perché?

Il giovane si girò indietro, incuriosito.

- Questo. Per me.

- Perché?

Sembrava quasi che lo chiedesse a se stesso, a qualcuno di invisibile di fronte a lui, allo stesso Subaru.

- Perché è questo quello che faccio.

Quando Kamui tornò, non meno di dieci minuti dopo, il mal di testa aveva fatto in tempo a peggiorare ancora. A Subaru sembrava che qualcuno si stesse divertendo ad usare un trapano dentro il suo cervello, ed i colpi ritmati dello strumento si trasmettessero in tutto il suo corpo, riempiendogli la pelle di lunghi brividi ghiacciati.

- Ce la fai a tenere in mano una forchetta o devo imboccarti? – chiese il capo dei Chi no Ryu, piegando appena la testa di lato. Malgrado nella sua voce non ci fosse alcun tono canzonatorio, lo sciamano si sentì comunque in dovere di lanciargli un’occhiataccia, tendendo una mano per prendere il piatto.

- E’ una semplice frittata, non ho osato fare altro per non rischiare di avvelenarti, - si scusò Kamui.

- E’ anche troppo.

Anche se non avesse avuto il mal di testa che effettivamente aveva, non sarebbe riuscito a mangiare molto comunque. Gli era tornata in mente la bambina che aveva portato fuori dalla fabbrica abbandonata. Che fine aveva fatto? Qualcuno l’aveva trovata? E l’assassino era morto nello stesso incendio che aveva provocato?

Si sforzò comunque di mangiare qualche boccone, giusto per riempirsi lo stomaco. Aveva la bocca completamente impastata e la lingua indolenzita. Il suo stomaco si ribellò subito al cibo, ma Subaru riuscì a trattenere i conati che gli salivano in gola. Alla fine spinse il piatto lontano da sé. Non aveva mangiato neanche la metà della frittata.

Inghiottì la pillola di antipiretico senza bisogno di acqua. Non ne sentì nemmeno il sapore, malgrado Kamui gli avesse assicurato che era piuttosto amara.

Ci volle quasi mezz’ora prima che il medicinale facesse effetto, lunghissimi minuti duranti i quali Kamui si rimise a leggere la sua lettura interrotta qualche tempo prima.

- Che libro è? – chiese Subaru, finalmente in grado di pensare senza che una fitta di dolore gli attraversasse il cranio. L’altro gli sorrise.

- Come ogni cosa, la prosperità e la miseria non sono che manifestazioni della natura. Il bene e il male invece sono scelte dell'uomo.

Ma stavolta lui era pronto a rispondere.

- Tsunetomo. Stai leggendo Hagakure.

Kamui appariva soddisfatto.

- Bravo. A mente fredda non ragioni male.

- Perché mi hai portato qui?

- Ed eccolo che cambia discorso.

- Vorrei saperlo.

- Avresti dovuto entrarci già da qualche settimana, in questa casa, eppure... Santo cielo, sei Sakurazukamori, ormai, eppure ti comporti ancora come un bambino.

- Mi fa piacere saperlo da uno che ha otto anni meno di me, - ribattè Subaru, piccato.

- Come se l’età fosse importante… Non metterti a discutere con me. Non avrai mai ragione, e lo sai.

Lo sapeva, lo sapeva. Sapeva che il suo era solo un patetico tentativo di salvarsi la faccia. Pietoso.

- Il fatto che tu rimanga in silenzio è già un passo avanti, comunque, - commentò Kamui, chiudendo il libro e frugandosi in tasca, - Ti da fastidio se fumo?

- No.

- Gola infiammata a parte, vuoi favorire?

- Ho smesso, - ripeté lo sciamano automaticamente. L’altro gli scoccò uno sguardo divertito, mentre si accendeva una sigaretta.

- Buffo. Un’altra espiazione. Un’altra offerta sacrificale ad un cadavere.

Subaru non replicò.

- Non ti servirà a nulla.

- Forse, ma per quello che vale…

- Appunto, per quello che vale. Non vale niente. Sprofondare nel vittimismo non è utile a nessuno.

- Non mi sto piangendo addosso ed incolpando gli dèi per la mia sorte.

- Stai tranquillo, stai facendo molto peggio. Stai facendo a rilento ciò che hai fatto anni fa quando il tuo predecessore tentò di ucciderti. Stai sprofondando nell’apatia, e quello che più mi diverte è il fatto che tu stesso non lo vuoi ammettere. Un giorno ti sveglierai e sarai morto, perché non avrai più voglia di respirare.

Espirò lentamente una boccata di fumo. La piccola nube grigia si sfilacciò lentamente, risucchiata da uno spiffero nascosto.

- Quando ti trovavi sotto quel ciliegio, nel giardino della casa d’infanzia di Sakurazuka… Allora non avevi il coraggio di toglierti la vita perché ti chiedevi che cosa avesse spinto il tuo predecessore a risparmiarti. Adesso non vuoi farlo perché non vuoi cancellare l’unica traccia che lui ha lasciato dietro di sé.

Subaru annuì, lentamente. La perspicacia di quel ragazzo era qualcosa di innaturale. Sembrava davvero che sapesse leggere nella mente, come molti dicevano che facesse.

- Il tuo sguardo non è cambiato molto da allora. Hai accettato l’occhio di Sakurazukamori ma ancora non hai accettato chi sei diventato, l’azione di oggi lo dimostra.

- Io non sono cambiato.

- Sì, invece sì.

Se fino a quel momento la voce del Kamui dei Chi no Ryu si era mantenuta piatta, quasi atona, puramente esplicativa, stavolta parve riempirsi di una nota di affettuoso rimprovero.

- La stessa disperazione cieca. La stessa quiete folle. Entrambi stanchi di vivere. Direi che le somiglianze sono diventate parecchie, fra voi.

Altra boccata.

E’ un attore, pensò Subaru. Un attore che sa quando fare le pause giuste, al momento giusto. Che sa quando parlare e stare in silenzio quando serve. Si alzò su un gomito, anche se a fatica.

- Prima, quando ti ho chiesto se lo conoscevi…

- Ti chiederò io una cosa, prima di rispondere: vuoi davvero saperlo?

Alzò gli occhi verso di lui. Fino a quel momento aveva evitato di farlo.

- Ho conosciuto una maschera.

- A volte le maschere sono molto più reali della persona stessa, quando questa è troppo abituata ad indossarle, - commentò Kamui. A Subaru parve di cogliere un’insolita malinconia in quelle parole. Si chiese cosa davvero provasse l’altro a vivere come era solito fare, continuando a cambiare la propria personalità con la stessa velocità con cui si buttava un vestito usato.

- Ho vissuto per un anno con una persona che non è mai esistita.

- Ma molto tempo dopo hai amato l’uomo, non la sua finzione. Ciò non ti basta?

Subaru si lasciò cadere pesantemente sul futon. Rimase a guardare il soffitto, mentre le tempie prendevano dolorosamente a pulsargli, ma con meno forza di prima.

- Dovrebbe farlo?

- Se sei la persona che lui credeva, sì.

- Allora non te lo chiederò ancora.

- Parla un po’ tu, ora.

- Di che cosa?

- Di come vi siete conosciuti. Dell’anno che avete passato. Della scommessa.

- Tu già la conosci. Perché mi chiedi di raccontarti la mia storia?

Kamui, divertito, scosse la testa.

- Va bene, diciamo che conosco un punto di vista della storia. Sono curioso di sapere anche l’altro.

Subaru rispose più accuratamente che poteva, anche se non era molto sicuro di quello che diceva, era una macchina che parlava a ruota libera e basta. Kamui di tanto in tanto lo interrompeva per porgli delle domande, per il resto ascoltava attentamente ed in perfetto silenzio.

Credeva che sarebbe scoppiato a piangere raccontando della morte di Hokuto e di Seishirou, ma si stupì di se stesso quando sentì la sua voce raccontare quasi tranquillamente quegli avvenimenti. Per un attimo si spaventò all’idea di che mostro fosse diventato, una persona che nemmeno sentiva dolore.

Come se gli avesse letto nel pensiero, Kamui lo interruppe.

- L’anima è come una spugna. Una volta che assorbe tutto questo dolore, non ne sopporta altro, e tutto le scivola addosso come l’acqua. Non è vero che non soffri più, sei solamente così saturo di sofferenza che ti pare quasi di non sentirla. Continua.

Alla fine del racconto, Subaru aveva la gola secca. L’altro gli versò una tazza di tè appena tiepida e gliela porse, con un sorriso che stava a significare: Te la sei meritata.

Durante tutto il tempo della storia lo sciamano si era sforzato di guardare l’altro negli occhi, cercando un lampo di follia in quello sguardo così dorato e così inquietante, ma non ne vide nessuno. Il motivo per cui gli aveva posto quelle domande era davvero mera curiosità, non sadismo nel fargli rivivere certi avvenimenti.

- E’ inutile cercarlo, - disse Kamui.

- Cosa?

- Lo sai di che parlo. Di per sé non sono né particolarmente buono né particolarmente crudele. Non sono né un pazzo né un maniaco omicida, al contrario di quanto pensano i tuoi ex compagni. Sono un semplice essere umano. La cosa che ti dovrebbe sconvolgere è di quanto siano crudeli gli esseri umani, quello sì, non di non vedermi diventare folle da un momento all’altro. Quella bambina di oggi dovrebbe avertelo ampiamente dimostrato.

Subaru rimase in silenzio, premendosi le dita contro le palpebre. Vedeva indistinte macchie color sangue davanti agli occhi.

- Che fine ha fatto?

- La bambina o il suo assassino?

Lo sciamano alzò la testa di colpo.

- Per lei, ho fatto in modo che la trovassero e la riportassero a casa.

- E per lui?

- Sai, quella bambina assomigliava molto ad una ragazzina che ho incontrato tempo fa ad Ebisu. All’inizio ho pensato davvero che fosse lei.

Quella piccola premessa fece drizzare i capelli sulla nuca a Subaru, forse perché si immaginava il seguito.

- Pensava di averti ucciso, o almeno così sperava. Dopo aver appiccato l’incendio è riuscito a scappare da una porta di servizio.

- Che ne è stato di lui?

- Ti basti sapere che ha pagato per quello che ha fatto. Non intendo annoiarti con i dettagli.

- Atteggiamento eroico, il tuo, - disse Subaru ironicamente, - Proprio degno del Kamui dei Chi no Ryu. Anzi, fammi indovinare, c’era di mezzo un qualche desiderio?

- Il tuo. Il volersi inconsciamente vendicare di tale abominio.

Lo sciamano era rimasto senza parole. Il pensiero di un attimo… Ecco che cosa aveva sentito ed esaudito l’altro.

- Non siamo eroi, nessuno di noi, né gli antagonisti delle favole, - continuò Kamui, con la voce del padre che rimprovera quasi dolcemente il figlio che non vuole capire, - siamo come tutti. I Chi no Ryu ed i Ten no Ryu sono speciali solo perché sono stati scelti dal fato, checché ne dica l’altro Kamui. Siamo nati per essere quello che siamo ora. I Sigilli, per farsi carico dei peccati degli altri esseri umani ed essere sacrificati come agnelli. Gli Angeli, per impugnare il coltello dalla parte del manico e versare il sangue delle vittime. Niente di più e niente di meno.

- Perché è il nostro destino.

- Esatto.

- Posso chiederti una cosa?

- Puoi.

- Lui voleva che diventassi un Sakurazukamori? Sapeva che cosa mi sarebbe accaduto se avessimo esaudito il suo desiderio?

Stavolta Kamui rimase in silenzio. Congiunse gli indici davanti alle labbra, e parve concentrarsi su qualcosa dentro di sé. Stava riflettendo.

- Questa, - disse alla fine, - era l’unica variabile che non aveva considerato.

Quando richiude lo shoji, lo sciamano si è appena riaddormentato, stordito dalla febbre ancora alta e dalle ultime rivelazioni.

Avrebbe ancora qualcosa da fare, in giro per la città, ma non ha voglia di tornare ad immergersi nella realtà giornaliera di Tokyo. Preferisce stare tranquillo, oggi, e quello è il posto migliore per sentirsi anche un po’ nostalgici.

Si è sempre sentito a suo agio in quella casa, sin dalla prima volta in cui ci è entrato, per un motivo così banale che a volte lo fa sorridere.

Anche agli animali solitari, talvolta, piace tornare coi propri simili, anche se per poco tempo.

L’acquazzone di poco prima è scemato fino a scomparire, lasciando svanire momentaneamente la cappa di inquinamento che avvolge Tokyo, ed il cielo appare quasi limpido e vibrante di umidità.

E’ ormai buio, si è trattenuto davvero a lungo, ma aveva anche lui qualche curiosità da soddisfare. Come ha detto allo sciamano, in fondo è umano anche lui, e non c’è nulla di sbagliato ad ammetterlo.

Dentro la casa, il solito buon odore aleggia nell’aria. Sembra che la casa abbia una propria essenza, che durante gli anni abbia assorbito l’odore del suo padrone e l’abbia fatto suo. In un certo senso lo tranquillizza il sapere che niente è davvero infinito ma che le tracce possono durare a lungo. Questo ne è un esempio perfetto. Anche qualche rimasuglio dell’odore dell’ex sciamano dei Ten no Ryu è rimasto, deve essere stato quando ha attraversato la sala con lui ancora addormentato fra le braccia. Un passaggio di qualche secondo, ma è bastato per lasciare un ricordo.

Allarga appena le narici, per analizzarlo. Quell’odore gli fa venire in mente qualcosa come il talco, un odore dolce ed abbastanza delicato da poter passare discretamente fra le altre essenze.

Per un qualche strano scherzo della sua mente si ritrova a pensare a qualche ora prima, quando ha trovato Subaru Sumeragi sotto la pioggia, che faticava a reggersi in piedi, attaccato saldamente al cadavere della bambina che aveva tirato fuori dall’edificio in fiamme. Non gli ha mentito, prima, quando gli ha detto che il suo sguardo non è cambiato da quell’incontro nella vecchia casa del Sakurazukamori precedente. E’ quello di una persona che sta annegando ed è disposta a morire se nessuno allunga la mano per prendere la sua.

Si massaggia la tempia con la mano libera, mentre con l’altra finisce il suo tè, ormai freddo, prima di lasciare la tazza vuota sul pavimento, dove si è seduto. Sa che non la urterà, ma dopo dovrà rimuoverla comunque. Il Sumeragi potrebbe svegliarsi, decidere di esplorare la casa e romperla inavvertitamente.

Ma sta venendo notte, e lui ha un appuntamento fisso, a quell’ora.

Si dirige, scalzo com’è, nel giardino che comunica con il salotto attraverso un altro pannello in carta di riso che lui sposta quasi con delicatezza, come a non fare rumore.

Pensa ad un giorno di sole e di vento. Pensa alla visuale vertiginosa di un cornicione di un grattacielo. Pensa al gioco quasi puerile che consiste nel rimanere in equilibrio su un piede solo.

- Potresti cadere.

Pensa alla finta preoccupazione di quelle parole, e sorride nel rammentarle.

- Pensi che potrei farmi male?

- E’ un bel salto, da quassù.

Pensa alla mano che, per mera cortesia, Sakurazuka gli aveva porto, per farlo scendere. Pensa a quando gliel’aveva presa, stupendosi del fatto che non fosse insanguinata.

- Non ti ho mai visto da queste parti.

- In effetti non ci sono mai venuto, qui.

- Nuovo terreno di caccia?

- No, piuttosto lo chiamerei…

Si era guardato in giro, come se la risposta fosse lì, negli edifici che li circondavano, e nei rumori, e nel mormorio del vento. Poi, quasi sovrappensiero, aveva annuito.

- Un… capriccio del momento.

- Oh. Sakurazukamori ha dunque qualcosa in comune con i poveri mortali?

- Come il Kamui dei sette Angeli, d’altronde.

Si erano sorrisi, poi Sakurazuka gli aveva offerto una sigaretta. Gliel’aveva accesa, tenendo una mano davanti alla fiamma dell’accendino perché questa non si spegnesse.

- Sai, mi dispiacerà quando morirai, - gli aveva detto poi lui, mentre Sakurazuka si voltava a guardare il paesaggio di una Tokyo inondata dal sole, - Mi dispiacerà considerarti estinto. Mi stavo abituando a mangiare da te.

- Il sentimento è reciproco. Ma almeno avrò la soddisfazione di aver cucinato per un altro me stesso a diciassette anni.

- Soddisfatto?

- Sì, direi proprio di sì.

Si era tolto la Mild Seven dalla bocca e gliel’aveva passata. Sakurazuka l’aveva accettata senza batter ciglio, prima di accostarsela a sua volta alle labbra.

- Io vengo spesso qui.

L’uomo aveva annuito.

- Sì, lo so.

- E lo sai il perché?

Sakurazuka aveva inspirato lentamente il fumo, prima di espirarlo in un soffio che non era riuscito a sentire. La piccola nube grigia si era dispersa subito, mescendosi subito all’aria, come se fosse stata trascinata via da un’onda.

- Perché qui Tokyo si vede benissimo.

- Sì. E noi siamo quassù, a poterla guardare. E’ una sensazione… primordiale.

- Strana definizione.

- Però è la più adatta. Secondo te, quanto possono aver impiegato a costruire questo grattacielo?

- Uhm, non saprei. Tre anni, forse quattro.

- E quanto ci basta per farla crollare? Un battito di ciglia? Un gesto della mano?

- O forse quattro lattine vuote.

Quella non se l’aspettava. Sakurazuka aveva alzato le spalle, di fronte allo sguardo divertito dell’altro.

- Mi trovavo da quelle parti per lavoro.

- O quattro lattine vuote, sì, - aveva ripetuto lui lentamente, come a soppesare l’idea, - Tutto il lavoro di quattro anni, di dieci, di cento… Che crolla per così poco.

- Credo di cominciare a capire. L’idea stessa di distruggere è primordiale.

- Già. E’ un bisogno materiale dell’umanità, quello di distruggere e costruire dalla ceneri. E’ un circolo vizioso che non finisce mai.

- Devo ammettere che non l’avevo mai considerato, questo punto di vista.

- E’ primordiale anche l’idea stessa dell’uomo, così piccolo rispetto a questi giganti di ferro, che però muoiono con la stessa facilità… Non so, pensarlo mi rilassa. Mi ricorda che niente è davvero eterno.

Il silenzio di Sakurazuka era valso come un assenso. Erano rimasti a guardare in silenzio la luce del sole che indorava i vetri delle finestre, mentre il rumore del vento copriva quello del traffico cittadino.

- Sai cos’altro mi dispiace? Il fatto di non poterti dare io stesso il colpo di grazia.

Aveva sentito che l’uomo si era girato a guardarlo.

- Uno come te si merita di meglio, Seishirou.

Era la prima volta che lo chiamava di nome, ma l’assassino non ci badò.

- Se tu volessi darmi il colpo di grazia, qui ed ora, temo che non potrei impedirtelo.

- Perspicace.

- Non credo che mi importi più di tanto, in questo momento, dell’essere perspicace o meno.

- E di cosa ti importa, allora, in questo momento?

Il viso di Sakurazuka era freddo, inespressivo come avrebbe potuto esserlo una figura dipinta su un muro. Aveva avuto un accenno di reazione, però, quando gli aveva sfilato gli occhiali a specchio e lo aveva guardato dritto in faccia.

- Di niente. Come sempre, del resto. Posso riavere i miei occhiali?

L’uomo si era sporto verso di lui con un sorriso e si era ripreso ciò che gli apparteneva. Lui l’aveva lasciato fare, aprendo leggermente le dita per facilitargli il compito. L’assassino se li era rimessi in tasca, ma non aveva minimamente accennato a spostarsi. Anzi, gli aveva battuto leggermente le dita sotto il mento, come a spingerlo ad alzare di più la testa.

- Sei davvero un bel bugiardo, Sakurazuka, - gli aveva sussurrato poi lui, ad un centimetro dalla faccia, - Non è vero che non ti importa di niente.

- Hai ragione, - ammise l’altro dopo qualche attimo di riflessione, accostando il viso al suo.

Malgrado la tentazione di chiuderli, lui aveva continuato a tenere gli occhi fissi su quelli spaiati dell’altro, ricambiando lo sguardo. Aveva avuto la sensazione che qualcosa, - il suo stomaco, - si fosse contratto per poi gonfiarsi quasi piacevolmente. Aveva subito pensato ad un episodio di quando era bambino, quando aveva inciso la corteccia di un albero, un ciliegio, con la punta di un coltellino, per un motivo che non rammentava. Una goccia rosso scuro, quasi un piccolo rubino liquido, era uscita da quella incisione e lui, spaventato, aveva fatto un balzo indietro. Aveva guardato quella strana linfa rossa scendere lungo il tronco dell’albero, combattuto fra il desiderio di lasciarla sprofondare verso le radici o fermarla prima, toccarla, sapere che sapore aveva.

Alla fine, la goccia era caduta a terra ed il terreno l’aveva assorbita. Aveva lasciato dietro di sé solo una vaga traccia purpurea.

Aveva sentito, dentro di sé, che c’era una strana concomitanza fra quell’episodio ed il suo attuale presente. Ed aveva sentito che si sarebbe comportato esattamente come allora.

- Se fosse davvero il tuo desiderio, - aveva detto in un soffio, le labbra ancora sulle sue, - Non esiterei a farlo.

- Ma non lo è, - aveva completato l’uomo, allontanandosi leggermente da lui, tenendogli comunque una mano appoggiata al mento.

- Chi deve ucciderti non sono io.

Sakurazuka aveva finito la sua sigaretta – fino a quel momento tenuta stretta fra le dita della mano libera – con un’ultima boccata rilassata e l’aveva lasciata cadere, prima di schiacciarla con la scarpa.

- E’ un bel desiderio, comunque.

- Non è un desiderio. E’ una decisione.

Era passato fra loro l’ultimo soffio di un vento morente, mentre l’assassino arretrava di qualche passo, subito dopo aver risposto.

- E’ diverso.

Si era girato a guardare, per l’ultima volta di quella giornata, la vista della città che si avviava, trionfante e maledetta, al tramonto del sole. Sakurazuka non c’era più, quando era tornato a voltarsi.

Il vento si era calmato.

La prima volta che si era alzato dal futon, Subaru aveva avuto un violento giramento di testa che l’aveva quasi fatto cadere in terra ed aveva dovuto appoggiarsi alla parete per non svenire e riprendere un po’ di fiato.

Di Kamui non c’era traccia, nel corridoio. Lo sciamano decise di darsi all’esplorazione della casa, finché si sentiva abbastanza in forma da rimanere in piedi senza avere la nausea e finché i lividi gli davano tregua.

All’inizio non trovò molto, con sua grande delusione. In quella parte del corridoio oltre alla sua camera c’erano altre tre stanze, di cui una era un bagno tenuto in ordine maniacale, malgrado i pochi oggetti da toletta presenti non richiedessero una disposizione particolare, una seconda camera da letto, forse per gli ospiti, – ma chi mai poteva venire a fargli visita? – e quello che sembrava uno studio. Subaru si trattenne lì molto più a lungo che in altre stanze, per ovvie ragioni.

Un lungo tavolo di mogano era disposto adiacente alla parete, e sopra vi erano quelli che sembravano quaderni impilati uno sopra l’altro. Ne aprì uno a caso, e riconobbe subito la calligrafia nitida di Seishirou. Erano passati nove anni dall’ultima volta che aveva visto un documento scritto da lui, ma a quanto pare quel tempo non gli era bastato per fargliela dimenticare.

Erano conti, per lo più, accompagnati dalla relativa data. A volte c’erano scritti anche dei nomi, ma erano rari. Dovevano trattarsi dei pagamenti ricevuti per i suoi servigi da parte del governo giapponese, visto che qualche cognome gli era familiare.

Gli altri erano più o meno simili, e non sprecò tempo a guardarli tutti.

Rimettendoli a posto, vide la sorpresa.

Doveva essere rimasta infilata in uno dei quaderni, perché prima non c’era, ma sul pavimento ora c’era una fotografia che riconosceva piuttosto bene, perché si trovava anche a casa sua, anche se incorniciata e messa vicino al telefono.

L’istantanea rappresentava lui ed Hokuto a sedici anni, con l’aggiunta di Seishirou, ancora in veste del veterinario venticinquenne che lo accompagnava al lavoro, scherzava con Hokuto e preparava con lei il suo “prossimo” matrimonio.

Era leggermente diversa da quella che si trovava da lui, questa sembrava più una prova che una fotografia vera e propria: Hokuto stava facendo le boccacce al teleobbiettivo, mentre lui, imbarazzato, cercava di volgere lo sguardo altrove per non essere inquadrato. Seishirou li guardava ridendo, con una mano sulla spalla di entrambi, e forse stava tentando di convincerli a starsene buoni e a fare quella foto, una buona volta.

Subaru non rammentava quel giorno, ma cercava di ricostruirlo nella sua mente.

“Ma siamo sicuri che è messa bene, quella macchinetta? Dai, Sei-chan, vai a controllare!”

“Certo che è messa bene, me ne sono occupato di persona!”

“Allora sono sicura che è messa male, tu per la tecnologia sei negato forte!”

“Spiacente, ma sono sicuro sicuro che è a posto”

“Ed io sono sicura sicura del contra… Subaru, CHE STAI FACENDO? E’ inutile che tenti di mimetizzarti con lo sfondo, quindi torna subito qui!”

“Forse Subaru-kun sarebbe anche disposto a farsi fotografare, Hokuto-chan, se la smettessi di fare certe boccacce alla macchina fotografica…”

“E va bene, per adesso faccio la brava, ma voi due vedete di non fare cose strane, lì dietro! Sei-chan, cos’è quel sorriso mefistofelico?”

“Sono felice. Non si vede forse?”

- Come è potuto accadere? – chiese Subaru in un mormorio, - Come?

Sorrise amaramente pensando a quegli anni, a quel Subaru così diverso, intimamente convinto di essere felice, con un futuro luminoso accanto alle due persone che più amava. A quel Subaru così ingenuo, se gli fosse capitato di incontrarlo, avrebbe semplicemente appoggiato la mano sulla spalla, gli avrebbe mostrato il mondo e gli avrebbe detto: “No, Subaru-kun, no. Questa è la vera realtà, non quella che pensi sia davanti ai tuoi occhi, ti prego, torna indietro prima di farti male ancora una volta. Smetti di vivere nell’utopia e torna qui, con noi. Apri gli occhi e guarda tua sorella, guarda il tuo amore, e dimmi se davvero pensi che tutto rimarrà così, per sempre… No, tutto è effimero, tutto dura lo stesso tempo di un respiro…”

Girò la foto, per vedere se c’era una data o qualcosa che potesse ricollegarlo a qualche evento passato, ma di certo non si aspettava quello che trovò.

Come’è stato possibile, Subaru-kun?

Per un attimo credette, anzi sperò, di immaginarsi quella scritta sul retro dell’istantanea, ma non era così. Chi aveva scritto quella frase era stato Seishirou, che si chiedeva la stessa cosa che tormentava anche lui.

Com’è stato possibile? Solo tu potevi rispondermi, tu che nemmeno sapevi, Seishirou-san!

Si appoggiò la foto sul petto e lì la tenne premuta, come se il battito accelerato del suo cuore potesse far rivivere di colpo quelle tre figure lì ritratte e bloccate. Pensò che in fondo era quasi confortante, sapere che non era l’unico ad ignorare un mistero profondo come poteva esserlo il suo. Il loro, si corresse, il loro mistero.

Mise l’istantanea sul tavolo. Era sicuro che sarebbe tornato a vederla, prima o poi.

Decise di dedicarsi all’altra ala della casa, dove si diresse deciso anche se il suo passo rimaneva comunque traballante per via della febbre, non del tutto svanita.

Lo spiazzo si apriva sulla cucina e, in contemporanea, sul soggiorno. Lasciando perdere per un attimo l’angolo cottura, Subaru concentrò la sua attenzione sul salotto.

Un tavolo rotondo e lucido con tre sedie vicino. Una poltrona color rosso vino. Una piccola collezione di cd, assieme ad una radio, sopra una piccola libreria, fornitissima di libri di vario genere che lui si fermò ad osservare con attenzione. Gli sfuggì una smorfia quando vide le opere di Confucio e di Tsunetomo ordinatamente disposti in verticale, con gli altri volumi.

Non c’erano né televisioni né telefoni, ma Subaru non si aspettava di trovarne. Seishirou aveva un odio risaputo verso la tecnologia, ed almeno in quello si somigliavano.

Dietro la poltrona, uno shoji dava su uno spazio aperto, probabilmente un giardino. Si toccò la fronte, come ad accertarsi di poter uscire anche se febbricitante, ed aprì il pannello.

La prima cosa che vide fu il ciliegio. Anche se ormai era scesa la notte e non avrebbe dovuto esserci alcuna luce fuorché quella dei lampioni, la pianta pareva circondata da un proprio alone di luminescenza che faceva splendere i petali chiari dei fiori in boccio. Come ipnotizzato, Subaru si avvicinò al Sakura, alzando gli occhi verso i rami. Una parte di sé sperò di vedere una figura scura seduta su uno di essi, un diciottenne in divisa scolastica che tiene in braccio una bambina dal petto squarciato…

Ovviamente non c’era nessuno, e lo sciamano abbassò lo sguardo, sentendosi estremamente stupido. Se l’avesse visto, Seishirou avrebbe sorriso, scosso appena la testa in segno di disapprovazione e gli avrebbe dato un buffetto sulla guancia, come ad un bambino.

Rivolse la sua attenzione sulla casa, silenziosa dietro di lui. Sussultò, quando vide Kamui seduto sul tetto, anche se riusciva a distinguerne solo la sagoma. Avvicinandosi, si accorse che il suo giovanissimo capo non guardava lui, ma il cielo, tenendo le gambe rannicchiate contro il petto e lo sguardo rivolto sopra di sé. Non diede segno di averlo visto o sentito.

- Kamui? – chiese all’altro, leggermente titubante. Quello non rispose.

- Kamui? – ripeté Subaru, stavolta più deciso.

- Il cielo…

- Cosa?

- Stavo guardando il cielo. Da quando ti sei addormentato. Da allora il blu è passato attraverso un’infinità di diverse gradazioni, prima di arrivare a questo colore così scuro. Questa è l’ora della notte in cui la notte somiglia all’inchiostro, ma non durerà a lungo. Poi il nero inizierà a trascolorare, diventerà più chiaro, e sembrerà che la luna sia più luminosa. Le stelle inizieranno a tremolare e poi si fonderanno col colore del cielo, come delle candele che qualcuno sta spegnendo con un soffio. Per un attimo, mentre le guardavo, mi è sembrato quasi di salire verso di loro. Mi pareva di non avere più un corpo, ma che solo la mia anima fosse lì, a far compagnia alle stelle. Mi è sembrato di esplodere in mille pezzi, e diventare un tutt’uno con il cielo, e ricoprivo la terra come un’onda. Per un attimo, ho sentito la foga di tutte le piccole creature sotto di me che si sforzavano di sopravvivere in questo mondo, con tutte le loro forze. Forse è per quelle creature che i Ten no Ryu combattono, e sono quelle che sognano di proteggere.

Kamui tacque per qualche secondo. Subaru non si azzardò a parlare, ed attese che l’altro finisse. La sua gola era stranamente contratta in una morsa d’acciaio che non voleva allentarsi.

- Ma credo che i tuoi ex compagni capiranno presto quanto è grande il peso della colpa dei sognatori… Tu già lo conosci, e sai quanto sia gravoso.

Adesso lo guardava negli occhi, con un’espressione seria. Non sorrideva più.

- Credo che tu ti stia sbagliando sul mio conto. Mi stai sopravvalutando.

- No. Serve forza per accettare quello che è stato ed andare avanti, e tu hai accettato l’occhio di Sakurazuka, dopotutto. Sai già che cosa ti occorre, devi solo imboccare la strada che vedi di fronte a te.

Kamui scese con un balzo dalla sua postazione, per poi passargli a fianco e proseguire come se non lo vedesse. Subaru chiuse gli occhi ed inspirò a fondo, prima di aprire bocca.

Sapeva che cosa Kamui voleva che gli chiedesse.

- Tu puoi insegnarmi?

Il capo dei Chi no Ryu si fermò lì dov’era, senza avanzare ancora, ma non si voltò a fissarlo.

- Posso insegnarti come ricominciare. Ma il passo decisivo devi compierlo tu.

Il cuore gli batteva così forte da fargli male, come se volesse uscirgli dal petto. Vivere, pensò, io voglio vivere. Per Hokuto, per Seishirou. Sarò chiunque vogliono che io sia. Sarò Sakurazukamori, sarò Chi no Ryu. Voglio continuare, ma non voglio smettere di soffrire per loro due. Non li voglio dimenticare.

Kamui aveva rispettato il suo silenzio fino a quel momento, ma Subaru sapeva che la sua domanda non poteva aspettare oltre. Aveva già aspettato abbastanza.

- Subaru-kun.

Il solo sentirsi chiamato per nome gli fece venire le lacrime agli occhi. In quel tono, in quella affettuosa accondiscendenza, c’era qualcosa di Seishirou. E lui voleva che fosse Kamui a trascinarlo fuori da dove stava sprofondando. Forse perché era la persona al mondo che più glielo ricordava. Non era qualcosa di fisico, non era la sua immagine sovrapposta. Era qualcosa che l’altro aveva nell’anima, qualcosa di cui lui era a conoscenza ma a cui non sapeva dare un nome.

A quel punto, Kamui fece qualcosa che non si aspettava. Gli tese la mano.

Subaru ripensò a quando, in quella stessa mano, aveva visto la piccola urna di vetro che conteneva l’occhio di Seishirou. Quando lui aveva allungato la mano e l’aveva presa. Quando, ore dopo, si era trovato davanti allo specchio, l’urna posata vicino sul ripiano di marmo del lavandino, ed aveva usato le dita per separare le palpebre dell’occhio destro.

- Dimmi che cosa desideri, Subaru-kun, - ripeté Kamui.

Pochi passi li separavano. Subaru li compì in pochi ma infiniti attimi. La mano non gli tremava, mentre la allungava per prendere quella dell’altro. Quella stretta leggera ma calda gli fu di uno strano conforto.

- Aiutami, - gli mormorò. Kamui fece un impercettibile segno col capo di assenso, prima di ritornare verso casa.

Nei giorni, nelle settimane che sono seguite a quella decisione ci sono stati momenti duri per Subaru Sumeragi. Momenti di sconforto e depressione totale, momenti di chiusura netta col mondo e momenti che ha passato rannicchiato sotto lo scroscio di una doccia calda a guardare il vuoto.

Ma sono stati relativamente pochi, questi episodi.

All’inizio, quasi tutte le mattine, lui è venuto a bussare alla porta della casa del Sakurazukamori, dove lo sciamano si è definitivamente trasferito, per poi portarlo con sé a Tokyo, in giro per la città, a volte fino a pomeriggio inoltrato, a volte per poche ore.

Lui ha parlato molto, durante quelle mattinate, mentre lo sciamano ascoltava con lo sguardo perso. Però lo ascoltava davvero, e rifletteva.

Se ne rende conto, di quanto sia difficile la sua scelta. Tornare a vivere nel mondo reale è molto più difficoltoso che viaggiare nel regno meraviglioso del proprio inconscio e lì rimanere per sempre.

All’inizio lui lo ha accompagnato, in quella piccola rinascita personale, poi, col passare dei giorni, si è poco a poco staccato dallo sciamano, esattamente come la madre fa con un bambino piccolo per farlo abituare alla sua assenza. Anche se non ha mai trattenuto la soddisfazione nel vedere Subaru attenderlo sulla porta quasi con ansia, come se avesse avuto paura che l’altro si fosse dimenticato di lui, l’ha fatto. Finchè non è stato lo sciamano stesso a cercarlo.

Quando lo vedeva arrivare e raggiungerlo, lui lasciava perdere quello che stava facendo e lo portava in giro da qualche parte. Ad entrambi è sempre piaciuto molto il parco di Ueno, e dopo essere passati per una gelateria o per una creperie, - in questo l’onmouji è identico al suo predecessore, - si sedevano su una panchina a gustarsi il loro cono e a guardare gli alberi in fiore.

Anche se avrebbe potuto farlo, - sarebbe stato un suo diritto, - non ha mai voluto renderlo un Chi no Ryu vero e proprio, non l’ha mai obbligato a scontrarsi i suoi vecchi compagni di schieramento, e la cosa non è cambiata malgrado il passaggio dalla loro parte di una seconda Ten no Ryu, - quando gli aveva chiesto se voleva parlarle, Subaru ha scosso la testa, rifiutandosi anche solo di vederla, - non l’ha mai costretto a prendere decisioni che non voleva. Non l’ha mai costretto ad uccidere.

Il Sakura, nonostante questo, ha avuto le sue vittime sacrificali ogni giorno, ma a macchiarsi i palmi di amaranto non sono stati i palmi del Sakurazukamori. Ogni giorno, ogni notte, qualcun altro ha visitato il ciliegio senza esserne lo schiavo.

La cosa è rischiosa, ma non ha potuto fare altrimenti. Era il desiderio di Sakurazuka, preservare l’animo candido della sua nemesi, anima che nemmeno il suo assassinio è riuscita a macchiare, ed obbligare il nuovo Sakurazukamori ad uccidere ancora è una cosa che lui non può permettersi di fare.

Andrebbe contro ad un desiderio. Da parte sua, la silenziosa promessa fatta a Sakurazuka l’ha mantenuta.

Anche Subaru ha tenuto fede alla sua. L’ha seguito, l’ha ascoltato, ha appreso.

Si è mosso, il bambino, ha ricominciato a vivere, ha cominciato a camminare con lui, piano ma tenacemente, si è disperato in silenzio ma non si è abbandonato alla sua disperazione.

Oggi è giunta l’ora che cominci a reggersi con le sue gambe.

Ha capito che è arrivato il momento quando l’ha visto la mattina precedente, - mentre Subaru era convinto di essere solo, - tirare fuori da un armadio una giacca di Sakurazuka, osservarla per un po’ e poi provare ad infilarsela. Gli è un po’ troppo larga di spalle, forse è più grande di un paio di taglie, ma finalmente ha trovato il coraggio di aprire quell’armadio.

L’ha visto, prima lentamente, poi con più sicurezza, stringersi fra le sue stesse braccia, toccando le maniche scure della giacca ed affondare le dita nella stoffa, prima di piegare la testa sul petto, come se si fosse addormentato.

E’ entrato dopo aver lasciato passare un minuto. Lo sciamano ha alzato gli occhi ed ha incontrato il suo sguardo nello specchio.

- Sei già qui, - ha mormorato, prima di cominciare a sfilarsi la giacca. Lui gli ha fermato la mano a metà strada.

- Tienila. Ti sta bene.

Questo ieri. Ed oggi è pronto.

Lo sente anche Subaru che c’è qualcosa di diverso in quella mattina, lo vede dal suo sguardo.

E’ una giornata invernale, la neve è caduta da poco, lui l’ha sentita posarsi sul terreno per tutta la notte, ed il giardino della casa è completamente ricoperto di una soffice coltre bianca. Anche i rami del ciliegio sono intessuti di ricami di gelo.

- Mostrami dov’è.

Subaru Sumeragi sa da tempo che c’è ancora qualcosa da rivelare, qualcosa che lui non poteva scoprire prima perché ancora non era pronto a farlo.

E lui, il Kamui dei Chi no Ryu, lo prende per mano, lo conduce lì dove hanno parlato quella sera di qualche tempo prima. Quando gliela lascia, un tremito attraversa il corpo e l’anima del Sakurazukamori, perché ha capito.

- Qui, - dice lui, indicandogli le radici innevate del Sakura in fiore.

Si allontana, gli volge la schiena e se ne va, socchiude lo shoji dietro di sé e rimane a guardare. Subaru rimane in piedi davanti al ciliegio, le mani serrate e le nocche sbiancate per la forza di quel gesto, e poi l’urlo.

Un urlo di liberazione, di rabbia verso il destino, di felicità trattenuta.

Delle lacrime silenziose attraversano veloci le guance dello sciamano, mentre cade in ginocchio, e Kamui sa che saranno le ultime che verserà. Le ultime lacrime sulla tomba del suo amore perduto, lì dove lui l’ha seppellito dopo aver recuperato il suo cadavere dal Raimbow Bridge.

Subaru si copre il cuore con le mani, come se questo gli facesse male da morire, il suo corpo è ancora attraversato dai singhiozzi, ma Kamui non lo guarda più. Guarda l’ombra scura dietro la sagoma rannicchiata dello sciamano, e la vede girare la testa nella sua direzione.

Kamui la vede sorridergli, e sa che lo può interpretare come un ringraziamento. Lui fa in risposta un gesto con la mano, come ad esortarlo a sbrigarsi.

- E’ pronto, ora, - gli mormora, muovendo appena le labbra, ma sa che l’ombra lo sente.

Mentre Seishirou Sakurazuka avanza verso il suo successore con la stessa calma di chi sa di avere un’eternità a sua disposizione, Kamui chiude lo shoji silenziosamente, prima di avviarsi verso l’uscita.

Non c’è più bisogno di lui, ora.

  
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