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Autore: delilahs    02/05/2013    1 recensioni
«In questi momenti spero solo che non sia un enorme teschio vuoto che ci guarda dal cielo. DEVE essere qualcosa di più. Qualcosa di così muto e irremovibile non può avere creato la vita e l’amore. L’amore che combatte contro il dolore. Ma perché allora sto combattendo la vita con l’amore?»
[JELENA]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“AAAAAAAH!” urlo con tutto il fiato che ho in corpo, gli occhi arrossati e la gola che brucia come un tizzone acceso. Riesco a vedere il mio riflesso nello specchio, attaccato sul muro azzurro di fronte a me. Sento delle voci, forse è Justin, forse è la dottoressa, o forse, chissà, è Dio.
In questi momenti spero solo che non sia un enorme teschio vuoto che ci guarda dal cielo. DEVE essere qualcosa di più. Qualcosa di così muto e irremovibile non può avere creato la vita e l’amore. L’amore che combatte contro il dolore. Ma perché allora sto combattendo la vita con l’amore?

Un'altra contrazione interrompe i miei pensieri come una scarica elettrica, azzerandoli completamente, totalmente, inevitabilmente,  piegandomi in due sotto il peso di una carica di tori. Sento male ovunque, e c’è tanto, troppo sangue, dappertutto. E vedo rosso,  vedo rosso, vedo tutto rosso... rosso ovunque,  e si sentono delle grida agghiaccianti che mi fanno accapponare la pelle, come la neve sul mio corpo nudo, masticato dalle fiamme del dolore e senza calore. Il corpo di un cadavere con il cervello ancora in grado di pensare . Forse sono mie, le grida. Almeno queste mi dimostrano che il dolore che sto provando è reale, anche se è troppo duro, troppo interno e morboso per esserlo senza infrangere almeno qualche limite. Ma dopo un’ altra scossa, abbastanza forte da fulminare tutta la mia vita e i miei ricordi, da farmi sentire piccola e indifesa, senza maschere e corazze come non lo sono mai stata, finalmente lascio il dolore e le sofferenze, e scivolo nell’incoscienza, nera, buia  e anonima, solo come la morte può esserlo.

Fluttuo nelle tenebre della mia anima, così dolce e innocente, così come l’hanno sempre definita. Qui non sento dolore, è bello. In effetti non sento niente, ma mi va bene così. Dopo quel dolore atroce preferirei vivere per sempre qui, nel profondo della terra. In qualche posto lontano, irraggiungibile, sopra di me, c’è una sala di ospedale, dove qualcuno si sarà accorto che mi sono addormentata, con le urla di una bambino che squarciano l’aria e dividono le nuvole, facendo illuminare i corpi vuoti e con anime apparenti degli uomini. Sento una scossa nella terra intorno a me. E’ un urlo, è un grido di dolore. Sento qualcuno che scuote il mio corpo esanime. No, non lo sento. E’ più che altro un formicolio, intorno a me, dentro di me. Provo a scuotermi per eliminarlo, ma mi accorgo che non ho le braccia. O le gambe. Forse sono ammucchiate in qualche posto lontano da me, in un posto dove l’erba è verde e l’acqua è pulita, e gli uomini sono semplici.  Dalla terra sbuca fuori prima una mano, poi un braccio e una spalla. La mano, dolce e delicata come un quadro delle lontane epoche romantiche, mi afferra una mano. Non è qui, non è vicino a me, ma la sento. La stretta è forte, decisa, spaventata. Riesco a sentire molte emozioni attraverso quella mano, forse perché la conosco. E’ la mano di Justin, e lui ha paura. No, non devi essere spaventato, vorrei dirgli. Ma non riesco a trovare la mia bocca. La mia bocca è chiusa con del filo spinato. Fa male. Non dovrebbe fare male, io sono morta, ricordi? Chiedo a me stessa. Ma non arriva nessuna risposta. Anzi, il dolore aumenta. Lo sento  prima nelle gambe, una piaga che avanza sbandando con la sua macchina come un ubriaco dopo una riunione in un bar abusivo. Avanza e mastica le mie ossa, i miei muscoli e i miei tendini,lasciandomi slegata e impotente, ma comunque capace di sentire dolore. Arriva al mio cuore e al mio cervello, e io mi sento in preda alle fiamme. Un fuoco che non si spegne né con l’acqua, ne con qualsiasi altro mezzo. Può essere soddisfatto dal dolore. Dolore crudo e inevitabile, che sembra il mio destino, la mia punizione eterna, in questi lunghissimi istanti di pura agonia. Solo una cosa mi aiuta a non restare schiacciata, a restare aggrappata all’orlo del baratro, anche se con dita screpolate dal ghiaccio e ustionate dal fuoco. E finalmente riesco a sentirlo.  Lo sento. Le orecchie sono di nuovo al loro posto, non c’è tempo per riposare. Eccoci. Ecco che la terra si riapre al mio passaggio, e io salgo in superficie alla stessa velocità del fulmine che mi ha sotterrata. Riesco a sentirlo. Ci sono tante cose che mi sembra di non poter mai più dimenticare, dopo questo dolore incredibile, e altre che mi sembravano un tempo così importanti e ora mi appaiono insignificanti. Il gelato seduta sulla staccionata del mio giardino, mamma e papà accanto a me. Il mio primo bacio, sulle rotaie di un treno. La prima volta a Hollywood, la città dei vip. Le premiere, i soldi e la fama. Tutta roba trascurabile, che ho gettato  via come spazzatura in autostrada, nel corso di soli nove mesi. Ma questi ricordi sono nuovi, e vividi. Perché sono stati impressi col fuoco e col dolore. E so per certo, che questi momenti li ricorderò per il resto della mia vita.

Riemergo dal buio oleoso in cui sono stata immersa per settimane, e invece mi ritrovo a pensare che sono passati solo pochi minuti. Il dolore non diminuisce, anzi, raggiunge soglie al limite della resistenza. Come se il mio corpo potesse squarciarsi in due con un solo movimento eccessivo, come se fossi fatta di vetro fuso che si sta raffreddando nella mani di quell’abile operaio che è Dio. Ma lui non fa alcuno sforzo per tenermi su, per aiutare il vetro ad indurirsi. No, lui non usa gli strumenti per tenere su quel fungo di acciaio fuso che è la mia anima distrutta. Lui mi sta dicendo di cavarmela da sola. Finalmente distolgo lo sguardo dalla bianca coperta fradicia di sudore che mi ricopre e che si alza nel punto dove il dolore è più forte, intenso e malefico. E so di dover trovare un motivo a tutto quel dolore. E penso ai mesi passati con Justin, a tutto l’amore che provavo fiera pensando ai miei due più grandi tesori, l’uno parte della mia vita e l’altro parte di me. E lo guardo, guardo il mio ragazzino eternamente tredicenne, che mi ha fatto sentire la donna più amata del mondo. E so che devo farlo per lui, devo farlo per il mio bambino, perché lui conta su di me. Conta su di noi. Allora stringo più forte la mano di Justin. Il sudore e la tensione la fa scivolare via da me, ma lui stringe e la tiene ferma. E tiene me ferma impedendomi di cadere di nuovo sottoterra.  E spingo, e mi fa male, e spingo di nuovo, e di nuovo. E finalmente riesco a sentire qualcosa che non sia fuoco e dolore. Qualcosa che mi illumina il viso distrutto e macabro, che per la prima volta fa distogliere lo sguardo di Justin. Un grido, un puntino insignificante nel radar della storia e della vita. Ma che per me significa tutto.  E so che l’amerò finche vivo. Finché sarò in grado di prendermene cura. E’ nata, finalmente. Il mio piccolo gioiello, forgiato con le fiamme dell’inferno e del mio cuore. Creato da dolci romanzi di fine ottocento e dal dolore di un treno che passa e se ne va. Justin mi guarda e mi sorride, e mi accorgo che anch’io sto ridendo, una risata libera, felice e pura, colma di gioia e orgoglio per l’umanità.
E’ nata.
E’nata Alex Marie Bieber.


                                           
 


A Federica, senza la quale questa storia non avrebbe avuto inizio.
Grazie mamacita. ♡

   
 
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