Brick by boring brick
She lives
in a fairy tale
somewhere too far for us to find
forgotten the taste and smell
of the world that she lefts behind.
Brick by boring brick, Paramore¹
Qualsiasi
idiota può superare una crisi; è il quotidiano
che ti logora.
Anton Checov
«Voglio arrampicarmi
sull’albero!» esclamò
una vocina petulante.
Fui bruscamente distolta dai miei giochi di
abilità con le carte della Carica dei 101 e guardai la
bambina che stava in
piedi sul prato davanti alla veranda. Aveva otto anni, ma
sembrava più
piccola, con i codini castano ramato, gli occhioni scuri spalancati e
quella tenera espressione di curiosità. Dubitai di aver
capito.
«Cosa?»
«Voglio salire sull’albero»
ripetè in tono
deciso e indicò il melo ritorto che campeggiava nel
piccolo
giardino di casa Uley.
Osservai l’albero per un istante, incerta. E
adesso cosa avrei dovuto inventarmi per distrarla?
«Claire, sarebbe meglio di no».
«Perché?»
«Be’, perché… è
pericoloso: potresti cadere
e farti male».
Ci pensò su per un attimo. «Quanto male?»
Okay, forse ero sulla buona strada. «Un po’.
Anzi, direi parecchio».
«Ma se tu mi aiuti non mi faccio niente».
O forse no. Sospirai. «Tesoro, credo che
impedire che tu salga sugli alberi faccia parte dei miei compiti di
baby sitter».
«Sei
proprio sicura, Nessie?»
«Sì».
Inclinò la testina da un lato mentre mi
fissava. Probabilmente stava valutando fino a che punto avrebbe potuto
disubbidire. «Lo voglio fare lo stesso».
Tentai un’ultima volta. «Non ti va di
sederti qui con me a giocare a Memory?» le chiesi con il tono
più invitante che
mi riuscì di tirare fuori.
«No».
Risposta secca e decisa. Claire studiò il
melo con attenzione, poi indietreggiò di qualche metro,
corse verso il tronco e
saltò. Niente da fare. Non arrivava nemmeno al ramo
più basso. La bimba non si
diede per vinta: indietreggiò di nuovo e riprovò.
«La perseveranza non le manca» commentai
sotto voce.
Mi chiesi come avrei potuto distrarla:
ovviamente non sarebbe mai riuscita a salire sull’albero e
non volevo che ci
rimanesse male. Purtroppo i cartoni in tv erano appena finiti ed
essendo solo
in prima elementare Claire non aveva compiti per casa. Sbirciai il mio
orologio
da polso, chiedendomi quando Emily sarebbe rientrata.
Emily
insegnava tessitura e altri lavori
artigianali di tradizione indigena nella scuola superiore di La Push e
in
alcune scuole professionali dei dintorni, ma spesso lavorava anche in
casa
filando al telaio e realizzando splendidi lavori che poi vendeva. La
sua nipotina Claire trascorreva tantissimo tempo a La Push e quando
Emily era impegnata e le serviva qualcuno che si occupasse per
qualche ora della bambina e del suo piccolo Levi, che aveva due anni e
tre
mesi, chiamava me.
Ero sicura che nella sua testolina arruffata
Claire stesse immaginando di saltare molto più in alto di
quanto facesse in
realtà. Sorrisi mentre la osservavo provare per la terza
volta e
lasciai che la mente tornasse ai miei giochi d’infanzia:
riuscivo perfettamente
a visualizzare me stessa bambina al posto di Claire, anche se per me
non
sarebbe stato affatto un problema arrampicarmi su un albero.
La mia assurda crescita accelerata mi aveva
impedito fin dalla nascita di frequentare chiunque altro al di fuori
della mia
famiglia e di mettere il naso fuori di casa, dunque non ero mai andata
nemmeno
a scuola. Per quattro anni avevo studiato a casa, da sola, con la
supervisione
del mio fantastico nonno Carlisle e a volte del mio ancor
più fantastico papà.
Avevo un bel ricordo di quel periodo: loro sembravano avere una
risposta per
ogni mia domanda e, sebbene vivessi quasi come una reclusa, mi avevano
aperto
gli orizzonti del mondo. Eppure avevo sempre avuto la sensazione che mi
stessi
perdendo qualcosa. E le scorrazzate per i boschi tra casa mia e la
riserva di
La Push, con tanto di tuffi nell’oceano, arrampicate sugli
alberi e corse a
ostacoli, erano tra le poche occasioni in cui potessi uscire e vedere
qualcosa
di diverso dalle pareti di casa, a parte le visite al nonno Charlie.
Solo nel corso dell’estate
precedente al mio quarto compleanno la mia crescita aveva cominciato
finalmente
a rallentare e ad essere meno evidente, soprattutto per
l’occhio umano, in
conseguenza del fatto che la mia dieta era ormai un perfetto equilibrio
tra
quella di un umano e quella di un vampiro… anzi,
più simile a quella degli
esseri umani, in realtà, visto che cacciavo di rado, e
ciò sembrava aver
rallentato il mio sviluppo. Così mi ero iscritta al mio
primo anno
di liceo, dopo che mia madre si era procurata dei falsi certificati di
licenza
elementare e media dal nostro avvocato di fiducia… il fido Jenks, così lo
chiamavamo quando eravamo tra noi.
L'idea
di andare a scuola mi aveva resa felice: finalmente avrei avuto
un'esistenza più simile a quella di una ragazzina normale e
meno
simile a quella di una lebbrosa o di una ricercata che non
può mettere il naso fuori di casa. Mi aveva anche causato
parecchia ansia, però. Dopotutto, i miei futuri compagni
avevano
più di dieci anni
di vantaggio su di me... E se non fossi stata all'altezza della
situazione? E se non gli fossi piaciuta? E se gli fossi sembrata strana?
E se non fossi riuscita a farmi neanche un amico? Per fortuna queste
paure si erano rivelate infondate: ormai frequentavo il secondo anno e
potevo dire di essere perfettamente felice e integrata nella mia
scuola.
Le mie riflessioni furono interrotte da una
vocina assonnata proveniente dalla casetta color mattone.
«Levi si è svegliato». Mi alzai da
terra. «Claire,
torno tra qualche minuto, okay? Non ti muovere da
qui».
Lei si limitò ad
annuire in risposta, ancora tutta concentrata sul suo obiettivo.
Entrai, corsi al piano di sopra e spinsi con
delicatezza la porta della stanzetta del piccolo. Levi, seduto nel suo
lettino,
mi fissò attentamente con quegli occhi color carbone che,
insieme ai riccioli
scuri, aveva ereditato dal papà.
«Mami!» strillò.
«Ehi, ciao piccolo» lo salutai con dolcezza mentre
mi avvicinavo alla culla. «Come va? La mamma non
c’è, ma adesso ci penso io a
te».
Iniziai a muovermi piano per la stanza,
preparando il fasciatoio e canticchiando a bassa voce una canzoncina.
Ogni
tanto mi accostavo alla finestra per controllare la bambina nel
giardino:
Claire sembrava aver rinunciato all’albero e si era distesa
sul prato. Quando
lo presi in braccio, Levi finalmente mi sorrise.
Lo cambiai e scendemmo di sotto, dove versai del succo di mela nella
sua
tazza con due manici. Mentre beveva lentamente sentii il rumore di
un’auto che
parcheggiava davanti a casa, una portiera che sbatteva e poi gli
strilli di
Claire. Era troppo presto perché Emily fosse già
di ritorno dalle sue
commissioni, ma non aspettavamo nessun altro. Uscii in veranda e sul
prato vidi
l’enorme figura di Jacob che rideva tenendo la bambina sotto
il
braccio.
«Jake!» esclamai e subito mi sentii
invadere da quella sensazione di calore e benessere che provavo quando
lo
vedevo.
Il mio Jacob, il mio sole personale, la mia roccia, il mio migliore
amico in assoluto… Adoravo Jacob, probabilmente da sempre.
Non avrei saputo dire né
come né quando fosse nato il mio affetto per lui. Per quel
che potevo
ricordare, era sempre stato dentro di me. Dal momento che avevo le
braccia
occupate non gli saltai addosso per farmi prendere al volo, come di
consueto,
ma mi limitai ad allungarmi per baciarlo sulla guancia mentre mi
raggiungeva
sotto il portico con due passi, continuando a tenere Claire.
«Che ci fai qui?» domandai.
«Ho appena finito il
mio turno di ronda e
sapevo che oggi avresti fatto la baby-sitter, così sono
venuto a vedere come
va».
Mentre parlava tese una mano per fare il
solletico sotto il mento a Levi, che ridacchiò entusiasta.
Sospirai. Il solito,
apprensivo Jake. L’unica cosa che avrei potuto recriminare
nel nostro rapporto
era il modo in cui a volte mi trattava, come se fossi stata una bambina
piccola. Sì, avevo soltanto quattro anni e mezzo, ma in
realtà ne avevo quindici
a tutti gli effetti, dal punto di vista fisico e psicologico. Ero
perfettamente
in grado di badare a me stessa e di fare una cosa semplice come tenere
due
bambini per un paio d’ore senza che lui andasse in
iperventilazione… Ma non si può essere perfetti
sotto tutti i punti di vista.
«Quil non c’è?» chiese Claire,
la testina
che spuntava da sotto il braccio di Jacob.
«No, tesoro, è dovuto restare al negozio per
aiutare la mamma di Embry».
Quil lavorava nel piccolo negozio di
gadget per turisti di La Push da circa un anno, poiché aveva
finito il liceo ma non era
intenzionato a continuare gli studi.
La piccola sbuffò sonoramente e corse di
nuovo in mezzo al piccolo prato. Jacob ed io ci sedemmo sui gradini
della
veranda. «Com’è andata la
ronda?» domandai mentre Levi si agitava tra le mie
braccia.
«Bene. Ero insieme a Tommy».
«Ancora non ti fidi a mandarlo da solo?»
Tommy aveva sedici anni ed era l’ultimo acquisto del branco
di Jacob, che con
lui saliva a sei membri: Leah, Seth, Quil, Embry, Chris e Tommy,
arrivato solo
da qualche settimana.
«Non ancora, ma non dipende da me, dipende
solo da lui: se la piantasse di fare il bambino e si decidesse a
maturare un
po’, sarei ben felice di liberarmene».
«Perché
non lo affidi a qualcun altro, ogni tanto? Magari Seth può
darti una mano,
oppure Leah».
Sul suo viso comparve un’espressione strana,
divertita e inorridita al tempo stesso. «Seth già
se lo porta sempre dietro,
non posso lasciare questo compito solo a lui. E Leah…
be’ non posso mandarlo
con lei se ci tengo a rivederlo vivo».
«Cosa? Come mai?» esclamai, incuriosita.
Leah non aveva un carattere facile, ma Tommy era appena arrivato nel
branco e
non poteva già averla
fatta
arrabbiare.
«Non lo sopporta. O meglio, non sopporta
l’idea di dovergli fare da baby-sitter. Pensa che sia solo un
moccioso incapace
e infantile, una scocciatura per il branco, insomma».
«Ah». Ci pensai un po’ su.
«Povero Tommy…
Potrebbe anche dargli una possibilità, in fondo è
appena arrivato».
Jacob fece una smorfia. «Lo sai che non è
facile stare con lei, anche se è migliorata molto da
quando… da quando ha
lasciato il branco di Sam».
«Wow, non oso immaginare com’era prima»
mormorai.
Jacob ridacchiò. «Tanto non ci riusciresti.
Non hai tutta questa immaginazione. O forse sì. Dopotutto,
vivi con
Rosalie».
Gli tirai un pugnetto sul braccio, ma non
potei trattenere una risata. «Dai, lasciala stare! Non mi va
che tu la prenda
in giro».
Lui rise ancora più forte. Prima che potessi protestare
ancora, fummo
interrotti da Levi che mi agitò il suo bicchiere vuoto sotto
il naso.
«Ne vuoi ancora, piccolino?»
Lui fece di si
con la testa.
«Jake mi guardi la bambina, per favore?
Torno presto».
«Certo».
Mentre
rientravo in casa mi accorsi che si alzava anche lui per raggiungere
Claire sul
prato. In cucina riempii il bicchiere con un altro po’ di
succo di frutta e
Levi bevve tutto d’un fiato. Misi la tazza nel lavandino, poi
portai il piccolo
in salotto, con l’intenzione di accendere per qualche minuto
la tv. Si era
appena ripreso da un brutto raffreddore ed era meglio che non stesse
troppo
all’aperto. Sedetti sul divano tenendolo in braccio e feci un
po’ di zapping
cercando qualcosa di adatto. A un certo punto sentii aprire la porta
d’ingresso, che avevo lasciato accostata.
«Ehi, Nessie» chiamò Jacob
«tutto bene?»
Sospirai. Il solito, apprensivo Jacob… Sorrisi,
leggermente divertita. «Sì, tranquillo. Stiamo
guardando la tv».
«Ah, okay. Allora noi siamo qui fuori».
«Certo».
Finalmente trovai un programma di cartoni
animati e lì mi fermai. Mi rilassai contro lo schienale del
divanetto un po’
sgangherato e fissai lo schermo senza vederlo sul serio, presa da altre
riflessioni, mentre Levi ridacchiava divertito osservando degli omini
colorati
che ballavano una musichetta vivace. Stavo giusto pensando con
raccapriccio
alla montagna di compiti che mi aspettavano a casa quando sentii delle
grida
festose provenire da fuori. C’era una sola spiegazione.
«Levi è tornata la mamma!» esclamai.
«Andiamo a salutarla?»
«Mami!» trillò con entusiasmo.
Spensi la tv e uscimmo sotto il portico.
Emily era sul prato, letteralmente assediata da Claire che
strillava e saltava intorno a lei. Jacob salì di corsa le
scale tenendo due
buste della spesa che doveva aver preso dalle mani di Emi, mi fece
l’occhiolino
e schizzò dentro.
«Claire, tesoro, sta' buona... Oh, ciao, Nessie».
«Ciao. Come sono andate le tue commissioni?»
«Tutto bene. E questi bimbi come sono
stati?» chiese prendendo in braccio Levi.
«Buonissimi» risposi con un sorriso
indulgente. La povera e ignara Emily non avrebbe mai saputo dello
yogurt che
Claire aveva rovesciato sul pavimento o del suo prezioso profumo che
aveva spruzzato qua e là. Rientrammo tutte insieme. In
cucina, Jacob aveva lasciato le buste
sul tavolo e stava già attaccando a morsi una mela,
appoggiato al bancone da
lavoro.
«Accidenti, è tardi! Devo
andare».
Già immaginavo
mia madre intenta a protestare per la cena che si raffreddava e
mio padre che guardava l’orologio ogni minuto, mentre zio
Emmett borbottava in
sottofondo contro i genitori troppo permissivi.
«Ti
aspetto in macchina» disse subito Jacob con un sorriso.
«Ciao Emily, ciao Claire, ciao piccolino!»
Distribuendo
baci
e carezze sulla testa uscì di casa.
«Aspetta, Renesmee» disse Emily,
asciugandosi le mani sul grembiule e correndo fuori dalla stanza.
Okay, era il momento di filarsela. Baciai
velocemente i bambini, andai in punta di piedi nell’ingresso
buio e infilai
il giubbotto che avevo lasciato su una sedia. Per fortuna Jake non
aveva
richiuso la porta.
«Ehi,
Emi, mi dispiace ma vado di fretta!» gridai verso
l’interno della casa. «Ci si
vede, ciao».
Avevo un piede fuori dalla porta e già stavo
congratulandomi con me stessa quando un’ombra emerse
all’improvviso
nell’ingresso e corse verso di me. Feci un salto di un metro
e a stento mi
trattenni dal cacciare un urlo.
«Dove
credi di andare? Non provarci, sai!» sbottò
l’ombra. Era Emily.
«A
fare cosa?» domandai con tono innocente, ma non ci
cascò.
«A
svignartela così!» rispose in tono secco e poi
addolcì di colpo la voce. «Ecco qui, cara.
Grazie per l’aiuto». E mi allungò i miei
sette dollari.
Rassegnata,
li presi e la baciai sulle guance. «Di niente. Alla
prossima».
«Saluti
a casa».
Corsi
fino alla Golf dove Jacob mi aspettava seduto al posto di guida, salii
e
sbattei la portiera.
«Allora,
ci sei riuscita?» si informò con tono divertito.
Sbuffai. «No.
Ovviamente mi ha pagato».
Lui rise. «Sei proprio una frana».
Lo colpii sul braccio, arrabbiata e offesa.
«Ahi!»
protestò, sbuffando una risata. Tanto sapevo che la sua era
tutta scena e che difficilmente sarei
riuscita a strappargli un ahi
sincero. «Sto
guidando, ti pare il caso di picchiarmi? Guarda che se facciamo un
incidente e
ti riporto a casa a pezzettini non mi salvo neanche se lascio il
paese».
«Allora
ti conviene tenere gli occhi ben incollati sulla strada»
risposi, acida.
«Che c'è? Hai dimenticato di prendere la pillola
del buon umore, stamattina?»
Sospirai. Detestavo essere cattiva con il
mio Jacob. «Scusa, sono un po' nervosa. Lo sai
quanto si agitano i miei se faccio dieci minuti di ritardo...
sicuramente staranno già pensando che sono morta sul ciglio
della strada o qualcosa del genere. E poi devo
fare ancora un sacco di compiti e domani ho una verifica di
matematica».
«Mm… Insomma, un’altra monotona giornata
di
scuola».
«Sembra anche che pioverà» aggiunsi in
tono
tetro.
«Be’, questa non è una
novità! Comunque
sappi che le giornate più belle, quelle perfette, capitano
quando meno te lo
aspetti».
Lo guardai, dubbiosa. «Sul serio? Parli per
esperienza personale?»
«Certo». All'improvviso divenne serio.
«La giornata più brutta della mia vita si
è conclusa con il tuo arrivo».
Mi girai di nuovo a guardarlo: fissava la
strada, ma sembrava perso in qualche lontano ricordo. Jacob era il mio
migliore
amico e avrei potuto dire di conoscerlo come le mie tasche, eppure
c’erano dei
momenti in cui avevo l’impressione che mi nascondesse
qualcosa, che ci fosse
dell’altro. A volte ne avevo parlato con i miei, ma a sentire
loro ero paranoica,
il che suonava piuttosto buffo detto da due che non avevano idea di
cosa fosse
la normalità, a cominciare dal fatto che erano vampiri.
Per riempire quell’imbarazzante silenzio
iniziò a raccontarmi dei progressi fatti con la macchina che
stava aggiustando
al momento.
Quando ancora frequentava il liceo, aveva
cominciato a lavorare part-time come meccanico, all’inizio
solo per La Push e
poi anche per Forks, quando la voce della sua bravura e dei suoi prezzi
si era
diffusa. Due anni prima si era brillantemente diplomato nella scuola
della
riserva, ma aveva deciso di non frequentare il college e di continuare
a
lavorare, ormai quasi a tempo pieno. Questa scelta aveva provocato
qualche discussione, soprattutto con suo padre
Billy, ma Jacob aveva sempre portato delle motivazioni indiscutibili a
proprio
sostegno. Prima di tutto, era un licantropo, un alfa e un membro del
consiglio
della tribù: le sue responsabilità ormai erano
tali da non consentirgli di
allontanarsi da La Push per un impegno così gravoso come
frequentare il
college e qui nessuno avrebbe osato protestare perché queste
responsabilità
per lui venivano prima di tutto. L’altro motivo per cui aveva
deciso di
rinunciare era proprio Billy: lasciarlo vivere da solo per un periodo
di tempo
indeterminato, viste le sue difficili condizioni fisiche, era
impensabile per
Jake. Billy non era mai stato d’accordo, ma Jacob, come al
solito, aveva fatto di testa sua.
Nemmeno Bella era mai stata d’accordo e
per mesi e mesi aveva cercato di convincerlo a cambiare idea, ma senza
successo
e ormai doveva aver rinunciato… A volte riprendeva
l’argomento, ma la risposta
era sempre la stessa. Jacob era davvero deciso, in due anni non
c’era mai stato
un tentennamento.
Quanto a me, non avevo mai espresso un vero
parere al riguardo: tutto quello che volevo era che fosse felice, come
non importava. Ol pensiero che potesse andarsene da La Push
era doloroso, la sua
lontananza insopportabile, ma se avesse voluto questo non avrei cercato
di
trattenerlo. Eppure, forse in cuor mio ero inconsapevolmente ed
egoisticamente
felice della sua decisione, perché l’avrebbe fatto
restare al mio fianco, e
sospettavo che lui l’avesse intuito, come tutti gli altri.
Be’, non potevo
farci niente. Fin dai miei primi momenti di vita, stando a quello che
mi
avevano raccontato, Jacob era stato con me e c’era rimasto in
quei cinque anni:
ci separavamo solo durante le vacanze estive, quando andavo con i miei
sull’Isola Esme o a Denali a trovare il clan di Tanya, al
massimo per qualche
settimana. Eravamo talmente abituati a stare insieme da essere ormai
inseparabili.
Poco
dopo fermò la macchina di fronte alla
grande casa bianca dei miei nonni. Mi slacciai la cintura di sicurezza
e tirai su la cerniera del giubbotto. Eravamo nel pieno di
marzo, ormai la primavera avrebbe dovuto essere vicina, ma a Forks le
stagioni non seguivano il loro corso normale e faceva ancora un gran
freddo.
«Entri
e ceni con me?»
Scosse la testa. «Stasera no: ho promesso a
Billy che sarei tornato per cena».
Jacob passava tanto di quel tempo a casa
nostra che probabilmente suo padre doveva sentirsi parecchio
trascurato. «Va bene.
Allora ci vediamo domani?»
Mi
sorrise. «Certo». Mi accarezzò appena la
guancia e poi si chinò per baciarla.
«Buona fortuna per la verifica».
«Grazie.
Notte, Jake».
«Notte, piccola».
Scesi
dall'auto e presi le chiavi. Mentre aprivo la
porta, mi girai a salutarlo con la mano, ma solo quando fui entrata
sentii che riaccendeva il motore e si allontanava. Scossi la testa,
divertita e seccata in ugual misura, mentre mi sfilavo il giubbotto. Il
solito apprensivo... come se avesse mai potuto capitarmi qualcosa fuori
alla porta di una casa piena di Cullen.
Note.
1. Ecco il link della canzone: http://www.youtube.com/watch?v=rzZf8PNZmmQ.
Spazio autrice.
Ciao a tutti/e! Questa è la prima long che pubblico ed è anche la prima long alla quale abbia lavorato proprio con l'intenzione di renderla pubblica. I capitoli che compongono la prima metà di questa fanfiction sono stati scritti circa tre anni fa. Per motivi di tempo, infatti, la sua stesura è stata piuttosto lenta. Nel frattempo, ho scritto e pubblicato dell'altro e credo che il mio modo di scrivere sia leggermente cambiato... se in meglio o in peggio, questo non spetta a me dirlo xd, però mi sembra di riscontrare qualche piccola differenza rispetto al mio stile attuale. Ciò nonostante, ho deciso di pubblicarli così come sono, senza grosse modifiche. Forse non saranno perfetti (anzi, sicuramente non lo sono), ma è questa la storia che ho scritto tre anni fa e alla quale ho dedicato tutta me stessa per molto tempo. Modificarla non mi sembrava giusto.
A mercoledì prossimo per il secondo capitolo, grazie!