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Autore: Pwhore    27/04/2013    5 recensioni
Prima che partiate coi film mentali, sappiate che non ho un passato di violenze, che non mi ha mai molestato nessuno se non qualche matto sull'autobus che da dietro mi aveva scambiato per una ragazza per poi pensar bene di fare qualche bel massaggio al mio simpatico fondoschiena, che a scuola i bulli non mi pestano e che non sono mai stato gettato in un secchio della spazzatura poco prima dell'inizio delle lezioni, come succede a tutti i ragazzi dei telefilm che passano in TV durante le vacanze estive. No, gente, mi dispiace ma Jack Barakat non ha mai dovuto affrontare niente del genere e ringrazia il cielo per la vita che ha passato finora, coi suoi alti e bassi, i suoi pregi e difetti. No, il mio problema è un altro, e penso si possa riassumere con una sola parola: me.
Genere: Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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There's room for two six feet under the stars cap1 «Buongiorno ragazzi, come sono andate le vacanze?» è l'inutile tentativo della professoressa di letteratura di interessare quella che tra tutte è la sua classe più scalmanata e meno rispettosa delle regole, che invece preferisce di gran lunga continuare a chiacchierare e tirarsi palline piuttosto che darle anche la minima soddisfazione.
Sbuffo, annoiato, e mi sporgo in avanti per cercare Alex e chiedergli di sedersi accanto a me, come tutti gli altri giorni. Ovviamente non c'è. Alex è il mio migliore amico da anni e la mia sbandata più decisa da qualche mese, e ha una salute bizzarra: non si ammala per mesi e se ne lamenta in continuazione, poi prende freddo per dieci minuti e finisce a letto con un febbrone da cavallo per giorni e giorni, con conseguente smarrimento da parte mia. Non che non abbia amici in classe, sono ben apprezzato da una mezza dozzina di persone e se le altre mi sfottono non lo fanno di certo davanti ai miei occhi, quindi tutto sommato penso che la situazione vada abbastanza bene; ma lui è Alex, è diverso, e ogni volta che manca da scuola mi sento un po' più scarico e maldisposto. Nessuno è al corrente di quello che provo nei suoi confronti se non Zack, comunque, a cui mi sono confidato quasi unicamente perché la sua aria timida e riservata semplicemente non gli permettono di andare in giro a sputtanare gli altri, anche se volesse. E poi dai, è un bravo ragazzo.
Insomma, fatto sta che Alex non si è presentato a scuola questa mattina, e io ho dovuto passare sei ore della mia esistenza a rimuginare su come farlo sorridere questo pomeriggio, quando andrò a trovarlo e portargli compiti dei che né io né lui faremo mai. O almeno, vorrei poter dire di averlo fatto: quei due coglioni di Zack e Rian hanno pensato bene di rendermi partecipe di tutte le interessantissime svolte nelle loro faccende amorose, nelle loro vite quotidiane e nel loro rendimento scolastico, cose di cui non me ne frega un dannato accidente. Ma insomma, se voglio continuare a poter contare su qualcuno quando il mio migliore amico è assente, devo fare buon viso a cattivo gioco e assecondarli.
Mi sono messo ad ascoltare con aria quasi interessata i loro racconti e stavo per giungere a una conclusione piccante sulle vacanze del batterista, quando Nick è entrato nell'aula, con mezz'ora di ritardo e un numero spropositato di strilli da parte della professoressa, che continuava ad essere ignorata da chiunque tranne il solito aspirante scrittore che non si è ancora reso conto di quanto in realtà lei non abbia la minima idea di come diventare famosa; e si è seduto davanti a me.
«Jack, ciao!» ha esordito come sempre, senza proprio riuscire a capire che a me sta sinceramente e totalmente antipatico e che se potessi non gli rivolgerei mai la parola. Mi ha ammollato una sonora pacca sulla spalla e io ho sbuffato trai denti, bofonchiando un ciao in rimando, ma lui non ha gettato la spugna e mi ha rivolto il suo sorriso più smagliante. «Ma che hai fatto, hai tentato il suicidio durante le vacanze?» ha scherzato, prendendomi il braccio e alzandolo in alto. Il mio umore è sprofondato ulteriormente sotto terra e il mio cervello ha elaborato meccanicamente una risposta, che mi è uscita dalle labbra senza che neanche ci pensassi.
«Ti ricordo che sono di ritorno da sette giorni di montagna, dove ho avuto come minimo trentaquattro frontali con pini, ginepri e compagnia bella» ho sibilato, riuscendo a sembrare pure più sincero di quanto non sembri di solito quando mento, e lui ha riso di gusto, immaginandomi andare a cozzare contro cespugli e quant'altro.
«Ma che scemo, non ci posso credere» mi ha sfottuto, lasciando andare il mio braccio e posandosi il suo davanti alla bocca. Ho abbozzato un sorriso e l'ho mandato a cagare mentalmente, ma gli altri sembravano non essersene neanche accorti. Mi sono sentito meglio. Se la sono bevuta alla grande.
«E Alex dov'è?» ha domandato quindi Nick, sentendosi parte del gruppo e sorridendo a tutti con aria smagliante.
«È malato» ho risposto, spostando lo sguardo verso la cattedra, dove la prof imprecava nervosamente.
«Ceerto» ha ridacchiato fra sé e sé il moro, scuotendo la testa, «è quello che dicono tutti quando fanno sega. Dov'è ora?»
«Alex non fa mai sega» gli ho ricordato con una punta di risentimento, e lui ha sorriso, portando le mani vicino al volto.
«Ehi, calmo, stavo solo scherzando» si è scusato con una risata, per poi tornare a chiacchierare allegramente coi miei amici. Ho sospirato. A loro non sta antipatico, quindi me lo ritrovo attorno tutti i santi giorni, tranne quando c'è Alex e Nick capisce che non ho intenzione di concedergli la minima attenzione; allora si limita a girarci attorno, salutarci vivacemente quando c'incontra nei corridoi e a fermarci con la scusa più stupida giusto per fare due chiacchiere e interrompere i nostri discorsi. Ad Alex è sembrato una persona molto sola che non ricevendo abbastanza affetto a casa ne cerca tra i muri scolastici, ma io non gli ho dato neanche la possibilità di pensare che avrebbe potuto unirsi a noi, qualche volta, e l'ho messo al corrente dell'astio che provo nei suoi confronti da quando l'ho conosciuto. Alex non ha indagato oltre, anche se all'inizio ha indugiato nel lanciargli un'altra occhiata da lontano, e sapevo non avrebbe fatto altre domande. È questo il bello della nostra amicizia: non devo giustificare il perché di come mi senta o perché mi comporti in un determinato modo piuttosto che in un altro in presenza di certe persone, e anche per Alex funziona così; ci apriamo sì l'uno con l'altro, ma non ci obbligheremmo mai a farlo. Rispettiamo ognuno lo spazio e i tempi dell'altro, e se qualcosa ci preoccupa parliamo, affrontiamo il problema e lo risolviamo insieme, come solo due migliori amici sanno fare. E in effetti, è quello che purtroppo siamo. Ma non è per questo che ultimamente ho ceduto al fascino delle lame, affatto. Alex ha sempre avuto la capacità di farmi star bene, accollargli una responsabilità del genere rasenta la follia pure in questo momento, nonostante i miei nervi facciano fatica a connettere e funzionare a dovere. Se un giorno dovessi dare la colpa a Lex per quello che ho fatto a me stesso sparatemi pure, non meriterei di vivere.



Prima che partiate coi film mentali, sappiate che non ho un passato di violenze, che non mi ha mai molestato nessuno se non qualche matto sull'autobus che da dietro mi aveva scambiato per una ragazza per poi pensar bene di fare qualche bel massaggio al mio simpatico fondoschiena, che a scuola i bulli non mi pestano e che non sono mai stato gettato in un secchio della spazzatura poco prima dell'inizio delle lezioni, come succede a tutti i ragazzi dei telefilm che passano in TV durante le vacanze estive. No, gente, mi dispiace ma Jack Barakat non ha mai dovuto affrontare niente del genere e ringrazia il cielo per la vita che ha passato finora, coi suoi alti e bassi, i suoi pregi e difetti. No, il mio problema è un altro, e penso si possa riassumere con una sola parola: me.
Non fraintendiamoci, sono un gran simpaticone e se mi prendete dal verso giusto posso anche farvi passare delle serate indimenticabili, ma sotto questa copertura di pimpante casinista batte un cuore che si è imprigionato da solo molti anni fa, continuando a rifinirsi la gabbia giorno dopo giorno. Credo che il problema maggiore sia che sono un amante dell'estremo - sono casinista fino al midollo, non riesco a stare fermo un attimo che sia un attimo, passo dalla depressione più profonda alla felicità più assurda in pochi istanti, se esco non mi fermo mai alla terza birra ma finisco con l'ubriacarmi e limonare con gli alberi, quando suono non smetto finché non mi sanguinano le dita, se voglio attirare l'attenzione passo subito ai metodi rumorosi e poco tradizionali e tralascio quelli più politically correct, quando sono in giro mi sentono arrivare da tre isolati di distanza, se vado ad una festa non c'è possibilità che io non sfasci qualcosa; potrei andare avanti così per anni e trovare comunque qualcosa da dire al riguardo, non è normale. Vorrei poter dire che mia madre è esasperata e cerca di cacciarmi fuori da casa tutte le volte che può, o che mio padre mi sbraita sempre addosso per farmi dare una calmata e tornare coi piedi per terra, ma né lui né lei ci sono mai, quindi per ricevere una sgridata dovrei urlarmi contro da solo, e francamente mi sembra un po' triste come cosa. Probabilmente è per questo che sono così esagerato: visto che facendo il bravo non ottengo abbastanza attenzioni sono costretto a ricorrere a mezzi che altrimenti preferirei evitare e ficcarmi nelle situazioni più improbabili, così i miei sono costretti a prendersi dei permessi da lavoro per portarmi a casa e farmi una ramanzina, e irrimediabilmente passiamo del tempo assieme come una vera famiglia. Trovo infinitamente deprimente che il nostro rapporto si sia ridotto a una routine del genere, ma lasciandomi libero come l'aria fin da piccolo i miei genitori mi hanno come messo da parte, al punto che se ci penso ora mi viene da dubitare che mi abbiano mai davvero dato un'educazione. Probabilmente esagero perché la cosa mi ferisce, in fondo quando ci sono, non sono dei genitori niente male, anzi. Si sono sempre fidati ciecamente di me, mi hanno sempre considerato un ragazzo coscienzioso e in grado di prendersi cura di sé, e se mi hanno lasciato solo così a lungo avranno avuto i loro motivi, non lo facevano perché la cosa li divertiva. Solo che, motivi o non motivi, non ho passato un'infanzia come quella di tutti i miei amici. Ho letto troppo, mangiato troppo, pianto troppo, disegnato troppo, urlato troppo - un'altra parte della mia vita segnata dagli estremi, per farla breve.
Poi è morto nonno, e il migliore amico di papà; un cugino ha contratto una grave infezione e un altro è caduto vittima del cancro; il mio gatto ci ha lasciati e in seguito pure il suo rimpiazzo; e quando piangevo ero solo, solo come un cane. Credo che la perdita più grave sia stata quella di mio nonno, ha fatto così male che ancora oggi evito di pensarci perché è una ferita non cicatrizzata e il suo sorriso mi attorciglia le budella tutte le volte che lo incontro in fotografia.
Un altro mio problema è che per quanto possa essere proiettato nel presente o nel futuro, vivo nei ricordi. Basta entrare nella mia stanza per rendersene conto: è tappezzata di poster musicali, disegni, volantini e cazzate varie, ma le foto, le lettere delle mie ex-fidanzate, i regali che mi hanno fatto nel corso degli anni, persino un articolo che parla della mia città risalente a ormai sette anni fa, è tutto rimasto, tutto esposto, tutto allo stesso posto di quando l'ho sistemato la prima volta. Sono un maniaco in queste cose, e anche se mi rendo conto che la loro presenza non ha una buona influenza su di me, togliere questi pezzi di storia dai ripiani della libreria e strappar via gli inviti dalle pareti mi sembra una cosa insensibile e sbagliata, quasi fossero parte di me. E in effetti lo sono, ma questo ci riporta al primo problema, cioè che sono un pazzo estremista che non prova nessuna via di mezzo come gli altri comuni mortali ma che deve sempre distinguersi e attaccarsi morbosamente a qualsiasi cosa gli sia regalata senza un doppio fine. Ho carenze d'affetto, che ci volete fare?
Un altro problema forse è che non riesco a esprimere i miei sentimenti come dovrei. Rido, canto, chiacchiero come tutti gli altri e a prima vista non sono niente di anormale, ma il punto è che - e non sono molti quelli che riescono a diventarmi così amici da rendersene conto - non riesco a piangere, urlare, dare di matto o spaccare qualcosa quando mi sento giù. Avete presente quelle giornate di merda, ma così di merda, che una volta tornati a casa vorreste solo seppellirvi e lasciarvi morire per non essere costretti a soffrire un secondo di più? Ecco, io quelle giornate le passo come se niente fosse. Torno a casa, prendo la chitarra, suono, canticchio, faccio brutti pensieri, vado a fare una passeggiata, magari passo a rompere un po' i coglioni a Alex, ma è tutto lì. Vorrei morire, ma so che c'è gente che soffre molto più di me e che va avanti comunque con un sorriso grande come una casa stampato sulla faccia, e non sento il permesso di poter piangere o lamentarmi anche solo parzialmente della mia vita. Ho amici che si tagliano, amici che hanno tentato più volte il suicidio, amici i cui genitori sono le merde peggiori del pianeta, amici che fumano, amici che bevono, amici che semplicemente non ce la fanno più a tirare avanti in questo mondo, e non mi sento come se potessi davvero piangere e sentirmi male per me stesso. Non ne ho il diritto, non sono nella loro situazione. E poi dopo l'acquazzone c'è sempre l'arcobaleno, quando ci si sente male bisogna sempre tener duro ed aspettare che la tempesta passi prima di fare scelte avventate, e tutte queste cose qua. Le ho ripetute agli altri così tante volte che mi sono penetrate sottopelle e non riesco più a spingerle via; le sento premere con insistenza e marcire sgraziatamente tra le mie ossa, deluse dal fatto che sia umano e che ogni tanto il peso del mondo cada addosso anche a me, quasi non me lo potessi permettere. Chissà, forse non posso davvero; fatto sta che però ora non riesco più a permettermi di rimaner giù un secondo. Può morirmi il cane, può morirmi il gatto, può morirmi perfino il mio dannato pesce rosso: rimarrei impassibile, e così per tutto il resto delle tragedie che possono capitarmi. E qui la gente di solito dice 'che fortuna sfacciata! E hai pure il coraggio di lamentartene? Magari fossi anch'io così, sai che pacchia', ed è qui che si sbaglia: non è bello, non è positivo, non è una cosa di cui vantarsi e andar fiero, è una cosa che ti logora dentro ogni giorno di più, che ti fa sentire strano, diverso, che non ti permette di farti prendere sul serio dagli altri o da te stesso. All'inizio ne sei contento, ti dici 'daje, finalmente le cose cominciano a girar bene', ma bastano poche settimane per renderti conto che no, le cose non hanno cominciato a girar bene, perché la tua parte più sensibile e fragile è stata uccisa, sepolta e abbandonata, e tu sei rimasto lì, con l'illusione che un giorno possa tornare. Cominci a sentirti smarrito, a gettarti nei problemi degli altri per non dover affrontare il tuo, e più il tempo passa più ti convinci di esserti sbagliato, che ti sei solo abituato alle sfuriate della vita e che se ti capitasse l'occasione saresti più che in grado di piangere e soffrire come qualunque altro essere umano; ma quando poi l'occasione si presenta e senti la tua mente divagare, slittar via da quel soggetto e spostarsi su quel disco appena uscito che ti piace tanto e non vedi l'ora di ascoltare, allora ti rendi conto che c'è davvero qualcosa che non va, che non puoi più continuare a ignorarlo. Ma nello stesso momento in cui lo realizzi, il tuo cervello si focalizza su qualcos'altro e ti convince a ignorare la cosa, la seppellisce nei meandri del tuo inconscio e fa in modo che tu te ne dimentichi per un po', giusto il tempo di smaltire quell'ultima coltellata alla pancia, e quando poi te ne ricordi, sottovaluti la faccenda un'altra volta; e il giro ricomincia. Tipo il simbolo dell'Ouroboros, il serpente greco che si mangia la coda, solo che per gli gnosticisti e gli ermetisti aveva un significato positivo; di sicuro quando lo disegnavano non pensavano a un ciclo di autodistruzione individuale, dove noi stessi siamo i nostri peggior nemici. Non sono sicuro di quando esattamente io sia riuscito a non ignorare più il problema e ad afferrare il toro per le corna, ma di preciso so che quando mi sono sfogato al riguardo, Alex c'era e mi ha abbracciato, dicendomi che per me ci sarebbe sempre stato e che potevo contare su di lui in qualsiasi momento della giornata, non solo durante il giorno; e la cosa per un momento mi ha aiutato, mi ha fatto sentire amato e quanto il mio migliore amico fosse davvero una persona speciale, ma ora che sono qui, seduto alla mia scrivania, il senso di vuoto è tornato, e non so come affrontarlo.
E questo ci porta dritti a un altro problema: mi sento perennemente e costantemente solo, anche se so di non esserlo e che se glielo permettessi, tante persone si farebbero avanti per diventare mie amiche. Il brutto è che sono introverso, ho problemi ad aprirmi con gli altri e fargli capire che per me sono importanti e che ci tengo davvero a loro, e a meno che voi non siate Alex, non mi sentirete mai parlare apertamente dei miei problemi o di quello che (non) succede a casa. Quando ci vediamo e comincio a parlare, mi sento fuori posto perfino con lui, ma so che è la cosa giusta da fare e continuo a fare uscire questa matassa intricata di pensieri che mi transitano in gola, in attesa di venir rilasciati contro l'unico ragazzo che abbia davvero mai tenuto a me; e quando ho finito di parlare sento di aver fatto un passo avanti, perché ora che le parole sono fuori non posso più mentire a me stesso, ed è pur sempre qualcosa. Che poi i consigli di Alex calzino a pennello nella mia situazione è irrilevante, anche se fosse l'imbecille più incompetente del pianeta andrei lo stesso a chiedergli come comportarmi e come affrontare la giornata; è il fatto che sia il mio migliore amico ad essere importante, non il resto. Lui riesce a capirmi, aiutarmi, ma più di tutto riesce ad ascoltarmi e confortarmi quando ce n'è bisogno, e nessuno al mondo è in grado di farlo come lui. Alex è l'unica persona nell'universo a essere in grado di non farmi sentir solo quando le crisi cominciano ad attanagliarmi ed è l'unica persona nell'universo a sapere vita, miracoli e morte di me, che di norma agli altri non dico neanche cos'ho mangiato a colazione. Alex è speciale, la persona più bella del mondo, e senza di lui sarei davvero perso, dico sul serio.
Sfortunatamente, questo ci porta ancora una volta a un problema, che posso identificare con il primo che ho elencato: ritengo Alex la persona più speciale del pianeta, l'unica in grado di cambiarmi la giornata con una pacca sulla spalla e un 'ehi, ti va di uscire questo pomeriggio?', il solo capace di farmi sentire qualcosa quando ho i miei attacchi d'apatia e il mondo intero mi sembra uno spreco di spazio. Per me Alex è fantastico, la persona più dolce e disponibile del mondo, quello di cui davvero non riuscirei mai a fare a meno; è l'incarnazione estrema della perfezione umana, se vogliamo farla breve, e lo amo come mai sono riuscito ad amare qualcun altro, ma proprio per questo non posso permettermi di essere completamente sincero con lui, ho paura di perderlo e cadere nel buio più completo, senza più alcun appoggio. Non che il mio affetto e il mio attaccamento per lui possano essere ridotti a un 'ho bisogno di aiuto e lui è l'unico che c'è, meglio che mi accontenti o rimarrò solo come un cane', assolutamente. Senza di lui tutto perderebbe significato, a partire da questo diario che sto scrivendo ora, e molto probabilmente mi suiciderei nel giro di poco tempo. Il mio mondo gravita attorno a lui e la cosa non potrebbe essere più viscerale e profonda di quanto non sia ora; il nostro rapporto è senza dubbio il miracolo più bello che mi sia mai capitato e non potrei perdonarmi di rovinarlo. Per questo sono sempre zitto e impassibile quando mi parla delle sue cotte, per questo mantengo sempre il sorriso quando mi racconta di come qualcuna ci abbia provato con lui, per questo ingoio il rospo con nonchalance quando rivolge la sua attenzione a qualcuno che non sono io. Fa male da morire, ma perderlo sarebbe infinitamente peggio, e tutto sommato non fingo mai fino in fondo: mi fa piacere quando mi racconta di essere felice, quando la sua ragazza gli fa un regalo inaspettato e lui ci rimane di stucco, quando arriva con un sorriso a trentadue denti e mi dice 'Jack, mi sono innamorato'. Perché okay, non sono io quello che ama, ma sono io quello a cui va a dirlo, il primo con cui condivide ogni cosa che accade nella sua vita, e finché la situazione lo soddisfa per me non ci sono problemi, i suoi occhi vivaci sulla mia pelle mi bastano. Certo, prima o poi arriverò ad avere bisogno di qualcosa di più concreto per riuscire a tirare avanti come faccio ora, ma finché quel tempo è lontano non importa, voglio dare tutto me stesso per vedere quel suo bel sorriso aleggiare sulle sue labbra il più a lungo possibile. Sticazzi del resto.
Più melenso e pesante di un frullato di caramelle mou e canditi, vai così! Spero non apra mai gli occhi o sarà imbarazzante.


Busso alla porta e ciondolo sull'uscio, spostando il peso da un piede all'altro finché qualcuno non viene ad aprirmi.
«Oh, ciao Jack» mi saluta sua madre, sorridendo e facendosi da parte per lasciarmi passare, «vieni pure».
La ringrazio ed entro, lanciando un'occhiata alle scale. «Alex è di sopra?» domando. Annuisce.
«Sta un po' meglio, la febbre si è abbassata ieri notte» m'informa allegramente, poi aggiunge un 'divertitevi e chiamatemi se serve, io torno in cucina' e se ne va, asciugandosi le mani chiare sul grembiule. Salgo le scale stando ben attento ad essere il più silenzioso possibile, voglio sapere cosa fa Alex quando non sono in giro e non ha nessuno a tenerlo coi piedi per terra, magari ha qualche hobby fuori dal comune di cui io non so l'esistenza e che in futuro potrebbe aiutarmi per... qualche cosa. La gente dice che la curiosità è donna, ma se mi conoscesse probabilmente cambierebbe radicalmente il proverbio per aggiustarlo meglio a me. Non è colpa mia, il mondo è troppo interessante per non essere esplorato tutto, e poi le persone nascondono sempre le cose più salienti, quindi uno è letteralmente costretto a ricorrere a metodi alternativi per conoscerle a fondo e farsi un'idea del loro vero aspetto. Peccato che non sia mai riuscito a cogliere Alex alla sprovvista in questi anni, sarebbe interessante sapere cosa gli passa davvero per la testa quando non c'è nessuno attorno a potergli fare la ramanzina; secondo me nasconde qualche oscuro segreto di cui non può proprio svelare nulla causa conseguenze devastanti, altrimenti non sarebbe sempre sul chi-va-là e si sarebbe lasciato cogliere in fallo almeno una volta. Forse la prendo troppo sul personale e dovrei farmi una bella spaghettata di cazzi miei, ma Jack la vecchietta di paese scoprirà il suo segreto prima o poi, e quando lo farà potrà ritenersi contento e soddisfatto. Oh.
«Jack» esclama lui appena metto la mano sul pomello, prima ancora di cominciare ad aprire la porta. Come cazzo fa?
«Ehilà, malato grave» lo saluto entrando nella stanza, per poi sbracarmi sulla sedia davanti alla scrivania e lasciar cadere i libri per terra, come se mi trovassi in camera mia, «Che mi racconti?»
«Che ho appena finito di leggere un libro strano; parla di un uomo che andando in bicicletta cade e prende una botta in testa, e quando riprende i sensi si rende conto che la sua vita non lo soddisfa davvero e va a vivere in mezzo ai boschi con un cucciolo d'alce di nome Bongo, solo che poi un militante di destra decide di prenderlo ad esempio e piazza una tenda accanto alla sua, solo che a lui gli umani non piacciono, così quando anche un altro suo amico va a vivere lì, prende, costruisce un totem dedicato al padre e se ne va» mormora, senza fare una pausa tra una frase e l'altra.
«Wow» commento, impressionato «qualcuno che sta più fuori di te».
Mi lancia un cuscino con una smorfia divertita sulle labbra e non provo neanche ad evitarlo, mi limito a far finta che non sia mai neanche stato tirato e che sia solo un frutto dell'immaginazione febbricitante di Alex.
«Com'è andata oggi a scuola?» domanda, mentre io finisco di fare il distaccato.
«Una palla, come al solito. Quando ti degni di tornare fra noi comuni mortali?» gli chiedo, inarcando il sopracciglio. Si lascia cadere all'indietro, contro il cuscino, e sospira storcendo il labbro, in quella che riconosco come una smorfia a metà fra l'amaro e il compiaciuto. Gli piace sapere che mi manca, al bastardo, lo posso giurare su mia madre.
«Spero presto, stare qui immobile è un taglio delle vene» risponde francamente. Annuisco, pensieroso. Lui si volta a guardarmi, tirandosi su di nuovo, e mi guarda con più attenzione.
«Jack, non è che è successo qualcosa oggi?» domanda di nuovo, con quella sua aria innocente e preoccupata.
«Niente di rilevante a parte Nick e le sue battute terribili» lo tranquillizzo, spostando lo sguardo verso la grande libreria alla sua destra, che abbiamo montato assieme un numero considerevole di anni fa. Tace, capisce che non sono in vena di parlare e annuisce, cambiando argomento per evitare di lasciar cadere un silenzio opprimente e fuori luogo.
«Immagino ti stia divertendo molto con lui» ghigna, guardandomi dritto negli occhi e rigirando il coltello nella piaga.
«Molto più di quanto non faccia con te, stronzo» ribatto, concedendogli una fugace occhiata divertita.
«Allora perché non sei con lui, in questo momento?» m'incalza, vincendo anche quest'ultima finta battaglia, come sempre.
«Certo che sei proprio una palla» faccio con un sorriso esasperato, alzando lo sguardo al cielo con un sospiro sonoro.
«Consapevole e fiero di esserlo» si compiace, sorridendo docilmente. Ahh, quel sorriso.
«Oggi Nick ha detto che avevi fatto sega» butto lì dopo un po', lui si acciglia e risponde con un 'ah'. «Gli ho detto che si sbagliava e lui ha detto che l'ho presa troppo sul personale. Mi chiedo se lui non lo farebbe, col suo migliore amico»
Alex annuisce e ci rimugina un po' su, poi mi guarda. «Non credo ce l'abbia, un migliore amico» nota.
«Be', può anche darsi» scrollo le spalle, indifferente «in effetti è simpatico quanto un'anguilla nelle mutande».
«Sei una bestia» commenta scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo, mentre io continuo a giocherellare con una penna, lo sguardo perso davanti a me e la sua risata genuina che mi rimbomba in testa. Mi sento in un altro mondo, come se avessi appena fatto un viaggio di cinquecentomila chilometri in una manciata di secondi, solo con la mente però.
«A parte questo, Bassam, che mi dici?» fa quindi lui, costringendomi a tornare nella sua stanza.
«Niente di che William, se non che non devi chiamarmi Bassam» ribatto, abboccando all'amo come mio solito.
«D'accordo, non ti chiamerò Bassam, ma a una condizione» riprende, mi vede annuire distrattamente e continua: «Mi devi dire che cazzo ti succede, perché quando sei assorto non è mai per caso». Mi guarda con quei suoi occhioni enormi color gelso bianco e non abbassa lo sguardo, deciso come ogni volta che sa di fare la cosa giusta, e rimane così, immobile, finché non sospiro, scuoto la testa e abbasso le spalle in segno di resa. A quel punto il mondo riprende a esistere.
«Huhh, in realtà non so come cominciare» biascico controvoglia, alzando le sopracciglia e guardando qualcos'altro.
«Be', l'inizio mi sembra un ottimo punto» m'incalza Alex, abbozzando un sorriso leggero. La battuta mi scivola addosso; mi alzo e mi vado a sedere sul letto accanto a lui, lui si fa da parte e lascia che mi sdrai al suo fianco, docilmente, senza insistere ulteriormente al riguardo. Sa che gliene parlerò, ma non vuole mettermi fretta. Per qualche secondo nella stanza aleggia il silenzio, ma un silenzio ovattato, piacevole, non un silenzio pesante e fuori posto; uno di quelli che ti coccolano quando non hai le parole per esprimerti e senti addosso la pressione del momento, uno di quelli che ci sono spesso fra noi e che mi danno l'opportunità di sentire il suo respiro infrangersi contro la mia pelle, quando ci troviamo abbastanza vicini. Vivrei di questi silenzi, mi ricaricano come poche cose e mi riempiono di pace e tranquillità, sensazioni che raramente riesco a trovare nella mia vita quotidiana, lontano da casa Gaskarth. Secondo me si fanno di qualche strana droga poco famosa o s'iniettano incenso e tisane direttamente in endovena, perché sono sempre placidi e rilassati, pronti a ridere e a prendere sottogamba le situazioni più ansiolitiche; non è assolutamente normale. Però forse non sono loro a iniettarsi la roba, forse tengono delle candele speciali accese tutto il giorno e tutta la notte così che tutta la casa sia impregnata della loro allegria, perché quando vengo qui mi sento meglio anch'io e i miei problemi si ridimensionano notevolmente, quindi devo essere anch'io sotto l'effetto di questa strana sostanza di cui non riesco a identificare la composizione. Ma sì, okay, sto divagando e non va bene, non ora che Alex si aspetta un bel resoconto fatto per bene e la mia testa è più vuota di.. di.. più vuota del cartone del latte che ho lasciato in frigo stamattina, ecco. Ma non è questo il punto, ho divagato ancora, il punto è che non ci sono parole per dirgli quello che provo e che, porca puttana, ho le spalle al muro.
«Huhh» borbotto un'altra volta, e lui si gira a guardarmi con quei suoi occhi enormi e pieni di buone intenzioni. Urgh.
«Io... credo di essermi tagliato durante le vacanze» butto lì, cercando di farla sembrare come una cosa di poco conto. Lo sento sussultare tra i denti serrati e fisso ancora più intensamente il pavimento alla mia destra, improvvisamente diventato la cosa più interessante dell'universo. Non so come continuare il discorso, già non avevo idea di come aprirlo, figuriamoci di come portarlo a termine, soprattutto con lui accanto che mi sonda il cervello con lo sguardo. Porcoddue, Jack.
«E, huhh, non... non credo mi abbia fatto schifo» continuo, spostando lo sguardo verso la base della sua scrivania, «ma allo stesso tempo non sono sicuro che mi abbia aiutato in qualche modo... Mi ha svuotato la testa, che fa sempre bene se sei costretto a convivere con il mio cervello ventiquattr'ore su ventiquattro, ma non mi ha fatto sentire accettato, non mi ha fatto sentire come se qualcosa fosse effettivamente migliorato, quindi non credo sia stato davvero utile». Annaspo per trovare le parole ma è dannatamente difficile, vorrei alzarmi e andarmene lasciando tutto in sospeso, ma la presenza di Alex al mio fianco mi tiene incatenato al letto e mi costringe a proseguire. Deglutisco.
«Però quando mi sono disinfettato il braccio ed ho disinfettato il coltello prima di affondarmelo nella carne mi sono sentito come se avessi la situazione in mano - che è anche vero se ti fermi a pensarci - e, non lo so, mi sono sentito bene. Sapere che ho ancora il controllo su qualcosa che mi riguarda, su qualcuno dei miei sentimenti e su una parte del mio cervello mi ha fatto sentire più... normale, comune, come se non ci fosse niente di sbagliato in me» mormoro.
«Non c'è nulla di sbagliato in te» ribatte Alex, io lo guardo e distolgo lo sguardo subito dopo, senza riuscire a sostenerlo.
«Non è quello che mi dicono i sogni» rispondo, «ma grazie. Il pensiero conta».
Sento che mi stanno salendo le lacrime e cerco di mandarle via; ci manca solo questa. Alex se ne rende conto, fa guizzare lo sguardo in giro, poi si sporge e mi abbraccia, appoggiando la testa sul mio petto e deglutendo. Oh, Dio.
«Jack, tu sei fantastico, non c'è nulla che sbagli» mi sussurra, guardandomi dal basso. Sembra profondamente addolorato.
«Non lo so, Alex» commento scuotendo debolmente la testa, «un secondo me lo dico anch'io, il secondo dopo sono per terra con la testa tra le mani a piangere come un deficiente perché le voci mi dicono che non ne faccio una buona. Io ce la metto tutta, cerco di guardare tutti i miei lati positivi e tengo il conto delle buone azioni che faccio ogni giorno, ma il mio inconscio conosce tutti i passi falsi che ho fatto e supera le mie liste di tantissimo senza il minimo sforzo. Io mi piaccio, in linea di massima, ma è tutto così...» mi stringo la testa fra le mani «non lo so. Confuso. Caotico, direi; non ci capisco nulla di nulla. Ho paura di essere incinto, ho degli sbalzi d'umore pazzeschi» termino, ridendo nervosamente per scacciare la tensione che si è venuta a creare. Alex mi scruta preoccupato e non so come sentirmi. Da una parte sono sollevato perché mi sono levato il peso dal petto, dall'altra mi prenderei a schiaffi perché le cose che ho detto ho già smesso di sentirle o le ho espresse male, come ogni volta che provo a parlare dei miei sentimenti, e la cosa mi lascia sempre un po' deluso.
«Senti 'lex... non preoccuparti. Davvero. È che è un periodo un po' così e non mi sono sentito capace di fare nient'altro se non quello, ma so che è sbagliato e vedrò di tenermene lontano nei prossimi tempi» chiarisco. Lui tace.
«Rimani a dormire qui, oggi» dice finalmente, con un tono dolce ma che non ammette repliche, e io annuisco. Rimango lì in silenzio, con Alex accoccolato contro il petto, e respiro, flebilmente, di nuovo libero di perdermi nell'infinito che si nasconde oltre l'armadio del mio amico. Sento il suo calore su di me e comincio istintivamente a giocherellargli coi capelli, lui chiude gli occhi e sorride piano, allentando la tensione dei muscoli. Messo a voce, il mio problema non sembra neanche poi così grave, e nel pronunciare l'ultima frase mi sono sentito diverso, come se credessi davvero in ciò che ho detto. Che poi è anche vero, ho abbastanza cazzi per la testa di mio e l'ultima cosa di cui ho bisogno è crearmi un altro problema da solo, senza contare che comunque non voglio continuare a ferirmi inutilmente e mettere in ansia pure Alex per qualcosa che non può aiutarmi in nessun modo. Ma è sbagliato anche solo dire che voglio smettere; voglio dire, quando mai ho cominciato? Tre tagli non sono tagliarsi, tre cicatrici non sono un segno indelebile, un cuore infranto non è perduto per l'eternità, sono tutte cose a cui si può rimediare e a cui rimedierò presto, giusto il tempo di stabilizzare i miei sentimenti. Distolgo lo sguardo dal muro e osservo Alex, che nel frattempo si è addormentato e soffia silenziosamente sul mio petto, le iridi che si muovono freneticamente da sotto le palpebre chiuse. Sorrido e gli lascio stare i capelli, spostandogli i ciuffi dal viso, rimango in silenzio per un po' e mi volto verso la porta quando questa si apre, dopo il bussare delicato di sua mamma.
«Tutto okay, ragazzi?» domanda, infilando la testa dentro. Sorride alla vista del figlio e m'invita a uscire con un gesto della testa, per poi chiudersi gentilmente la porta alle spalle quando la raggiungo davanti alla tromba delle scale.
«Siete riusciti a studiare un po'?» chiede premurosamente, cominciando a scendere.
«Non molto, a dir la verità» rispondo, seguendola in salotto e poi in cucina. Si siede su una sedia e mi fa cenno di imitarla, ma quando prendo posto si alza e si dirige verso la credenza, dalla quale tira fuori due bicchieri azzurri. Si avvicina al frigo e apre l'anta, indugia un attimo e poi si volta verso di me, per ricevere conferma della mia solita bevanda, così sorrido e lei tira fuori del succo d'arancia e una bottiglia di latte. Torna da me, mi versa del succo e si riempie il bicchiere di latte, poi incrocia le gambe e sospira, soddisfatta dalla sua pausa di metà pomeriggio.
«State lavorando a qualche nuovo progetto?» domanda con un interesse spontaneo che l'ha sempre caratterizzata.
«Ho qualcosa in mente ma preferisco aspettare che guarisca prima di proporglielo» ammetto, scuotendo la testa.
«Approvo» annuisce, dando un altro sorso al suo latte, «ora come ora Alex ha il cervello completamente in pappa. Spero sia la febbre e che non si sia innamorato di un'altra, le sue ragazze sono così poco cordiali quando me le presenta». Tacciamo e beviamo un po' in silenzio, poi lancio un'occhiata al forno e noto il suo grembiule buttato a casaccio sul piano.
«Cucinato qualcosa?» chiedo, indicando col mento le ciotole infarinate che emergono dal lavello.
«Assolutamente sì» esclama, «ricetta speciale. In realtà è la prima volta che la sperimento, però ho seguito tutte le istruzioni alla lettera e penso sia venuta alla grande. Ti va di fermarti a cena e provarla?»
Mi piace la sua spontaneità, è difficile non volerle bene. «Perché no, tanto mi aspettava un'altra serata di pizza e TV».
La mamma di Alex è una creatura minuta, pallida, con gli stessi spinaci incasinati che caratterizzano tutta la famiglia, ed è una persona con cui è facile parlare, anche se non ci condividi praticamente nulla. Le viene naturale cercare sempre un argomento che possa interessare entrambi e in questi anni non è mai capitato che se la prendesse con me per qualcosa che aveva combinato suo figlio, suo marito o il suo capo. Non penso di averla proprio mai vista arrabbiata, a dire la verità, ma so che può essere molto decisa quando vuole: quando eravamo piccoli, io ed Alex eravamo delle vere calamità su due piedi, e visto che mia madre passava la mattina presto e ci portava a scuola, a venirmi a prendere erano i genitori di Alex. Arrivavamo a casa sua, facevamo merenda con le prime vaccate che trovavamo nella parte bassa della credenza e poi sfrecciavamo fuori alla velocità della luce, per goderci il più possibile quei pomeriggi e fare i giochi più pericolosi che ci venissero in mente; poi quand'eravamo troppo esausti per continuare a correre e fare la guerra al prossimo, rientravamo e ci sbracavamo sul divano a guardare i cartoni animati. Il problema si poneva quando fuori pioveva, tirava vento o c'era un brutto tempo in generale e ci era quindi vietato stare all'aria aperta: potete benissimo immaginare di cosa sono capaci due ragazzini irrequieti abituati a poter contare su spazi aperti e che per divertirsi si prendono regolarmente a botte che di punto in bianco vengono rinchiusi in una casa sì a due piani, ma comunque considerevolmente più piccola e piena di mobili rispetto al giardino in cui stanno sempre. Aggiungete a questi due ragazzini e all'ambiente sfavorevole una bella quantità di zucchero, bevande frizzanti e cartoni ultra-violenti, dategli qualche giocattolo con cui creare delle storie e bam, avete un salotto distrutto assicurato. Mia madre c'avrebbe sbroccato come una pazza per ore, facendoci sentire le peggio merde del pianeta, ma la mamma di Alex si è limitata a raccogliere i cocci, buttarli nella spazzatura, tornare da noi e dirci di non farlo mai più, ma con un tono così serio e autoritario che né io né lui abbiamo più trovato il coraggio di spaccare qualcosa nella sua bella casetta. Insomma, è sempre stata una donna tutta d'un pezzo, e credo che poche persone si sarebbero accollate la responsabilità di badare ad un ragazzino in più, specialmente appena arrivate in città da un altro paese, quindi ai miei occhi è il triplo più determinata di tutte le altre mamme che conosca. Ma credo che il miglior tratto di lei sia che non si è mai rassegnata con me: si è sempre mostrata gentile, aperta, pronta a prestarmi un pigiama e ad invitarmi a cena nei momenti in cui i miei tardavano e io vagavo da solo per la casa senza sapere cosa fare; non si è mai lamentata quando mi presentavo da loro agli orari più assurdi, anche durante le vacanze, per fare un salutino ad Alex e passare qualche ora con lui, né tantomeno si è mai arrabbiata con me perché facevo troppo casino e non stavo fermo un attimo, contagiando pure suo figlio con la mia iperattività. Per me è una donna grandiosa; se dovessi scegliere mia madre nella prossima vita, senza alcun dubbio la mia scelta ricadrebbe su di lei. Specialmente se come fratello avessi Alex.
«Dì un po' Jack, tu non hai niente da raccontarmi? Niente gossip, niente cose piccanti?» domanda sornionamente dopo un po', accavallando le gambe e posando il mento sulle dita intersecate tra loro, senza traccia di malizia nella voce.
«Zero via zero, il buon vecchio Jack non interessa alle ragazze» rispondo, evitando in parte la domanda. Stringe le labbra.
«Dici davvero? Mi sembra piuttosto strano, non sei mica brutto» commenta.
«Mi sa che sono troppo per gli standard della mia scuola, se fossi da un'altra parte mi salterebbero addosso» scherzo.
«Non ci allarghiamo» ridacchia lei, socchiudendo gli occhi e riaprendoli alla sua destra. «Guarda che tempo... se foste stati un minimo più piccoli, tu e Alex sareste schizzati fuori e chissenefrega della febbre. Vi state rammollendo, ragazzi».
«La vecchiaia incombe, signora mia, l'artrite non mi permette più di prender parte a certi futili giuoghi da infanti» ribatto.
«Ma come te ne esci?» esclama lei corrugando le sopracciglia, un sorriso aleggiante sulle sue labbra fine e rosse. Si alza per andare a portare i bicchieri nel lavello e la seguo docilmente, anche se il mio non si trova più a tavola, e osservo con attenzione la precisione con cui mette a posto tutto. Un bip-bip preregistrato ci annuncia che la lavastoviglie ha terminato il suo ciclo e la apro automaticamente, cominciando a mettere i piatti nel ripiano alto della credenza di vetro, poi passo ai bicchieri e alle posate. La mamma di Alex nel frattempo se n'è andata e mi sento un po' un deficiente a fare i lavori a casa sua senza neanche la sua presenza accanto, ma visto che ho cominciato tanto vale finire. Lancio un'occhiata all'orologio e vedo con stupore che è passata quasi un'ora da quando sono sceso al piano terra, ma non mi scombussolo più di tanto e porto a termine il mio lavoro in un paio di minuti, tranquillo.
«Ehi Jack, dì un po', te lo ricordi questo?» mi sento chiamare dall'altra stanza. Mi affretto a raggiungerla e la trovo seduta sul divano con in mano una scatola di metallo piena di graffi e adesivi mezzo strappati che non vedevo da anni.
«Eccome se me lo ricordo» ribatto, sedendomi al suo fianco. Quando eravamo piccoli avevamo trovato questa scatola, che all'epoca era di un bel blu elettrico, in garage e l'avevamo ribattezzata come nostra scatola dei ricordi, e per tutti i mesi dell'estate avevamo continuato a metterci dentro tutto ciò che ci sembrava speciale e che non volevamo finisse sotto gli occhi degli adulti. Non pensavo l'avesse conservata, così quando la prendo in mano mi batte un po' il cuore.
«Quanti anni sono passati?» sorride lei, socchiudendo dolcemente gli occhi, «Sei? Sette?»
«Sette e quattro mesi» rispondo sovrappensiero, le dita che accarezzano la chiusura della scatola. «Però è la scatola dei segreti, non posso fartela vedere» mi ricordo tutto d'un tratto, per poi pensar subito che ormai doveva conoscerla come le sue tasche, visti gli anni in cui era stata dispersa, e arrossire lievemente tra me e me. Lei ride, cristallina.
«Hai ragione, vorrà dire che aspetterò altri sette anni e quattro mesi prima di aprirla con i vostri nipotini» scherza, poi si alza, si alliscia la maglietta e se ne va un'altra volta, senza lasciarmi tempo per ribattere.
«Cosa intendi con 'i vostri nipotini'? Procreare a ventitré anni è rovinarsi la vita» esclamo di rimando, e la sento ridere.
«Procreare è migliorarsi la vita, Jack» ribatte dall'altra stanza, «quando sarai grande capirai cosa intendo».
«Temo passerà molto tempo prima che io lo faccia allora» constato, pensando che comunque, oltre a non aver un cazzo di successo col mondo femminile, sono pure innamorato di un maschio, quindi campa cavallo che l'erba qui è na foresta.
«Non essere così negativo, secondo me qualcuno che ti accetterà tutta la vita lo troverai presto» insiste, tornando.
«Anzi, secondo me potresti già averlo trovato. Quanta gente c'è a scuola vostra? Milleduecento, milletrecento persone? E vuoi dirmi che in mezzo a loro non c'è uno straccio di qualcuno che riesca a farti pensare al vostro futuro assieme?»
«Be', oddio, non l'ho mai vista sotto questo punto di vista» ammetto, accigliandomi «ma credo che la risposta continui a essere 'no, mi spiace, non ho intenzione di seppellirmi sotto cacca e pannolini entro i prossimi vent'anni'»
«Sei impossibile» scuote la testa lei, ma con positività «vedrai che presto incontrerai qualcuno che ti farà cambiare idea e che cambierà completamente la tua visione del mondo; e quando succederà, vedremo chi aveva ragione»
«Affare fatto» dico, porgendole la mano «ma chi perde paga pegno».
Mi da' uno scappellotto sulla spalla come a dire 'ma non puoi mai essere serio tu?', poi sorride e me la stringe con forza.
«Va bene, sfida accettata. Ma vedrai che sarai tu ad ammettere di aver avuto torto, Barakat» commenta, decisa.
«Continua a sperarci» ribatto, poi ci alziamo e ci separiamo per far scena. Ho già detto che amo quella donna?


 Alex non scende a cena. Suo padre è fuori città per lavoro, quindi io e sua madre mangiamo da soli, il silenzio rotto solo dall'eco ovattato della televisione, accesa più per riflesso che per effettivo interesse – il papà di Alex guarda sempre il telegiornale quando cenano, così si tiene informato su tutto ciò che affligge il mondo e il giorno dopo può permettersi di leggere il giornale e distrarsi un po', se ha qualche affare importante per le mani e non riesce a concentrarsi come vorrebbe sulle notizie – e a essere sinceri la cosa mi fa sentire solo da morire. Il piatto speciale della mamma di Alex non è poi così eclatante ma la riempio di complimenti lo stesso, cosa che lei sembra apprezzare di buon grado; finiamo di mangiare e ci separiamo discretamente, senza sottolineare troppo la cosa. Torno in camera del mio amico, apro il secondo cassetto dell'armadio a muro e tiro fuori una sua maglietta; mi sfilo la mia e mi cambio, poi vado in bagno e tiro giù dal mobiletto il mio kit «nottata fuori programma», provvisto di uno spazzolino e un paio di vestiti puliti. Mi lavo i denti sovrappensiero e torno di là, sistemo i vestiti sulla sedia davanti alla scrivania e mi siedo sul materasso accanto a lui.
Alex è di una carineria assurda quando dorme. Mi dispiace quasi per chi non ha mai avuto l'opportunità di vederlo: io mi fermo a dormire a casa sua una volta alla settimana da tipo otto anni, e prima capitava che mi fermassi ancora più spesso, eppure non c'ho ancora fatto il callo. E lo dico oggettivamente, è una cosa che penso da sempre, da molto prima che m'innamorassi di lui; Alex che sogna è la cosa più bella del mondo e non puoi non pensarlo, che tu sia etero, gay, lesbica o una talpa. È semplicemente fantastico, non so neanche come descriverlo; mi manda gli ormoni in pappa, porca paletta, e non sono un tipo che normalmente si emoziona a guardare gli altri dormire, quindi potete benissimo immaginare come stia messo e perché mi stia sforzando così tanto di ricordare gli elementi della tavola periodica, di cui non mi è mai importato un accidente e di cui non mi servirò mai e poi mai nella mia vita futura. Oddio, vorrei poter urlare.
Il bello di avere come amico Alex, è che non s'imbarazza mai di niente se lo conosci da un po'; dorme con te, si fa vedere nudo da te, ti confida i suoi problemi, ti lascia fare tutto ciò che vuoi a casa sua, si fida di te come di pochi, a momenti ti regala perfino le chiavi della porta d'ingresso col permesso di usarle ogni volta che ti gira. Non conosco nessun altro come lui, è completamente fuori eppure è sempre cosciente di sé; non credo abbiano ancora inventato un termine adatto a descrivere le persone come lui, ma detto sinceramente a me basta il suo nome per descriverlo e sentire scariche elettriche invadere le mie vene. Non lo so, è come se al suo nome fosse collegato un sistema d'elettrodi che perdono il controllo ogni qualvolta una persona parla di lui o di qualcosa che gli piace; tipo un antifurto che scatta quando qualcun altro si permette di rigirarsi il suo nome fra i denti e farlo suo per una manciata di secondi: se viene tenuto nascosto troppo a lungo mi allarmo e attivo un qualsiasi sistema di difesa che gli faccia cambiare argomento, senza però dare a vedere il motivo della mia preoccupazione. Insomma, in mezzo ai problemi e alle stramberie anche il sottoscritto è un ingranaggio che funziona a dovere in questo universo contrastante che è Baltimora e i suoi giovani abitanti, e anche se ogni tanto crollo, l'amore mi porta sempre a galla e mi rimette al timone di questo dannato casino che è la mia vita. E già che parliamo di vita, possiamo fare un altro sbarco sulle spiagge dell'anima più importante dell'intero oceano e rimettere i piedi per terra, visto che Alex sta cominciando a svegliarsi e fra pochi secondi mi spingerà accanto a sé, come tutte le altre volte. Non riesco a ricordarmi com'è cominciata questa tradizione, però dormiamo insieme da sempre, abbracciati uno all'altro come se fuori imperversasse una tormenta e noi fossimo smarriti tra i ghiacci più remoti della Siberia, protetti solo dal calore dei nostri corpi pressati guancia contro guancia; ma credo che sia cominciato tutto quando eravamo davvero piccoli e crollavamo più o meno in contemporanea davanti alla TV: la mamma di Alex ci notava, spegneva l'apparecchio, si tirava su le maniche e ci prendeva in braccio assieme, poi saliva le scale con qualche sbuffo, ci posava sul letto e ci toglieva i pantaloni, sempre macchiati dalle zolle di terra e fango, e ci sistemava sotto le coperte, a volte con una maglietta, a volte senza. Alex allora cominciava a tremare e cercava la mia mano nel dormiveglia, mugolando finché non la trovava; a quel punto la stringeva e se la portava accanto al viso, respirandoci flebilmente sopra, mentre io rotolavo verso di lui e sistemavo la testa nell'incavo del suo collo, senza poi spostarmi fino alla mattina successiva. Ci svegliavamo come se non fosse successo nulla e ci lanciavamo giù per le scale, irrompendo in cucina con la stessa foga di chi non mangia da anni un pasto decente, e la signora Gaskarth sorrideva, mettendo il latte a tavola. A me piaceva riempire la tazza di latte e appoggiarmi con la testa sul palmo a osservare i cereali che scricchiolavano, gonfiandosi sempre di più, mentre Alex preferiva metterci anche del cacao in polvere e inzupparci dentro i biscotti, riempiendo tutto il tavolo di macchie e briciole. Non finivamo mai le nostre colazioni, scappavamo sempre a giocare dopo qualche cucchiaiata; però è un ricordo a cui penso con molta felicità quando metto piede in questa casa. Anche se, in effetti, ogni ricordo qui è più che felice.
«Jack» mugola Alex come previsto, tastando il materasso accanto a me per cercarmi «vieni a letto».
Lo scavalco cercando di non cadergli addosso e scivolo sotto le coperte in silenzio, tirandomele su fin sopra il collo; lui mi concede mezzo minuto, poi decide che ha aspettato fin troppo e rotola dalla mia parte, prendendomi la mano nella sua.
«Vedi di guarire presto» mormoro, lui socchiude gli occhi e sorride, sornione. Intreccia le dita con le mie.
«Lo sai, insieme siamo imbattibili» commenta pacatamente, poi chiude gli occhi e appoggia la guancia sulla mia mano, addormentandosi nuovamente. Scotta contro la mia pelle, probabilmente ha avuto una ricaduta e la febbre si è alzata mentre io ero giù, e aspettava me per abbandonarsi definitivamente al mondo dei sogni. Gli sposto una ciocca dagli occhi, delicatamente, e gliela sistemo dietro le orecchie, ripetendo il gesto qualche altra volta per rilassarmi e permettere alla mia mente di divagare come suo solito, quando le ombre emergono dai loro nascondigli, ma stasera non riesco a concentrarmi su niente che non sia la mia vita. Ma non macroscopicamente, sarebbe troppo comodo; stasera tutto ciò su cui riesco a concentrarmi è qualche spezzone di vita quotidiana ben definito e allo stesso tempo opaco, che dovrebbe avere un qualche significato che non sono ancora riuscito a cogliere ma che invece è di viscerale importanza per me e ciò che mi circonda; e devo ammettere che la cosa mi lascia un po' inquieto. Mi capita spesso di pensare a cose a cui non so dare una risposta, o a cose di cui ho paura anche solo a immaginare la soluzione, ma in genere quando lo faccio sono solo e ho le stelle sott'occhio. Invece in questo momento sono in compagnia del primo ragazzo che abbia mai amato, in una stanza quadrata con le tapparelle tirate e una TV accesa in lontananza e mi sento strano, come se non avessi capito fino in fondo qualcosa che invece dovrei aver capito tanto tempo fa, e il suo respiro continua a infrangersi ritmicamente sulla mia pelle, distraendomi ogni due secondi e impedendomi di ragionare lucidamente. Mi è capitato più volte di pensare che Alex mi ricambiasse, anche in minima parte, ma ogni volta sono stato costretto a ricredermi quando mi presentava la sua nuova improvvisa fiamma, ma a volte mi chiedo cosa succederebbe se prendessi davvero coraggio e mi dichiarassi. Non è il tipo che mi sputerebbe in faccia, mi urlerebbe di portare il mio culo da frocio fuori da camera sua e di non farmi più vedere fino alla fine dei miei giorni, ma non è neanche il tipo che rimarrebbe impassibile, del tipo 'okay, va bene, vedremo cosa farci. Ora possiamo riprendere il progetto di chimica per favore?'. Più volte mi sono immaginato una sua eventuale reazione, ma ogni volta che lo faccio, la risposta cambia - vuoi a causa del mio umore, vuoi a causa del tempo, vuoi a causa di una sua qualsiasi frase, vuoi a causa della quantità di zuccheri presenti nel mio sistema, vuoi a causa della sua rottura con qualche ragazza, a causa di qualsiasi cosa insomma - e finora non sono mai arrivato ad una conclusione soddisfacente, sebbene ne abbia elaborate decine. Non ho mai chiesto a Zack cosa ne pensi e tantomeno ho intenzione di farlo; un conto è dirgli che mi sono preso una bella cotta per Alex, un'altra è andare lì da lui, ammettere i trentamila complessi che mi faccio ogni giorno e mettermi a smontarli uno a uno, col rischio di rafforzarne qualcuno e farmi vedere più vulnerabile di quanto voglio che la gente mi veda. Va bene, okay, ho una cotta praticamente senza speranza, ma parlare di quanto mi piaccia non migliorerà le cose in nessun modo, tanto meno farà aprire gli occhi ad Alex, quindi perché abbassare la guardia e farlo? In realtà non so neanche perché mi sia confidato, visto che comunque non mi sento meglio di prima e non ho mai pensato che qualcosa sarebbe potuto cambiare, ma egoisticamente parlando, penso di averlo fatto perché, nel remoto e assurdo caso in cui io riesca a aprirmi con lui e rivelargli ciò che provo, e lui confermi i miei sentimenti con un bacio, allora nessuno dei ragazzi potrà dire 'cazzo, ma perché nessuno ci ha detto niente?' e mettere su il muso. Lo so, sono una merda, ma d'altra parte che bene mi porta lasciare che sappiano che sono innamorato perso di un ragazzo etero e costantemente mezzo impicciato con qualche gnocca di questa o quella scuola? Mi umilio e basta, alla fine. Anzi no, 'umilio' no, nessuno può umiliarsi nell'innamorarsi di Alex Gaskarth, semmai viene investito da una luce speciale e assume un aspetto completamente diverso agli occhi di tutti; ma il senso è che già non godo poi di tutto questo appoggio, figuriamoci se si spargesse la voce che sono innamorato di un ragazzo che non solo è il mio migliore amico, ma che non mi caga neanche di striscio. Cioè, dai, mi chiuderei da solo il coperchio della bara dopo essermi scavato la tomba, gettato contro dei fiori e fatto la cerimonia da solo, interpretando sia il prete che i miei genitori e gli altri quattro gatti che vi presenzierebbero. Una fine insignificante di un ragazzo poco determinante. Ma quando mi giro e guardo Alex negli occhi non posso non pensare che andrà tutto bene, che anche se non mi ricambiasse mi rimarrebbe comunque accanto, e che in fin dei conti male non può finire. Mi fa sentire a casa, come se mi trovassi nel posto giusto nel momento giusto, e non mi da' mai l'impressione di non volermi tra i piedi, come invece succede con i miei genitori; ha sempre pronto un sorriso per me e non esita mai se gli dico che non mi sento bene: esce dalla finestra, salta sul ramo e scende dalla casa sull'albero per non incappare in sua madre e si fa di corsa la sua strada fino al semaforo, dove lo aspetto con un'enorme tazza di cappuccino in mano e gli occhi gonfi di gratitudine. Ogni volta che compare sono la persona più felice del mondo, ma non credo lo capisca fino in fondo - voglio dire, fino a qualche paia di mesi fa non l'avrei capito davvero neanche io, eppure ora un suo sguardo è tanto importante quanto un weekend senza lavoro con i miei genitori, e per me i miei sono una cosa importantissima. Non lo so, è come se Alex avesse occupato con la sua perfezione ogni spazio vuoto del mio animo, spingendomi a vedere il bicchiere né mezzo pieno né mezzo vuoto, ma completamente pieno di positività e affetto da parte sua, che in ogni periodo del giorno c'è sempre stato; e se mi fermo un attimo a pensarci è una cosa che mi da' i brividi. In questi anni è diventato così essenziale per me che la cosa quasi mi spaventa. Dovrebbero benedire chi l'ha inventato. E anche se praticamente tutte le mie serate si concludono con questa riflessione, non riesco a non sorridere come uno scemo ogni volta che ci penso e realizzo che non importa quale sia il mio umore, cosa mi sia successo durante la giornata o cosa mi abbiano detto i miei compagni di corso, alla fine Alex è sempre la cosa più importante della mia vita e senza di lui niente sarebbe più lo stesso. Per questo poi quando mi dorme accanto mi sento così strano: è a pochi centimetri da me, è più vicino di quanto decine di altre persone potrebbero mai sperimentare nella loro vita, ed è abbracciato alla mia dannata mano, non a una ragazza, non a un cuscino, ma alla mia mano, alla mia stupida, magra, irrilevante mano; e c'è avvinghiato seriamente, con amore, non avvinghiato così, tanto per; c'è avvinghiato con forza perché vuole starci avvinghiato e rimanerci tutta la notte, non solo ora che ha bisogno di addormentarsi. C'è qualcosa di magico in questo, c'è qualcosa di magico in lui, e a volte mi chiedo se standogli così accanto non riesca a diventare magico anch'io, giusto quel che basta perché mi noti, perché mi dica ehi, Jack, sai che oggi i tuoi capelli sono proprio una figata, perché mi sorrida col cuore pensando a quanto cavolo significhi per lui e quanto cavolo starebbe male senza di me, perché mi guardi negli occhi, mi prenda il viso fra le mani e...
Porca miseria, mi sono addormentato un'altra volta. Quando faccio questi pensieri non so mai quando sono lucido e quando invece sono già crollato - in genere distinguo le due cose solo al risveglio, quando la realtà mi prende a pesci in faccia e mi ricorda che sono sì un innamorato, ma non un ricambiato, e che questi castelli in aria mi feriscono più di quanto creda - e anche quando mi sveglio non è che sia poi così diverso. I frammenti del sogno interrotto mi si sovrappongono alla visione normale, creando accostamenti surrealmente belli che mi fanno venire la pelle d'oca e intrecciare lo stomaco, e quando mi volto a guardare Alex ho sempre l'impressione che sappia che l'ho sognato ma che taccia per mantenere vivo il nostro rapporto, ma anche se l'illusione svanisce appena i sensi riprendono il controllo, forse è davvero così, forse si è davvero accorto di qualcosa e me lo nasconde perché mi vuole troppo bene per perdermi. Mi tiro su e mi appoggio coi gomiti per il poco che mi è concesso, visto che Alex è ancora attaccato alla mia mano, respiro, chiudo gli occhi e mi concentro su ciò che mi circonda, rilassando i muscoli. La camera di Alex ha un odore speciale, un misto fra quello dolce del ragazzo che la occupa, il mio e quello delle decine di libri e CD che sovrastano tutto dall'alto della libreria, squadrando chiunque metta piede nel loro regno e comunicandogli un senso di familiarità e calma caratteristico del loro proprietario. Espiro silenziosamente e mi rimetto giù, chiudendo nuovamente gli occhi; lascio vagare i pensieri e mi concentro sul ticchettio dell'orologio del bagno, che ha una cadenza soffice e regolare, udibile solo quando dentro tutto tace; e per un po' di tempo faccio finta che il resto del mondo non esista. Una ventina di minuti dopo, Alex si sveglia.
Mugola qualcosa d'incomprensibile, si stropiccia un occhio con la mano libera e lascia ciondolare le dita davanti al volto per un paio di secondi, prima di ritrarle e voltarsi verso di me. Dal canto mio, ho chiuso gli occhi appena in tempo e ho visto abbastanza video con me che dormo per essere perfettamente in grado di riprodurre il lieve russare che mi caratterizza quando non sto affrontando un incubo; così appesantisco un po' il mio respiro, rilasso il più possibile i muscoli e continuo con la mia messinscena. Alex tace, sento il suo sguardo appannato bucarmi la pelle e la cosa mi mette leggermente a disagio; sfila le sue dita dalle mie e si tira un po' su, staccando il suo corpo dal mio. Probabilmente deve andare in bagno, penso, ma non sento il materasso sollevarsi e mi rendo conto di essermi sbagliato, rimanendoci male per la mano. Ma chi lo sa, forse sto sudando come un maiale e non me ne rendo conto perché non posso toccarmi dall'esterno, e in questo caso è meglio che si sia staccato, così almeno domattina non si sveglierà madido di sudore e io potrò evitare di vergognarmi come un cane. Emetto un verso giusto per fargli sapere che nel mio sogno è accaduto un imprevisto ma non mi muovo, rannicchiato con la mano sul suo cuscino, in attesa del suo ritorno, e lo sento respirare lentamente, a quello che sarà un terzo di metro di distanza. Forse ha un attacco di nausea o mal di pancia, dopotutto ha la febbre e non è neanche venuto a mangiare un boccone prima; forse dovrei smetterla di fingere e andargli a prendere una pasticca giù in cucina così che possa sentirsi meglio; ma l'unica cosa che faccio è aspettare e rilassare ancora di più i muscoli, concedendomi il lusso di aspettare la sua prossima mossa prima d'intervenire in qualche modo, ma la cosa non sembra dispiacergli. Seduto sulle ginocchia, respira e tace, avvolto da un manto di silenzio e sogni interrotti; tace e aspetta qualcosa, ma cosa non lo posso sapere. Aspetto cinque minuti poi apro gli occhi, magari sta proprio male. Sposto lo sguardo su di lui e incontro il suo, vivo, profondo, pieno di mistero e sicurezza; rimaniamo a fissarci per un po' senza dire nulla, poi si alza e va in bagno. Io rimango fermo. Ho la pelle d'oca e solo quando è fuori dal mio campo visivo mi permetto di cominciare a tremare. Il mio cervello è scomparso, non riesco a pensare a nulla e nulla riesce ad attirare la mia attenzione; rimango immobile e attendo, sciogliendomi dentro l'ambiente circostante; attendo e rimango immobile, deglutendo. Quando torna si corica al suo solito posto senza dire una parola, guardando verso il muro, si tira la coperta fin sopra la spalle e poi l'abbassa, porgendomi la mano. La stringo in silenzio e rimaniamo fermi per un po', poi è lui a rompere il mantello taciturno che ci ha ricoperti.
«Ci hai mai pensato a perché siamo sulla terra?» domanda, sistemandosi sulla schiena e girandosi a guardarmi in volto.
«Continuamente» rispondo, facendo vagare stancamente le iridi sul soffitto. Una delle cose a cui penso di più, credo.
«Io non ci ho mai fatto troppo caso» ammette francamente, spostando lo sguardo verso l'infinito, «ma ultimamente penso molto ad altro. Dì un po', Jack, distruggeresti mai qualcosa di perfetto solo per renderlo bellissimo?»
Lo guardo. «Non lo so. Perfetto non implica di per sé che quel qualcosa sia già bellissimo?»
«Dipende da cosa si parla. Un maiale può anche essere un esemplare perfetto, ma non per questo è bellissimo».
«Hai un modo molto poetico e dolce di esprimere i concetti» commento. «Allora può darsi di sì, probabilmente lo farei.»
«E se una volta bellissimo, quel qualcosa non riuscisse più a tornare come prima?» insiste, tornando a guardarmi.
«Be', me ne farei una ragione. La perfezione non esiste» ribatto, scrollando le spalle. Sembra abbastanza soddisfatto dalla mia risposta, così rimane in silenzio e rimugina per un po', mentre io respiro.
«Jack, non tagliarti più» esclama dopo un po', piantando lo sguardo sulla mia pelle. Non rispondo, perdendomi nell'infinito, lui si accoccola nell'incavo tra il mio mento e il mio petto e tace, le dita nuovamente intrecciate con le mie, dolcemente. Appoggio la testa contro la sua e inspiro il suo odore, riempiendomene i polmoni fino a farmi male; espiro silenziosamente e deglutisco, tornando a guardarlo. «Prometto» mormoro, annuendo abbozzatamente un paio di volte. Respira a fondo, sorride come un idiota e si stringe forte contro il mio petto, imprimendo la forma della sua testa su di me.
«Ti voglio bene Jack» sussurra, le labbra che mi solleticano la pelle.
«Ti voglio bene anch'io, Alex» dico, accarezzandogli i capelli. Vorrei che questo momento durasse per sempre.
«Grazie» dice dopo un po', mi lancia un ultimo sorriso, sbadiglia e chiude docilmente gli occhi, senza spostarsi. Spero solo che non si metta a badare al mio battito cardiaco, perché penso che fra un po' il sangue mi sarà pompato direttamente fuori dal torace, altro che nelle vene. Si addormenta subito e io con lui, portandomi la gioia nel viaggio.




Note: In realtà l'ho scritta come una one shot quindi non lascia in sospeso o nulla, solo che sta diventando davvero troppo lunga per essere pubblicata come un capitolo solo e non avevo altra scelta se non dividerla in più parti, quindi se rimanete un po' 'Ma che cazz', sappiate che è colpa mia fino a un certo punto ghjkg. Che poi in realtà questo capitolo potrebbe essere diviso in due per la lunghezza ma okay, è stata un impresa trovare un primo spacco vagamente adatto, figuratevi a trovarne due. Boh grazie se siete arrivati qui, vi amo tutti cwc
   
 
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