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Autore: lievebrezza    26/04/2013    22 recensioni
Kurt e Sebastian, a dispetto di tutto.
Se New York non è abbastanza grande per contenerli, ci riuscirà un appartamento in centro Manhattan?
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Isabelle Wright, Jessie St. James, Kurt Hummel, Rachel Berry, Sebastian Smythe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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"Two spoons of glitter - Two spoons of sugar"


 

Cap. 1

"Parigi - New York Solo Andata"

 

 

Per Kurt fu difficile lasciarsi Parigi alle spalle.

E non solo perché aveva trascorso sei mesi splendidi, tra workshop, show e atelier di alta moda, bevendo vino indimenticabile e flirtando con ragazzi dallo charme esotico e irresistibile.

Fu difficile anche nel senso più pratico e letterale del termine.

Nel corso delle settimane aveva - ovviamente - animato le sue giornate con sessioni di shopping instancabile, arricchendo a dismisura la sua collezione di pezzi unici. Pezzi che ora stavano viaggiando sopra l’oceano, sballottati qua e là dentro alla stiva di un aereo, pigiati dentro quattro enormi scatoloni. Per pagare l’astronomico conto della spedizione era stato costretto a rinunciare a un paio di occhiali da sole di Chanel,  a compilare un mucchio di scartoffie e supplicare un recalcitrante corriere affinché salisse fino al quarto piano del suo palazzo per il ritiro. Con un sorriso tirato, Kurt aveva stoicamente sopportato tutte le sue maledizioni in francese, che si facevano sempre più aspre mano a mano che lui e il fattorino si inerpicavano giù per la ripida scaletta.

Ora non gli era rimasto che pregare e sperare che il suo prezioso carico giungesse a destinazione sano e salvo. E che Rachel e Jesse non gli rubassero qualche sciarpa, dopo averci ficcanasato senza ritegno.

Nonostante ormai fosse evidentemente troppo tardi per trovare una valida alternativa, mentre lasciava le chiavi del suo monolocale alla burbera portinaia dell’ingresso, si era chiesto per l’ennesima volta se spedire tutto a casa di quei due fosse stata davvero una buona idea.

Poi, con quella triste preoccupazione nel cuore aveva affrontato lo sciopero simultaneo di taxi, autobus e metropolitana: il suo viaggio verso l’aeroporto si era trasformato in una vera e propria odissea, senza lasciare spazio per altri pensieri, se non quello di arrivare vivo ai gate.

All’ultimo minuto, quando ormai era evidente che non avrebbe trovato altra soluzione, aveva convinto un assai riluttante collega a dargli un passaggio. Caricati quindi i bagagli su una Peugeot che probabilmente era già decrepita negli anni Novanta, erano sfrecciati verso l’aeroporto Charles de Gaulle, con una velocità massima di crociera di 60 km/h.

Kurt aveva rischiato di sfiorare la follia durante il tragitto, intontito dalla cantilena di imprecazioni del suo gallico amico e dal terrore di perdere il volo. Raggiunta la tanto ambita meta, si era lanciato fuori dall’auto, riducendo al minimo i saluti di cortesia ed era corso attraverso il terminal trascinando due enormi valigie.

Quando ormai sembrava che il peggio fosse passato, la tracolla della sua borsa si era rotta al momento meno opportuno, facendo rovesciare tutti i suoi averi sul pavimento e costringendolo a inginocchiarsi a terra in mezzo alla folla per recuperarli.

A quel punto, era ormai sull’orlo di furibondo pianto isterico, senza sapere che la sua epopea non era ancora giunta al termine. Infatti, imbarcati i bagagli e superati i controlli di sicurezza, accecato dallo stress e dalla fame, si era concesso un cappuccino da Starbuck’s; passeggiando per l’area delle partenze alla ricerca di un posto dove crollare miseramente, non era riuscito a gustarsi nemmeno il primo sorso, quando uno sconosciuto l’aveva urtato malamente, lasciandolo zuppo e affranto.

Sudato per l’agitazione, con la camicia completamente macchiata di caffè, disgustato per aver toccato il lurido pavimento dell’aeroporto e aver comunque smarrito in mezzo alla calca una chiavetta USB, Kurt toccò il cielo con un dito, quando finalmente si lasciò cadere sul sedile della seconda classe.

E questo nonostante fosse pigiato tra un corpulento uomo apparentemente allergico al sapone e un bambino che non faceva altro che piangere disperato. Si rassegnò all’idea di lavorare, abbandonando il bramato pisolino che tanto avrebbe meritato.

Estrasse il lettore mp3 dalla tracolla e s’immerse nella musica, cercando tra i fascicoli che aveva con sé quello su cui doveva ancora apportare delle modifiche.

“Mi scusi… signor Hummel?”

La voce gentile di una delle hostess lo raggiunse attraverso le cuffie; infastidito dall’interruzione, alzò guardingo gli occhi dalle carte, guardandola di sbieco.

“Sì?” brontolò.

 La sua risposta non fu affatto gentile, ma in verità non era nemmeno sua intenzione dare quell’impressione. Tolse l’auricolare tenendolo stretto tra le dita, sospeso a pochi centimetri dal suo orecchio: non aveva idea di che diavolo avesse bisogno quella donna, ma sperava davvero che la cosa si risolvesse in pochi minuti.

Secondi, se non era chiedere troppo.

La donna si chinò verso di lui, per poi sussurrare in tono complice: “Volevo informarla che abbiamo avuto un piccolo problema di overbooking, ma che per ovviare al disagio saremmo più che felici di offrirle un upgrade per la business class.”

Kurt sollevò un sopracciglio, scoccandole un’occhiata incredula e diffidente.

“Un upgrade? Credevo che queste cose accadessero solo nei film. E al gate d’imbarco, soprattutto.” Ribatté acido, nonostante la sua mente stesse già dolcemente accarezzando la prospettiva di trascorrere il viaggio in una poltrona più comoda. La hostess non si lasciò intimidire dal suo tono e si strinse nelle spalle, limitandosi ad attendere che Kurt prendesse una decisione. Finse di riflettere, puntando gli occhi sul cartellino del suo nome; si chiamava Caroline.

Al diavolo.

Nel caso si fosse rivelata una presa in giro, sarebbe stato solo il coronamento di una giornata pessima; quindi afferrò la sua borsa, ficcò l’Ipod in tasca e si alzò di scatto, prima che qualcuno approfittasse della sua incertezza per soffiargli quel piccolo angolo di paradiso.

“Andiamo”.

La business class si rivelò, prevedibilmente, una sorta di universo parallelo: lussuose poltrone imbottite facevano silenziosa sfoggia di sé, tra le luci soffuse e accoglienti della cabina. Alcune persone erano ancora in piedi nel corridoio, ma la maggior parte dei presenti era già comodamente accoccolato, intento a rimboccarsi le morbide coperte che il personale stava gentilmente distribuendo.

Nonostante avesse in progetto di lavorare durante il volo, Kurt ne bramò immediatamente una, accarezzando l’idea di sprofondare a sua volta in quei soffici gusci di pile e felicità.

Perfino le hostess sembravano più raffinate, nonostante le divise fossero le medesime.

Non avrebbe mai più volato in classe standard, né economica, decise. Piuttosto avrebbe viaggiato meno, ma avrebbe viaggiato così. Da subito, sentì di appartenere a quel luogo: l’atmosfera gli era affine, con quel delicato profumo di vaniglia, le superfici levigate e, soprattutto, il religioso silenzio.

La voce di Caroline lo strappò da quell’attimo di contemplazione.

“14B. Signor Hummel, da questa parte.” Con un sorriso incerto, la ragazza gli indicò uno dei sedili. Kurt si chiese a cosa fosse dovuta quell’improvvisa insicurezza, ma accantonò l’ipotesi di dar voce alla sua curiosità quando vide che il sedile era dal lato del finestrino. Trattenendosi a stento dalla tentazione di saltellare scompostamente, si limitò riporre il suo borsone nella cappelliera e a sedersi.

A quel punto, notò che sul sedile accanto al suo erano appoggiati un lettore di ebook e una mascherina per gli occhi. Sospirò e si augurò che il compagno di viaggio fosse una persona tranquilla, così come le sue proprietà sembravano lasciar intuire; se fosse stato costretto a trascorrere le successive sette ore in compagnia di uomo d’affari sconvolto dal jet-lag e incollato al telefono, quel regalo inaspettato rischiava di trasformarsi in un incubo.

Accese il tablet e giocherellò con qualche applicazione, aspettando che tutti finissero di sistemarsi e venisse impartito l’ordine di spegnere tutti i dispositivi; controllò rapidamente alcune fotografie, valutando quali avrebbe potuto pubblicare sul suo tumblr una volta atterrato. Con la coda dell’occhio vide Caroline parlare con uno dei passeggeri; Kurt non ci avrebbe fatto caso, ma le guance arrossate della hostess lo invitarono a prestare più attenzione. Dato che l’uomo gli dava le spalle non riuscì a vedere con che aspetto avesse, ma ebbe modo di apprezzarne la figura longilinea e il portamento, evidentemente sicuro di sé e spavaldo. Probabilmente la ragazza aveva una cotta per lui, chissà.

La vide ridacchiare maliziosa e annuire con aria complice; Kurt interpretò quei gesti come conferma della sua teoria, quindi tornò alla cernita degli scatti. Si distrasse nuovamente quando percepì un movimento accanto a sé: si voltò per salutare con un sorriso il suo compagno di poltrona, ma quel cortese benvenuto gli si ghiacciò sul viso, non appena alzò lo sguardo verso il nuovo arrivato.

Invecchiato di qualche anno, ma con lo stesso sorrisetto beffardo di sempre, Sebastian Smythe era in piedi in corridoio, con una giacca maldestramente ripiegata sul braccio e un’espressione di sincera sorpresa.

“Che io sia dannato, se questo che ho davanti non è Kurt Hummel.” disse poi sorridendo.

 

***

 

Sebastian era una di quelle persone che amano viaggiare.

Non tanto per le destinazioni, quanto piuttosto il tragitto per raggiungerle. Amava lo stato di sospensione in cui si trovano i viaggiatori.

Fin da piccolo, aveva seguito senza indugi le peregrinazioni di suo padre, lasciandosi trascinare da un angolo all’altro degli Stati Uniti: cambiare scuola, salutare i suoi amici e incontrarne di nuovi non era mai stato un problema. Accompagnava spesso sua madre in Europa, trascorrendo ogni volta qualche settimana perso con lei in folli scampagnate oltreoceano, alla ricerca di formaggi da assaggiare e specialità gastronomiche da scoprire.

Semplicemente, Sebastian apprezzava il caos degli aeroporti, il brivido dell’imprevisto, la casualità degli incontri; perso nella folla, con la sua valigia stretta tra le mani, si sentiva più vivo che mai.

Come alcuni amici gli fecero notare in più di un’occasione, questa sua peculiare passione era probabilmente dovuta al comfort che gli offrivano i viaggi in prima classe: non era mai salito su autobus affollati e maleodoranti, non aveva mai trascorso ore pigiato su un sedile malamente imbottito, non aveva mai consumato un pasto da quattro soldi. A quelle critiche, si limitava a fare spallucce, certo che anche un volo low cost gli avrebbe dato le medesime sensazioni; non che fosse intenzionato a provarlo davvero, ovviamente.

In tutta la sua vita, aveva odiato viaggiare solo in due occasioni.

Gli era accaduto per la prima volta durante un volo verso Parigi, quando i suoi genitori, troppo impegnati per assecondare i suoi capricci di sedicenne ribelle e terribilmente viziato, avevano deciso di caricarlo su un aereo e affidarlo alle cure della disincantata nonna materna, Cristine. Ancora oggi, a distanza di sette anni anni, Sebastian ricordava con chiarezza quella partenza intrisa di amarezza e rancore, dovuti alla drastica decisione presa dalla sua famiglia nei suoi confronti; non era un ragazzo più turbolento di tanti altri, ma a differenza della maggior parte degli adolescenti, le sue malefatte erano di intralcio a suo padre e alla sua sfolgorante carriera.

Dopo pochi grigi giorni di malumore e sospetto nei confronti di Cristine e della variopinta corte di personaggi che animava il suo spazioso appartamento, situato all’ultimo piano di un palazzo d’epoca poco distante dai Jardin du Luxembourg, Sebastian capì di aver trovato il suo posto nel mondo.

Senza sua madre al fianco, Parigi si era rivelata inaspettatamente pregna di stimoli: complice una nonna condiscendente e terribilmente simile a lui, aveva gustato ogni giorno francese con la frenetica ingordigia del dilettante. I ricordi di quel periodo erano meravigliosamente confusi nella sua memoria, un torbido mix di vino rosso, ragazzi affascinati dal suo accento e piccoli caffè di periferia. Sebastian non avrebbe mai scordato il sapore aspro del suo primo bicchiere di merlot, assaporato direttamente dalle labbra di un giovane studente di filosofia. O le corse a perdifiato lungo la Senna, i giochi di seduzione solo apparentemente innocenti consumati all’ombra dei tigli, il profumo umido e croccante di baguette appena sfornate nella bottega vicino al collegio.

E Andrè. Come dimenticarsi di Andrè, il giovane cuoco di Cristine, dalle mani calde e sicure, dal sorriso timido e dell’inattesa audacia? Se chiudeva gli occhi, poteva sentire il suono appiccicoso della sua marmellata di more che ribolliva sui fornelli mentre facevano l’amore a pochi passi di distanza, con le lingue macchiate di succo di frutta zuccherino.

Fu proprio il sopraggiungere oltreoceano dello scandalo circa il suo menage con lo chef che interruppe quel pacifico idillio. Sebastian si ritrovò di nuovo su una poltrona di prima classe, con le hostess che lo coccolavano nella speranza di far tornare il sorriso su quel bel viso spruzzato di lentiggini. Dopo questi mesi di spensierata follia, le pareti della Dalton furono più di una prigione. Furono una condanna.

Ogni viaggio, anche il più breve, anche il più improvvisato, era un’occasione che non si lasciava mai sfuggire; essere in movimento gli impediva di sentirsi in trappola. Alla prima occasione, Sebastian saliva su un aereo e accompagnava suo madre ovunque: i vigneti della California, il Messico con le sue atmosfere speziate, il Brasile afoso e piccante.

Custodiva ogni sapore, ogni immagine, ogni sfumatura, con la cura di un collezionista.  

Non disprezzava i viaggi di lavoro di suo padre, brevi e poco affascinanti: l’aspetto sciatto e asettico dei tribunali di provincia non era suggestivo quanto i campi di lavanda della Provenza, ma Sebastian era disposto a tutto, pur di essere in movimento. La staticità della Dalton lo spaventava.

La maggiore età, la libertà di vivere da solo a New York, furono una boccata d’aria fresca: con l’iscrizione alla facoltà di Legge, Sebastian si lasciò alle spalle senza indugi l’Ohio, la Dalton, le divise e i polverosi club di provincia.

Ma l’istinto di fuggire via, di restare intrappolato, covava profondo dentro di lui, come brace sotto la cenere. Ed era proprio per questo istinto, che aveva passato gli ultimi tre mesi in Francia, approfittando di un corso di specializzazione che proprio non poteva lasciarsi sfuggire. Naturalmente, quando aveva chiesto ai suoi genitori di finanziare la sua partecipazione a un seminario tanto costoso quanto prestigioso, i cordoni della borsa di casa Smyhte si erano aperti davanti a lui come le porte del paradiso.

Le settimane si erano susseguite rapidamente, scivolandogli tra le dita, perso tra lezioni sfiancanti, enormi delusioni e frizzanti successi; Sebastian sarebbe tornato a New York soddisfatto, e con una lettera di raccomandazione che gli scottava tra le dita. Non avrebbe potuto desiderare di meglio, da quel breve soggiorno parigino.

La mattina del suo rientro aveva quindi fatto colazione con sua nonna, comodamente seduto sul terrazzo, sgranocchiando croissant farciti e sfogliando pigramente una rivista. Le sue valigie, amorevolmente preparate da una delle cameriere, lo aspettavano in auto, insieme all’autista pigramente appoggiato alla portiera, pronto a partire per l’aeroporto al momento più opportuno. All’affettuoso saluto di sua nonna, era seguito un tranquillo viaggio e un pranzo gourmet nell’area vip dello Charles de Gaulle. Proprio lì aveva incontrato una hostess particolarmente gentile, Caroline, cui aveva chiesto sfacciatamente un piccolo, insignificante favore.

Sebastian non avrebbe mai capito perché alcune donne trovassero gli uomini gay tanto affascinanti, ma di certo sapeva come usare questa debolezza a suo vantaggio: in più di un’occasione aveva rimediato delle bollenti nottate indimenticabili, semplicemente accennando che era single a qualche compagna di università. Bastavano poche ore, e rimediava un appuntamento,  un numero di telefono e un ragazzo volenteroso.

Inoltre, si fidava ciecamente del senso estetico delle donne.

Quindi non esitò nel proporre alla zelante Caroline un’idea divertente: se avesse notato qualche ragazzo particolarmente carino, non sarebbe stato fantastico offrigli un posto in prima classe, magari proprio accanto a Sebastian? Prevedibilmente, lei annuì, lusingata dalla fiducia che le era stata concessa, già eccitata all’idea di sbirciare dalla cabina i due mentre flirtavano.

Sull’aereo, strizzato l’occhio a Sebastian mentre lo accompagnava al suo posto, si era dileguata in seconda classe. Se la memoria non la ingannava, in fila al gate aveva notato un ragazzo che faceva proprio al caso suo: il poverino aveva l’aria stravolta e la camicia macchiata di caffè, ma era innegabilmente di bell’aspetto. E innegabilmente gay, se l’intuito non la tradiva proprio ora.

Sebastian, nel frattempo, dispose il suo kindle sul sedile e passeggiò lungo il corridoio, con la giacca ancora sul braccio, fingendo di controllare la posizione delle uscite di sicurezza; nel caso in cui Caroline gli avesse rimediato qualcuno di poco attraente, poteva sempre fingere di aver qualcosa di interessante da leggere. O schiacciare un pisolino.

Ma la sua speranza era di incontrare un ragazzo da affascinare con il suo charme, con cui divertirsi una volta atterrati a New York e da scaricare dopo aver smaltito il jet-lag. Niente l’aiutava a liberarsi del sonno come quattro capriole spensierate con uno sconosciuto.

Dopo l’entusiastica descrizione di Caroline del “brunetto dalla pelle di porcellana e un sedere da favola” scovato in seconda classe, Sebastian si diresse baldanzoso e carico di aspettativa verso il suo posto.

E lo sconosciuto che aspettava solo di essere conquistato.

Impiegò giusto una manciata di secondi, mano mano che si avvicinava, per riconoscere Kurt Hummel in quel ragazzo rivolto al finestrino: nonostante i lineamenti fossero più affilati e la figura più matura, dannazione, quello era proprio Kurt, l’irriverente principessina del McKinley.

Ancora una volta, sogghignò beffardo alla sua sorte di instancabile viaggiatore: se il fato aveva messo Kurt proprio su quell’aereo, probabilmente c’era un motivo. Ed era sua intenzione scoprirlo.

“Che io sia dannato, se questo che ho davanti non è Kurt Hummel.” disse quindi sorridendo, accantonando ogni progetto, sia di seduzione, sia di lettura.

 

   
 
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