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Autore: _Trixie_    26/04/2013    6 recensioni
Nono giorno dalla partenza di Arizona per il Malawi.
Il timer del forno scatta.
«Non preoccuparti, faccio io» si offre Mark appoggiando il bicchiere sul tavolino di fronte e alzandosi. Scavalca le mie gambe stese in avanti, come fa di solito Arizona.
Come faceva di solito Arizona.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
Duecentosedici ore, otto minuti e diciassette secondi.
La vicinanza di Mark può colmare il vuoto lasciato dalla partenza di Arizona per qualche minuto.
Ma per quanto una stella possa essere bella e fulgida, non potrà mai sostituire ciò che il Sole è per la Terra.
Genere: Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Callie Torres, Mark Sloan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Settima stagione
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Accanto a un bicchiere di vino.
 
 

Con uno sguardo mi ha reso più bella,
e io questa bellezza l'ho fatta mia.
Felice, ho  inghiottito una stella.
 
Ho lasciato che mi immaginasse
a somiglianza del mio riflesso
nei suoi occhi. Io ballo, io ballo
nel battito di ali improvvise.
 
Il tavolo è tavolo, il vino è vino
nel bicchiere che è un bicchiere
e sta lì dritto sul tavolo.
Io invece sono immaginaria,
incredibilmente immaginaria,
immaginaria fino al midollo.
 
Gli parlo di tutto ciò che vuole:
delle formiche morenti d'amore
sotto la costellazione del soffione.
Gli giuro che una rosa bianca,
se viene spruzzata di vino, canta.
 
Mi metto a ridere, inclino il capo
con prudenza, come per controllare
un'invenzione. E ballo, ballo
nella pelle stupita, nell'abbraccio
che mi crea.
 
Eva da costola, Venere dall'onda,
Minerva dalla testa di Giove
erano più reali.
 
Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza il quadro.
 

Wislawa Szymborska,
Elogio dei sogni, Accanto a un bicchiere di vino.

 
 
 
 
 
 
 
 

Nono giorno dalla partenza di Arizona per il Malawi.

 
Fisso l’orologio appeso alla parete del salotto di Mark. Ancora pochi secondi e poi saranno passate esattamente duecentosedici ore dall’ultima volta in cui ho visto Arizona.
Mi verso un altro bicchiere di vino.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
La porta d’ingresso alle mie spalle si apre. Mi giro con la bottiglia ancora in mano e il bicchiere traboccante.
«Ciao» mi saluta Mark, quasi temendo di disturbare i miei pensieri.
«Ehi» è la mia risposta sospirata.
All’aprirsi di ogni porta, allo squillare di ogni telefono, al suono di ogni campanello, spero sempre che dietro ci sia Arizona, con le sue fossette e i suoi capelli morbidi.
Ed ogni volta è un piccolo ago che mi punge il cuore, facendone zampillare gocce di sangue.
«Fuori si gela» commenta Mark, togliendosi la giacca e sfregandosi le mani. A passi lunghi arriva al camino di fronte al divano, che torno a fissare.
«Immagino» concordo, dopo un lungo sorso di vino. «Le patate arrosto stanno finendo di cuocere, ma se vuoi iniziare a mangiare la carne è pronta» aggiungo, cercando di nascondergli la mia delusione per il fatto che lui non è Arizona.
«Fantastico, ma preferirei aspettare» dice, mettendosi a sedere accanto a me. Mi da un leggero bacio sulla guancia, prima di rubarmi il bicchiere dalle mani e finirne il contenuto.
Lo sorprendo a fissarmi da sopra il bordo.
«Cosa c’è?» chiedo, con un accenno di sorriso.
«Nulla».
Si passa velocemente la mano dietro il collo, in un gesto che mi è familiare. Significa che sta mentendo.
«Mark, a cosa stai pensando?» indago curiosa.
«Nulla, davvero» ripete, versandosi di nuovo del vino. «È solo che quando bevi le guance ti diventano rosse».
«E allora?»
«Nulla, è una cosa carina» ammette, incrociando il mio sguardo per un secondo.
Il timer del forno scatta.
«Non preoccuparti, faccio io» si offre Mark appoggiando il bicchiere sul tavolino di fronte e alzandosi. Scavalca le mie gambe stese in avanti, come fa di solito Arizona.
Comefaceva di solito Arizona.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
Duecentosedici ore, otto minuti e diciassette secondi.
La vicinanza di Mark può colmare il vuoto lasciato dalla partenza di Arizona per qualche minuto.
Ma per quanto una stella possa essere bella e fulgida, non potrà mai sostituire ciò che il Sole è per la Terra.
 
 

Dodicesimo giorno dalla partenza di Arizona per il Malawi.

 
Sono passati duecentosessantasette ore, dodici minuti e cinquantasei secondi dall’ultima volta in cui ho visto Arizona, secondo l’orologio del bar di Joe.
«La prima volta in cui mi hai rivolto la parola eri seduta lì» ricorda Mark, indicando uno sgabello poco distante dal mio.
«Ti ricordi sul serio o stai tirando a indovinare?» chiedo con uno sbadiglio. A volte mi lascio ancora sorprendere dalla stanchezza provocata da turni eccessivamente lunghi, nonostante mi consideri temprata da anni e anni di pratica.
«Mi ricordo sul serio!» protesta lui indignato. «Profumavi di buono. Di vaniglia, se vogliamo essere precisi».
Lo guardo stupita.
«Scherzi? Non ho mai usato alcun profumo alla vaniglia!»
«Torres, io non scherzo affatto, profumavi allora e profumi anche adesso» afferma con estrema convinzione.
Non si tocca il collo, perciò sono sicura che non sta mentendo.
Mi porto un braccio vicino al naso e lo annuso. L’unico odore che riesco a sentire è quello dell’ospedale misto a un vago sentore di formaggio, forse derivante dalla pizza mangiata a cena.
«Io non sento niente» commento.
«Mi hai sorpreso, quella sera» continua, ignorandomi. Tra le mani si rigira un bicchierino vuoto.
«Per la vaniglia?»
«Oh, no. Mi hai sorpreso quando mi hai rivolto la parola» ride, scuotendo la testa.
«Perché? Ti sembravo così tremenda?»
«Ma scherzi? Eri un sogno. Però, vedi, Addison mi aveva detto che eri sposata. E cattolica convinta. Perciò avevo resistito alla tentazione di provare a portarti a letto» spiega, chiamando Joe con un cenno della mano.
L’uomo si avvicina e riempie il bicchiere di Mark con quello che intuisco essere gin.
Una parte di me è fermamente convinta che Mark non sia completamente  lucido, ma un’altra parte sa che quello è solo il suo secondo bicchierino.
«Alla tua bellezza, Torres!» esclama, facendo un brindisi nella mia direzione.
Sorrido scuotendo la testa.
«Non sei obbiettivo nei miei confronti, Mark» lo rimprovero blandamente.
«Perché ti voglio bene?»
«Perché mi vuoi bene».
«Forse» ammette, facendo oscillare il gin rimasto sul fondo.
«Ma almeno un ballo sei disposta a concedermelo, Callie?»
Fingo indecisione, ma leggo nei suoi occhi che conosce la mia risposta affermativa.
In fondo ballare mi è sempre piaciuto ed è ora di ricominciare a farlo dopo duecentosessantasette ore, diciannove minuti e tredici secondi dalla sua assenza.
Lascio che siano Mark e la musica a guidarmi fino a quando le note di un’anonima canzone si interrompono per lasciare posto ad altre, a me ben conosciute.
There's a piece of me you can't have,
And I know it's driving you mad. 
Il mio corpo ghiaccia tra le braccia di Mark.
There's a part inside you can't reach, 
I'm afraid that's the way its gonna be. 
Cerco i suoi occhi, fatico a trovare le parole.  
There's a part of you that wants to fight.
«P-portami a casa» sussurro.
«Cosa…?»
Scuoto la testa, perché le mie parole si tramuterebbero in nient’altro che lacrime.
Pieces falling from me, 
You can have them for free.
Dopo duecentosessantasette ore, ventitre minuti e quarantaquattro secondi dall’ultimo sguardo che le avevo lanciato, il ricordo del nostro primo ballo non poteva che essere una nuova stilettata nel bel mezzo del cuore.
 
 

Quindicesimo giorno dalla partenza di Arizona per il Malawi, notte.

 
La casa è silenziosa, illuminata dalla luna e dalle stelle di un cielo senza nubi.
Cammino a piedi nudi, chiedendomi vagamente se sono sveglia o sto ancora dormendo. La risposta arriva in fretta, nel momento in cui urto contro una sedia del tavolo che cade a terra strappandomi un urlo angosciato.
Maledetto Mark e maledetta quella sua abitudine di non sistemare la sedia dopo essersi alzato da tavola. Mi chino a raccoglierla e la sistemo. Solo allora noto che nessuno di noi due ha sparecchiato dopo cena, troppo stanchi per qualsiasi altra azione che non fosse trascinarsi a letto dopo una lunga giornata di lavoro.
Impilo piatti e bicchieri, facendoli quasi cadere quando Mark mi raggiunge in cucina.
«Callie! Ma che diavolo stai facendo? Pensavo che fosse entrato in casa qualcuno a rapirti!» sbraita Mark, con la lampada del comodino in mano.
«Avevo sete, così mi sono alzata per prendere un bicchiere d’acqua, ma sono inciampata nella tua sedia» spiego, con una nota di risentimento. «E perché hai una lampada in mano?»
«Arma di difesa, le mazze da baseball sono nel tuo appartamento. Dammi qua» aggiunge, avvicinandosi e togliendomi tutto di mano.
Lascia cadere tutto nel lavandino e ho il vago presentimento che qualcosa si sia rotto, ma prima che io possa indagare Mark mi cinge le spalle con un braccio e mi accompagna a sedermi sul divano, accendendo la televisione.
«Bene, non c’è niente di meglio delle televendite notturne per far addormentare le persone» dice, porgendomi una coperta e sedendosi accanto a me. «Staremo qui fino a quando non cadrai nel mondo dei sogni».
Gli sorrido e lui mi arruffa i capelli.
«Grazie» dico, prima di guardare l’orologio.
Trecentoquarantatre ore, trentatre minuti e tredici secondi.
«Se non la smetti di contare in continuazione il tempo passato da quando Arizona se ne è andata, Callie, ti cavo gli occhi» minaccia Mark, con un tono più preoccupato che ostile.
«Non credevo che te ne fossi accorto».
«E tu ti sei accorta di parlare nel sonno? O, almeno, parli nel sonno le rare volte in cui dormi».
«Oh» dico solo, senza avere il coraggio di chiedere che cosa avesse sentito.
«La chiami» risponde lui alla mia muta domanda. Non dovrei stupirmene, è il mio migliore amico, sa quello che voglio. «E a volte piangi anche» aggiunge in un sussurro, distogliendo lo sguardo da me.
«Oh».
«E guardati intorno, Callie. Non ci sono tracce della tua presenza qui se non i piatti sporchi. I tuoi vestiti sono ancora tutti nel tuo appartamento, non hai accettato le chiavi di questa casa e la tua posta viene recapitata ancora al numero 502. Il che non è un gran problema perché è proprio qui di fronte, ma tu non abiti più lì» dice Mark in tono incolore. Non è arrabbiato, almeno credo, mi sembra solo rassegnato.
«Hai detto tuo, ma è nostro, mio e di-»
«Arizona se ne è andata. Smettila di contare i secondi e smettila di credere che ci sia ancora un Callie e Arizona, perché non c’è più. E tu devi tornare a vivere e a lasciare il segno della tua presenza».
Le sue parole mi paralizzano all’istante. Non aveva mai osato parlare così schiettamente del fatto che Arizona se ne è andata e che probabilmente non tornerà più. Anzi, sicuramente non tornerà più.
Inspiro, inspiro fino a che i miei polmoni minacciano di scoppiarmi nel torace e poi espiro.
«Ok» dico semplicemente.
«Callie, scusa, io non…»
«Va tutto bene, Mark, guardiamo le televendite» lo rassicuro stringendogli una mano.
Cammino per il mondo senza lasciarvi alcuna traccia, cammino per il mondo ed è come non camminare affatto, cammino per il mondo senza di lei. E senza di lei non voglio camminare.
 

Quindicesimo giorno dalla partenza di Arizona per il Malawi, mattina.

 
Questa notte Mark si è addormentato con la testa sulle mie gambe, mentre io mi sono sorbita una televendita dopo l’altra, costringendomi a non contare più il tempo che passa, il tempo che mi allontana dalla sua ultima immagine di lei.
A colazione era preoccupato. Per via delle occhiaie, mi ha detto, ma lo so che credeva di aver peggiorato la situazione parlandomi in quel modo.
Mi siedo accanto a lui a pranzo. Non so esattamente quanto tempo sia passato dalla partenza di Arizona, però credo che il mio subconscio stia ancora contando.
«Tutto bene questa mattina, Torres?» mi chiede Mark.
«Sì, mattinata tranquilla, nessun intervento. E tu?»
Sbadiglio, prima di portarmi alla bocca una forchettata di quella che dovrebbe essere pasta, anche se l’aspetto che ha non è per nulla rassicurante.
«Dovresti dormire. Perché non chiedi un paio di giorni di ferie?»
«Perché sto bene, Mark» rispondo, con un sorriso rassicurante. Il che è ironico perché sono io quella mollata dalla fidanza che ha bisogno di sostegno, non lui.
«D’accordo» dice, non convinto dalle mie parole.
«Sai cosa potremmo fare questa sera?» chiede dopo un attimo.
«Ti prego, non portarmi di nuovo da Joe» rispondo preoccupata, dato che negli ultimi giorni avevo riempito per bene la cassa del bar.
«Troppe sbronze?»
«Non mi sono ubriacata!» protesto, addentando un pezzo di pane con più energia del dovuto e finendo per mordermi la lingua. «Ah!»
«Cosa hai?» indaga Mark preoccupato.
«Nulla. Cosa vuoi fare questa sera?»
Lo vedo deglutire e portarsi una mano dietro il collo.
«Nulla, lascia perdere, era un’idea stupida».
«Mark».
«Facciamo così, tieniti pronta per le nove. Passo io a casa a prenderti, d’accordo?» mi chiede, alzandosi da tavola mentre il suo cercapersone inizia a suonare. «Però non ti arrabbiare!»
«D’accordo» rispondo sospirando e preparandomi all’ennesima serata da Joe.  
 
 

Quindicesimo giorno dalla partenza di Arizona per il Malawi, sera.

 
«Una festa a sorpresa da Joe» dico, dopo che Mark mi ha tolto la benda e mentre l’intero locale applaude. «E per festeggiare cosa, esattamente?»
«Ho detto a tutti che oggi è giorno del tuo onomastico» spiega Mark, con un’alzata di spalle.
«Ma non lo è» gli faccio presente, mentre sorrido distrattamente a un giovane ragazzo mai visto prima d’ora che mi fa l’occhiolino dall’altro lato del lato del bar.
«Lo so. Ma non potevo certo usare il tuo compleanno, è appena passato!»
«E ufficiosamente a cosa serve tutto questo?» indago, incuriosita dalla sua logica irragionevole.
«A distrarti e a farti offrire da bere» risponde con un sorriso enorme, uno di quelli che solo Mark può avere.
Mi porta al bancone e ci sediamo. Joe si avvicina a noi e mi passa un piccolo foglio stropicciato.
«Per ora ti sono stati offerti sei drink» mi spiega, mentre scorro velocemente la lista che Joe ha scarabocchiato, con nomi e numeri di telefono di sconosciuti.
«Posso accettare i drink e gettare i numeri?» gli chiedo titubante.
«Certo» mi assicura, con un occhiolino. «A proposito, buon onomastico, il primo giro lo offre la casa!»
«Oh, no, Joe, non c’è bisogno di… davvero… non…» balbetto, mentre lui mi sbatte davanti un bicchiere colmo, con tanto di ombrellino a coronare l’opera.
«Ringrazia e goditelo, Callie» mi incoraggia Mark.
«Grazie, Joe, è davvero carino da parte tua» sorrido, portandomi la cannuccia alle labbra.
Arizona beve sempre con la cannuccia. Beveva.
«Quello non ti toglie gli occhi di dosso, Torres» bisbiglia Mark, indicandomi velocemente la direzione in cui guardare con un guizzo degli occhi.
Alzo lo sguardo del mio drink e lancio una fugace occhiata.
Decisamente, non è il mio tipo.
«Se si dovesse avvicinare, salvami» gli ordino, agitandomi sulla sedia.
«E quella ti piace? Sembra carina e, eccola, ha guardato ancora qui» domanda, muovendo il collo in un gesto apparentemente casuale per guidare i miei occhi.
«Oddio, Mark, no!» esclamo con impeto. «E poi magari sta guardando te».
«A me non interessa».
«Udite, udite, il grande Mark Sloan non è interessato!»
«Dacci un taglio, Torres» intima lui, mimando un paio di forbici a mezz’aria.
«Ti manca Lexie?» domando quasi casualmente. Lei e Arizona erano due argomenti che preferivamo non affrontare in pubblico, così da evitare crisi di panico da parte mia e di rabbia da parte sua.
«Un po’» ammette, rubando un sorso del mio drink.
«Ma perché non parliamo di quelle due gemelle che si stanno struggendo d’amore per te?» chiede, cambiando argomento.
«Perché due persone tra loro identiche e innamorate di me sono inquietanti».
«Potrebbe essere divertente» mi fa notare, mentre mi riprendo il drink.
«Joe l’ha offerto a me, non a te!»
«Joe te l’ha offerto per il tuo onomastico, Santa Callie da Seattle» specifica sarcastico.
«Vengo da Miami» ribatto, giocherellando con il piccolo ombrello verde tolto dal bicchiere, che vuoto in un solo sorso.
«Ma sei impazzita? Ti sentirai male!» esclama lui, mentre, in effetti, mi gira un po’ la testa.
«Joe!» urlo. «Quante offerte ho ancora?».
«Una decina, a occhio e croce. E continuano ad aumentare!»
Il secondo drink mi era bastato per criticare acidamente ogni persona che Mark sottoponeva al mio giudizio, mentre lui sorseggiava quello che, tecnicamente, era il terzo bicchiere che mi era stato offerto.
Il quarto bicchiere mi fece venire una sonnolenza tale che decisi di bere il quinto per riprendermi e offrii il sesto a Mark.
Al settimo iniziai a parlare veramente a vanvera.
«Mark, te lo giuro! Se innaffi le rose con il vino, quelle cantano!»
«Mi stai prendendo in giro!»
«No! Però deve essere vino rosso, italiano!»
E poi ho perso il conto, perciò ora non so che numero sia il bicchiere che ho tra le mani.
«Portami a innaffiare, no, cioè, volevo dire» blatero, appoggiando il drink sul bancone. «Portami a ballare!»
«Sicura di stare in piedi?» domanda Mark, che deve aver bevuto meno di me.
Certo che è stato davvero maleducato da parte sua far bere da sola la festeggiata.
Inciampo e gli cado tra le braccia. Rido della sua espressione stupita, mentre mi aiuta a rimettermi in piedi.
«Ok, forse è meglio che ti riporti a casa».
«Non se ne parla nemmeno, Sloan. Non costringermi a ballare da sola!» lo supplico, cercando di non sbottare di nuovo a ridere, senza nemmeno conoscerne il motivo.
«Callie…».
«Ti prego!»
Sospira rassegnato e mi sorride tendendomi la mano.
«Come si fa a dire di no a te?» mi domanda, mentre finalmente accenna qualche passo di danza.
E poi c’è Mark e il profumo di Mark sulla pelle e gli occhi di Mark nei miei.
Ci sono le sue parole nelle mie orecchie, le sue mani sui miei fianchi, il suo viso tra i miei capelli.
E ora c’è la sua macchina e una stupida canzone alla radio.
E c’è l’incrocio vicino al nostro palazzo, troppo trafficato per i miei gusti.
E c’è il suo, o forse nostro, appartamento ad aspettarci.
«Come ti senti, Callie?»
Biascico. Sono a letto, tra le lenzuola di Mark.
Sento che mi sfila gli stivali, sento una coperta adagiata su di me, lo sento coricarsi dall’altro lato.
Sono stanca, chiudo gli occhi.
Trecentosessantasette ore, cinquantadue minuti e diciassette secondi.
 
 

Sedicesimo giorno dalla partenza di Arizona per il Malawi.

 
Non è per la sbronza o per aver dormito con i vestiti della sera prima, non è per il dolore sordo che mi pervade il corpo o l’orribile odore di alcol della mia pelle, no, non è per nulla di tutto ciò che sto male.
È per Arizona. Per Arizona che manca.
E fa male, perché Mark ha ragione. Non c’è più alcun Callie e Arizona.
Mi siedo sul bordo del letto, guardo l’orologio sul comodino.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
Trecentosettantanove ore, quattro minuti e ventisei minuti.
Arizona.
Devi solo arrivare alla fine del prossimo respiro, Callie.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
Arizona.
Trecentosettantanove ore, quattro minuti e trenta secondi.
Arizona.
Respira, Callie.
Il mio cuore manca un battito.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
Trecentosettantanove ore, quattro minuti e trentasei secondi.
Tic-tac.
Arizona.
Respira.
Tic-tac.
Arizona.
Respira.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.  
Arizona.
Arizona.
Arizona.
«Ti sei svegliata!»
Mark spalanca la porta della camera e io prendo un gran respiro, riempiendomi i polmoni d’aria, il cuore inizia a pompare velocemente.
Quando ho smesso di respirare?
«Stai bene? Ti fa male la testa?»
«Tutto ok, Mark, sono solo postumi da sbornia, credo che dormirò ancora un po’, se non ti dispiace».
«D’accordo, chiamami se hai bisogno» mi dice titubante, prima di richiudersi la porta alle spalle.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
Trecentosettantanove ore, sei minuti e due secondi.
Arizona.
Tic-tac.
Arizona.
 







 
NdA
La canzone citata èLittle Pieces, Gomez, che Callie e Arizona ballano insieme.
La poesia è invece una delle mie preferite, di una delle mie autrici preferite, perciò spero di non averla profanata! Di sicuro le ho attribuito un significato insolito! 
Grazie infinite per aver letto, a presto, Trixie :D

   
 
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