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Autore: Entreri    28/04/2013    16 recensioni
C’è sempre qualcosa di confortante nello svegliarsi durante la notte, nella lenta risalita della mente dalle accoglienti tenebre dell’incoscienza ad un corpo ancora intorpidito, avvolto da coltri tiepide; è piacevole ascoltare per qualche istante la quiete del palazzo, osservare l’oscurità attraverso le proprie palpebre chiuse, contemplando la rassicurante certezza di poter a breve sprofondare nuovamente in un sonno indisturbato.
Quella notte, tuttavia, quando mi accorsi che il mio sogno era svanito da qualche parte fra la mia anima e il cuscino, non riuscii a stringere a me le coperte con assonnata naturalezza; vi era qualcosa di diverso nella stanza, come un’attesa nel silenzio, un’aspettativa nel buio.

Storia scritta per il contest "Io ti ho creato e io ti... incontro" indetto da Slappy, che proponeva (e un po' imponeva) la tematica dell'incontro autore-personaggio.
Il personaggio di riferimento è Sorot di Besali che compare in "Amare i propri demoni. Rappacificarsi con sé stessi. Per non impazzire." Ovviamente chi dovesse leggere questa storia senza aver prima visionato l'altra si troverebbe in difficoltà con alcuni passaggi, ma credo possa essere letta anche da sola.
Attenzione, si tratta (pur con rispetto) il tema del divino.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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C’è sempre qualcosa di confortante nello svegliarsi durante la notte, nella lenta risalita della mente dalle accoglienti tenebre dell’incoscienza ad un corpo ancora intorpidito, avvolto da coltri tiepide; è piacevole ascoltare per qualche istante la quiete del palazzo, osservare l’oscurità attraverso le proprie palpebre chiuse, contemplando la rassicurante certezza di poter a breve sprofondare nuovamente in un sonno indisturbato.

Quella notte, tuttavia, quando mi accorsi che il mio sogno era svanito da qualche parte fra la mia anima e il cuscino, non riuscii a stringere a me le coperte con assonnata naturalezza; vi era qualcosa di diverso nella stanza, come un’attesa nel silenzio, un’aspettativa nel buio.

Confusa, riuscii a fatica a sconfiggere la pesantezza che gravava sulle mie palpebre fino a socchiuderle appena per scrutarmi intorno.

Sussultai, perché conoscevo la figura che mi osservava silenziosa e immobile fra le ombre della camera: non avevo bisogno di guardarlo per parlare della perfetta simmetria del suo viso, del taglio gentile dei suoi occhi azzurri, della nobile compostezza della sua postura; gli avevo dato io quell’espressione pacata, e sapevo che l’avrebbe mantenuta anche in preda alla più passionale delle emozioni, lo sapevo con la stessa esattezza con cui conoscevo ognuno dei suoi lineamenti. Nessuna delle sue fattezze, tuttavia, era mai stata tanto nitida nella mia mente quanto lo era in quel momento, mentre Sorot sedeva accanto al letto sulla seggiola presa alla mia scrivania, nello stesso punto in cui i miei genitori mi avevano vegliata da bambina, quando ero stata troppo malata per essere lasciata sola e troppo caparbia per scambiare il mio letto con il loro. Era lì ed era reale, come lo erano stati mio padre e mia madre, e se avessi allungato la mano nel levarmi a sedere avrei potuto toccarlo; confesso che non ne ebbi il coraggio. Mi strinsi, invece, nella trapunta, cercando riparo dall’impossibile fra le lenzuola di flanella, chiudendo e riaprendo gli occhi più volte con l’ostinazione disperata di chi lotti contro la follia; lui, tuttavia, non svanì mai.

Lo osservai in silenzio, desiderando vivamente che dicesse qualcosa, Sorot, però, era per natura più propenso ad ascoltare che a parlare, così continuò a scrutarmi intensamente con severa meraviglia, come se fossi stata qualcosa che aveva desiderato vedere da sempre e avesse stravolto tutte le sue aspettative.

«Come puoi essere qui?»

Mi sorrise, sospirando leggermente e seppi prima di sentirla che la sua replica sarebbe stata vaga e sfuggente, più simile a un’enunciazione di principio che a una risposta vera a propria. Era quello che faceva quando qualcosa lo tormentava, nascondersi dietro verità rilevanti solo in parte, incapace di parlare apertamente del proprio turbamento quanto di celarlo del tutto.

«È scritto nel Libro che quando moriremo incontreremo Dio faccia a faccia.»

Dischiusi le labbra per contraddirlo e negare con veemenza di essere Dio, quando mi accorsi che, se lo avessi fatto, avrei mentito: se l’uomo dinnanzi a me era reale, lo avevo creato io; se era reale il suo mondo, io ne ero l’alfa e l’omega, e non vi era altro Verbo di quello che aveva preso forma nella mia grafia minuta.

Non avevo mai desiderato tanto scappare da un’idea.

«Non sei morto davvero, non sei mai stato vivo.»

La più splendida e folle delle contraddizioni performative: “tu non esisti”; anche se l’avessi pronunciata sino in fondo, comunque, non avrebbe potuto darmi alcun conforto.

«Eppure sono qui. Eppure Galoth mi ha colpito con il bastone della lancia da caccia, sorpassando il mio cavallo a briglia sciolta, e il legno ha sfondato le ossa della mia nuca. Eppure il mio corpo si è accasciato in avanti, appoggiandosi al collo del mio stallone prima di scivolare verso il suolo, le articolazioni delle mie ginocchia si sono scomposte e il mio cadavere è stato trascinato per metri, lo stivale incastrato nella staffa, il cranio e il sottobosco a sporcarsi a vicenda di sangue e terriccio.»

Non era un’accusa, ma un’amara constatazione, una rievocazione dolente e pervasa di stanchezza che mi colpì in profondità. Sarebbe stato più facile se mi avesse affrontata gridando; l’avrei aggredito a mia volta e sarei stata capace di chiudere gli occhi di fronte alla sua sofferenza. Al dolore sommesso e dilaniante di quelle parole, invece, mi era impossibile rendermi sorda: perché quelle parole erano mie, erano quelle che avevo scelto di non usare per descrivere la sua morte, preferendo loro la drammaticità del fatto compiuto; le parole erano mie, ma la sofferenza era la sua e in quella pena straziante espressa con pacatezza rassegnata mi parvero acquisire una forza nuova, una verità che io non ero riuscita a dare loro. Visti da vicino, la sua morte e il suo dolore mi sembrarono meno romantici e lirici, più crudeli e ingiustificabili; mi parve gridassero vendetta al cospetto di Dio e fu terribile realizzare che non l’avrebbero mai avuta, perché era Dio, perché ero io, ad essere colpevole.

«Mi dispiace.»

«Tutto qui?»

Galoth avrebbe urlato così forte da farmi rimbombare la propria disperazione nelle orecchie, Sorot sussurrò soltanto e il suo bisbiglio si diffuse per la stanza, impregnando di sé il silenzio.

«Cosa vorresti sentirmi dire?»

Lo sapevo, ovviamente, perché non chiederemmo tutti la stessa cosa al cospetto di Dio?

«Perché?»

La domanda delle domande, rigettata dalla scienza, ripetuta dai bambini, gridata dai nostri cuori: perché la vita, perché il dolore, perché le persone che amavo mi hanno tradito, perché non sono riuscito ad essere felice, perché sono morto, perché il mio migliore amico mi ha ucciso?

«Non saprei risponderti.»

Era squallido e volgare, eppure era anche tutto quello che avevo da offrirgli: la confessione della mia finitezza, della mia ignoranza, la condivisione dell’imperfezione che ci era connaturata in quanto esseri umani. Sapevo, tuttavia, che lui non l’avrebbe capito né accettato, non dal proprio creatore, io non avrei mai potuto.

«Non era una domanda dappoco, non meritava una risposta dappoco.»

Gli avevo dato occhi dell’azzurro tiepido del cielo di maggio, talmente concepiti per sguardi benevoli e compresivi da enfatizzare il suo disappunto sino a renderlo un peso insopportabile.

«Non era una risposta dappoco, era una risposta sincera.»

Raccolsi le gambe al petto, stringendole fra le braccia, con l’inevitabile risultato di permettere all’aria fredda che da un pezzo mi intirizziva la schiena di insinuarsi sotto le coperte. Forse rabbrividii, perché Sorot iniziò a slacciare i bottoni del farsetto con la chiara intenzione di sfilarselo e pormelo; erano bottoni d’osso intarsiato, fissati con filo dorato alla migliore seta di Darme e non potei che immaginare l’orrore con il quale l’intera sartoria che si era affaccendata intorno all’abito del proprio sovrano ne avrebbe accolto l’accostamento con il mio pigiama scolorito e macchiato di varechina.

Cercai un modo cortese per rifiutare, sopraffatta dall’impressione che accettare la sua giacca sarebbe stato come riconoscere sino in fondo la sua esistenza, tuttavia, prima che potessi dare voce al mio diniego, Sorot si alzò con compostezza e me la posò sulle spalle in un gesto fluido, pieno della galante eleganza di un nobile del Varices: era morbida e calda e profumava di bucato. Era da tanto tempo che qualcuno non faceva una cosa simile per me.

«Sei un uomo buono, Sorot di Besali.»

Rimase interdetto per un istante, l’espressione dubbiosa e incerta, le labbra piegate in un’involontaria smorfia.

«Sorot il Buono.»

Scandì le parole deliberatamente, enfatizzando l’epiteto con distacco, quasi soppesandolo, certo di trovarlo mancante.

«Quando vi trovate dinnanzi a re chiamati “il buono” e “il pio” potete stare certi di trovarvi di fronte ad un sovrano debole.»

Rimasi sbigottita nel sentirglielo dire, perché non ricordavo di aver inserito in alcun modo quella particolare citazione nella sua storia, eppure, sforzandomi appena, riuscii a immaginare un anziano precettore, non troppo dissimile dall’ordinario di Storia medievale che aveva pronunciato quella frase con annoiata sufficienza in una sonnolenta mattina d’autunno; un istitutore severo e intransigente incline a ricondurre ogni generosità alla mancanza di fermezza e ogni concessione all’incapacità di non farsela estorcere.

«Da un certo punto di vista può essere vero, c’è una debolezza che viene spacciata per bontà, ma c’è anche molta bontà che non ha nulla a che vedere con la debolezza. Sei stato un uomo buono e un buon imperatore.»

Sedette lentamente, un sorriso sarcastico a deformargli il volto, posò le mani sulle ginocchia stringendole con forza.

«Un buon imperatore. Allora perché tutti pensano che Galoth sarebbe stato migliore? Hanno scelto me perché non potevano eleggere lui; se suo padre non fosse stato vivo e in declino, se il mio non avesse a suo tempo arrangiato ogni cosa, avrebbero votato per lui. Io avrei votato per lui.»

Deglutì e abbassò lo sguardo, gravato dal fardello di quell’ammissione e io non potei fare a meno di domandarmi quanto vi fosse in essa di vero: se davvero il mio mondo sarebbe stato tanto diverso qualora fosse stato Galoth e non Sorot ad essere eletto imperatore, se davvero sarebbe stato migliore. Accarezzai l’idea per un attimo, figurandomi l’ascesa al trono dorato del giovane conte del Sirenmat; lo immaginai, splendido e maestoso nella sua armatura da cerimonia, salire lentamente la Grande Scalinata dinnanzi alla cattedrale di Naska, udii il plauso degli elettori e l’ovazione di una folla esultante, vidi sua moglie sorridergli timidamente dalla tribuna, suo fratello minore battere le mani entusiasta, Sorot scuotere il capo divertito, infine scorsi sua madre, severa e arcigna nel suo abito a lutto, accusarlo in silenzio della morte del proprio primogenito e la scena perse all’improvviso ogni traccia della sua patina dorata. Galoth sarebbe rimasto Galoth: un trono d’oro non avrebbe cancellato le percosse di suo padre, né l’odio di sua madre, la dolce Isolle di Indekel sarebbe morta lo stesso e così il loro bambino non nato, fra lui e Sorot le cose non sarebbero potute restare le stesse e, nella solitudine del suo palazzo, il titolo di Eren non gli avrebbe impedito di diventare un violento, un alcolista, un assassino.

«Galoth ha molti pregi: è un grande guerriero, un uomo generoso con coloro che lo servono fedelmente, nutre un amore sincero per il suo popolo che lo ricambia con passione; soprattutto, lo sappiamo entrambi, esercita su chiunque lo incontri un incredibile fascino.»

Levò il capo di scatto per fissarmi, forse perché per la prima volta avevo utilizzato quel tono sicuro e giudice che ci si aspetta da un creatore, forse perché intuiva, da come avevo formulato la frase, che questa non fosse che il preambolo di un colossale “tuttavia”.

«Quelli che lo amano sono quasi sempre ciechi ai suoi difetti. Tu eri l’imperatore migliore, eri anche l’uomo migliore.»

Un stupore infantile pervase il suo volto, illuminandolo di un’innocenza sollevata, della totalizzante gratitudine di chi abbia ricevuto acqua nel deserto; era un’espressione meravigliosa, ma non rimase sul viso che per un istante, perché, per quando intensamente avesse bramato udirle, quelle parole non potevano cambiare la verità per cui non trovava consolazione .

«Allora perché tutti lo amano più di quanto abbiano amato me?»

Aveva disperatamente bisogno di una risposta e mi trovai a pormi la stessa domanda; Sorot era stato un buono e un giusto, eppure tutti gli avevano preferito il suo migliore amico: lo avevano fatto le persone più importanti della sua vita, dalla prima all’ultima, lo avevano fatto quelli che avevano letto la loro storia, lo aveva fatto chi mi aveva ascoltata mentre la creavo; era ingiusto e irragionevole, nondimeno innegabile, e non potevo darmi che un’unica spiegazione. Gliela confessai in un sussurro colpevole.

«Perché io l’ho amato di più.»

Si ritrasse appena sulla sedia come se l’avessi colpito, poi giunse le mani e sorrise stancamente.

«Non dovresti amarci tutti allo stesso modo?»

Risi e tutto il senso di colpa che provavo non riuscì a nascondere la mia acredine: Dio ci ama tutti allo stesso modo, la bugia più difficile da credere, a cui tuttavia desideriamo aggrapparci con cieca disperazione.

«Dio dovrebbe. Dubito lo faccia davvero.»

Similmente, pensai, a come non lo avevo fatto io. Distolsi lo sguardo.

«Perché?»

Avrei voluto saperlo, ma non potevo rispondere per Dio, così cercai di rispondere per me stessa, sopportando l’inquietante consapevolezza che per Sorot non vi fosse alcuna differenza.

«Potrei dirti di averlo amato più degli altri perché ha sofferto più degli altri, non sarebbe una menzogna. Non del tutto.»

Posai la testa sulle ginocchia e presi un profondo respiro, ricordando un’antica accusa, accorgendomi di come, almeno in parte, non fosse altro che la verità.

«Forse, però, se non avessi provato quell’amore, non gli avrei mai inflitto quella sofferenza.»

Una piega d’orrore increspò la linea bionda delle sue sopracciglia, il resto del suo corpo prigioniero di una sconvolta staticità.

«Come può essere?»

Avevo provato, una volta, a spiegare la mia predilezione per i finali tragici, ma, sopraffatta dal mezzogiorno rovente di una spiaggia Greca, mi ero limitata a professare la superficialità del lieto fine, la sua banalità ottundente, senza ottenere altro risultato che offendere l’amica che mi ascoltava senza capirmi. Forse non sarei mai stata in grado di spiegarlo davvero; tentai comunque di nuovo, poiché, almeno a Sorot, pensavo di doverlo.

«C’è qualcosa di più profondo e catartico in una storia piena di dolore. È per il dolore che siamo davvero capaci di empatia, il dolore esalta la nostra umanità.»

Sgranò gli occhi e nelle sue iridi chiare non fui in grado di scorgere alcuna comprensione, solo una profonda offesa.

«Ed è per questo che dobbiamo soffrire? Per la bellezza di una grande armonia tragica?»

Stavo per dirgli che non aveva capito, quando mi accorsi che, sino a quel momento, neppure io l’avevo fatto e la grandezza di quell’incomprensione reciproca mi colpì come un’epifania spaventosa. Un’eterna armonia.

«Sai, mi hai fatto tornare in mente una storia che conosco. Due fratelli sedevano in una trattoria, mangiando conserva di ciliegie e forse anche the e zuppa di pesce; non erano mai stati molto vicini e, nel bisogno di svelare l’uno la propria anima all’altro, finirono per parlare di Dio.»

Sorot continuava a fissarmi e la perplessità della sua espressione mi fece desiderare di potermi tendere verso di lui, per trasmettergli quello che volevo dire senza ricorrere al tramite svilente delle mie povere parole, senza recare offesa alla più grande e lacerante opera mai scritta. Era oltre la mia portata, ma mi pareva così importante che continuai, abbracciando il mio limite.

«Il fratello maggiore affermò che l’armonia eterna non rende giustizia alla sofferenza sulla quale viene edificata, che la verità non vale un simile prezzo, che anche se la gloria e la grandezza per la realizzazione della quale la sofferenza era stata necessaria gli fosse stata dispiegata davanti, lui non l’avrebbe magnificata. Domandò al proprio fratello minore se avrebbe acconsentito ad essere l’artefice di una simile armonia al prezzo della sofferenza di un solo bambino. Tu cosa avresti risposto?»

Scosse il capo con una decisione.

«No, non acconsentirei.»

Non mi era mai parso perfetto come in quel momento, mentre proclamava, con parole che appartenevano a un altro uomo, un’integrità che io sentivo di non possedere più.

«Anche lui l’ha detto e anch’io l’ho pensato. E ora tu sei qui, a rendermi rispettosamente il biglietto.»

«Rendere il biglietto?»

Mi trovai a sogghignare di me stessa; quella citazione che mi era parsa finale e rivelativa al punto da essere dolorosa da pronunciare, non significava nulla per lui.

«Non accusi la mia grande armonia tragica di non valere il dolore che la genera?»

Annuì soltanto.

«Anch’io ho creduto che fosse giusto e degno innalzare i vessilli della rivolta contro un Dio che permetta un mondo dove un bambino possa essere sbranato da una muta di cani da caccia, ma ora, mentre tu mi accusi del male che io ho permesso, vorrei solo non ricordare che in una storia anch’io ho lasciato che un ragazzino venisse squartato dai cani, che nel raccontarlo non ho pensato tanto al suo strazio, quanto al lirismo di quello strazio.»

Codardamente desiderai nascondere il volto fra le mani e fuggire dal suo giudizio, tuttavia mi costrinsi a guardare le emozioni che si affastellavano rapide sul volto avvenente di Sorot: ripugnanza, rabbia, condanna, ma anche smarrito sgomento, devozione, bisogno di risposta. Resistendo alla tentazione di riempire con la mia voce la bara di piombo di quel silenzio, attesi che tutte le sue inquietudini precipitassero lentamente nel risultato calmo di una domanda.

«Perché dici “in una storia”?»

Non era l’interrogativo che mi aspettavo e la sua risposta era surreale quanto la situazione in cui mi trovavo, tuttavia non mi tirai indietro.

«Perché per me non era altro che una storia. Non ho mai inteso creare un mondo, se non come un grande racconto e non nel senso comune per cui Dio crea tramite la propria parola: ho parlato di te, ne ho scritto e attraverso la mia narrazione altri ti hanno conosciuto, ma non ho mai pensato che un giorno ti avrei incontrato, che saresti stato vero, vicino.»

Forse, mi trovai a pensare, era quella la ragione per la quale avevo potuto raccontare storie tanto crudeli, trovarle belle e non sentirmene responsabile; mi chiesi se non fosse quello il segreto del divino, un’assenza, una distanza, un diverso livello di esistenza che permetta di amare le proprie creature e portare avanti disegni che prevedano il loro tormento. Forse, se fossimo apparsi all’improvviso dinnanzi a Dio, anche lui si sarebbe sentito sporco e mostruoso come mi sentivo io in quel momento: un pensiero blasfemo, per il quale sarei stata punita al mattino.

Il viso di Sorot era contratto in una maschera d’orrore, pietrificato nell’immagine della perdita di ogni certezza e speranza; la bocca spalancata in un muto grido di raccapriccio, lo sguardo tradito, vinto, spezzato. Nell’ansia che mi causava quella vista notai, forse per la prima volta, le piccole rughe ai lati dei suoi occhi, i segni sottili dei sorrisi che gli erano stati negati intorno alle labbra, i capelli bianchi mescolati fra le ciocche biondo grano: sapevo che erano lì, ma mi ero sempre rifiutata di vederli e, osservandolo in quell’istante, constatando come le sue imperfezioni non ne intaccassero la bellezza, riuscii davvero ad ammettere a me stessa che era reale, che era presente, che lo amavo.

Scostai le coperte e lasciai che il suo farsetto mi scivolasse dalle spalle, posai un piede sul tappeto e allungai la mano. Sorot sussultò quando carezzai la sua guancia; era calda e ruvida e la tenni nel mio palmo per un istante prima di insinuare le dita fra i suoi capelli. Scesi lentamente dal letto e avvicinai il mio volto al suo; era bello e sofferente e il suo dolore era il mio e io lo amavo; lo amavo dell’amore incondizionato di una madre, mentre i miei polpastrelli sfioravano la sua nuca bagnandosi del sangue umido sul suo cranio fracassato. Lui chiuse gli occhi e io singhiozzai, abbracciandolo, una lacrima passò silenziosa da una gota all’altra e tutte le cose che volevo dirgli si persero nel suono spezzato dei nostri respiri. Lo baciai dolcemente sulle labbra; era tutta la mia risposta.

 

C’è sempre qualcosa di confortante nello svegliarsi durante la notte, nella lenta risalita della mente dalle accoglienti tenebre dell’incoscienza ad un corpo ancora intorpidito; quella notte, tuttavia, quando mi accorsi che Sorot era svanito da qualche parte fra la mia anima e il cuscino, il risveglio non portò con sé alcun piacere, solo la consapevolezza di aver perso un sentimento, uno stato dello spirito, qualcosa che avevo conquistato a fatica.

Piansi.

 


Note:

Questa storia partecipa al concorso “ Io ti ho creato e io…ti incontro”  indetto da Slappy che  non aveva  classifica, quindi non chiedetemi come mi sono piazzata, e lo splendido  banner ( un po' inquietnte per chi riconosca l'attore) è stato realizzato da lei che ringrazio sentitamente.

Ho avuto alcuni dubbi circa l’attinenza perfetta di questa storia al tema del concorso, tuttavia, a chi volesse imputarmi di aver finito per porre il focus in qualche modo sulla me autrice invece che sul personaggio, rispondo dicendo che credo l’incontro creatore-personaggio sia il luogo ideale, il luogo per eccellenza, per indagare la figura dell’autore in quanto tale.
Oltre ad essere un’analisi (povera, giacché non è che io sia tutto questo intelletto sopraffino ^^) della figura del creatore, questo racconto è anche la mia personale professione d’amore per I Fratelli Karamazov, e a quest’opera (in particolare ai capitoli I fratelli fanno conoscenza, La rivolta, Il grande inquisitore) la storia è piena di richiami, anche se il mio beta, a cui ho posto la domanda, mi ha assicurato che anche non avendoli letti la storia fila lo stesso. Se qualcuno che non ha letto i Karamazov volesse vedere questi elementi esplicitati non ha che da chiederlo e verrà sommerso dal mio amore spassionato per Dostoevkij (sciocco!)
Altra nota: la scelta di un dialogo notturno, presso un letto mi è parsa quasi obbligata, essendo motivo comune alla maggior parte delle mie storie.
Spero non serva chiarificare che non ho nella vita normale deliri di onnipotenza tali da pensare a me stessa come un Dio.
   
 
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