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Autore: d r e e m    04/05/2013    1 recensioni
Quand'è che comincia la vera guarigione dalla pazzia?
A Scarlett piace pensare che sia nella stanza 1022, quando i colori cominciano a delineare il contorno di un viso, di due occhi familiari, colori che lei non potrà mai vedere.
La vera domanda è quando ci si accorge di essere impazziti?
Questo, Albert, purtroppo l'avrà dimenticato già domani---
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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No remedy for our memory.

 

«Would you leave me,
If I told you what I’ve done?»

«And would you need me,
If I told you what I’ve become?»


 

«Puoi sempre utilizzare un altro colore se quello è finito» ridacchiò Albert aprendosi in uno dei suoi rari sorrisi a mezzaluna e distendendo la gamba fino a sfiorare il cavalletto traballante.

Le tendine di pizzo bianco quel giorno svolazzavano come colombe, leggere alla brezza primaverile che invadeva la stanza 1022 dove Scarlett si accingeva con entrambi i sopraccigli corrucciati a spremere l’ennesimo tubetto di colore a tempera su una misera tavolozza, già di suo incrostata di precedenti residui cromatici.

I capelli dalle tonalità vermiglie le ricascavano a ciuffi sulle guance paonazze a causa dello sforzo dovuto al continuo lavoro delle sue dita screpolate sul sottile oggetto contenente evidentemente del colore asciutto.

Ma era un’altra la causa del suo rossore sulle guance e del palpitare irregolare – pesante, quasi come un singhiozzo - del cuore contro la sua gabbia toracica.

«Il patto era di stare zitto se volevi vedermi dipingere» lo ammonì Scarlett e incurante del consiglio offertole dal ragazzo, con un cipiglio insoddisfatto continuò a riscaldare il tubetto tra le sue mani sudate così da far sciogliere il colore intirizzito e riportarlo alla sua consistenza densa e fluida.

All’ennesimo fallimento da parte di lei, Albert alzò un sopracciglio scoccandole un’occhiata di superiorità e facendola vergognare fino alla punta del naso all’insù che si ritrovava.

I suoi occhi sembravano deriderla e gridarle un te l’avevo detto con aria fanciullesca.

Da parte sua la ragazza, che vantava una certa notorietà per i suoi moti di stizza, arricciato il naso, agguantò il misero tubetto e con un gesto turbolento lo scaraventò fuori dalla finestra che si affacciava sul giardino interno, chiudendo poi accuratamente le persiane verde bottiglia come se quello, atteggiandosi da boomerang, dovesse nuovamente ritornare sotto i suoi occhi.

Emesso un lieve sbuffo di irrequietezza e affilando lo sguardo nella speranza di intercettare gli occhi di Albert, ritornò alla sua postazione davanti alla tela bianca e riprese la sua operazione di spargere sulla tavolozza il colore, derivante da un altro tubetto questa volta ancora buono.

Era un’operazione lunga e intensa quella che preparava Scarlett alla realizzazione dei suoi dipinti e, a suo dire, anche quella che più la spaventava. Glielo si poteva leggere nello sguardo, in quei filamenti dorati che aveva al posto degli occhi, con quanta cura e dedizione sceglieva i tubicini disposti in una fila di ventiquattro colori e i sussulti che emetteva ogni qualvolta la tempera raschiava la tavolozza, quasi come se quello non fosse il colore da lei designato, quasi come se il contenuto di quei tubicini - comprati chissà dove e a poco prezzo – fosse una continua sorpresa per Scarlett, la quale il più delle volte li osservava con una ruga a solcarle la fronte diafana.

«Scarlett?» la richiamò Albert dalle sue continue divagazioni che l’avevano vista per due buoni minuti ad osservare con sguardo nervoso la tavolozza ormai completa dei colori sufficienti al dipinto.

La rossa alzò lo sguardo interrogativo, inclinando leggermente la testa, invogliando Albert a continuare, ancora non del tutto conscia dei propri gesti così come si sentiva ogni volta in sua presenza.

Era normale che Scarlett perdesse a volte il senso del tempo e dello spazio quando intorno sbucavano due occhi turchini e due fili di capelli color pece. Più che un forte sentimento di attrazione, per lei diventava quasi un’indicibile paura che le rodeva le viscere e le faceva alterare i sistemi vitali. Fin dal loro primo incontro, sulle due poltroncine in pelle sintetica dell’ufficio-studio del dottor Sullivan, tra le varie scartoffie e macchinari che odoravano di medicinali e disinfettanti, Scarlett aveva potuto giurare che Albert aveva un che di maligno nello sguardo ogni qual volta che la fissava, affettando l’aria che li separava, quasi come se al posto di quei bellissimi occhi azzurri avesse due proiettili - di piombo - che miravano in sua direzione, puntando alla testa, al cervello.

Ed era questo, Albert per Scarlett. Un buco. Un tarlo. E Scarlett più grattava, più il foro si allargava, le inacidiva le orbite, le intasava le vie respiratorie prendendo pieno possesso delle sue facoltà.

Ma questo solo quando lui era presente, per il resto Scarlett rimaneva lucida e vigile finché col sopraggiungere della notte, distesa supina sul suo letto, i medicinali non facevano effetto.

«Cosa dipingi?» la interrogò il ragazzo seppur la sua attenzione fosse tutta rivolta a una radio d’epoca rinvenuta nel laboratorio di pittura prima ancora della sua riapertura da parte della rossa.

Scarlett arrestò il suo raschiare sulla tela e intinse il pennello nel bicchiere colmo d’acqua per diluire la consistenza, densa e compatta, del colore che si accingeva a deporre con una linea leggera sulla distesa bianca e ruvida. Sorbita dal suo lavoro quasi si dimenticava di aprir bocca per pronunciare la risposta alla domanda del ragazzo, la quale risposta era stata prescelta tra le tante, offensive e non, a disposizione nella sua mente.

«Non sono affari che ti riguardano» emise con un latrato quasi cagnesco non lasciando sfuggire tuttavia ad Albert la frazione di secondo durante la quale i suoi occhi si erano posati su di lei prima del sopraggiungere del silenzio.

You are the hole in my head
You are the space in my bed
You are the silence in between what I thought
And what I said

«Pensi mai di uscire da questo posto?»

Nuovamente la voce di Albert tornò, come una mosca fastidiosa, a punzecchiare le orecchie di Scarlett tutta intenta nella realizzazione del suo capolavoro.

Non che Albert fosse mai stato quel tipo di ragazzo incline alla conversazione. Paradossalmente a come Scarlett continuava a figurarselo in quel frangente di tempo a poca distanza l’uno dall’altra, Albert era sempre stato un tipo tranquillo e a cui nulla oramai poteva recare sorpresa o meraviglia. Era come se da quando era nato, il mondo avesse perso ogni suo fascino tale da procurargli emozioni. Del resto a distorcergli la mente e a confondergli il cervello vi era la sua malattia, ma questo sembrava turbarlo tanto quanto Scarlett, che ne ignorava addirittura l’esistenza.

Non che non si fosse domandata il perché della sua presenza in quella struttura, semplicemente dava per scontato il fatto che lui fosse l’ennesima cura dopo le tante provate dai medici, somministratale per migliorare la sua condizione e che evidentemente sembrava addirittura funzionare. Nonostante questo Scarlett non riusciva a scrollarsi di dosso la paura che aveva di lui – per lui.

La ragazza tracciò il contorno del suo soggetto con una lieve linea per poi accostare ad essa un grumo di colore il quale poi veniva spalmato abilmente con un pennello più spesso, dalla punta e dal manico consunto.

«Non pensavo neanche di entrarci, figurati se penso di uscirne» asserì abilmente scoccando un’occhiataccia ad Albert il quale dapprima si corrucciò, intento a rimuginare la strana risposta riservatagli dalla rossa, e poi come se avesse scoperto chissà che cosa si illuminò negli occhi di una strana luce che gli fece distendere gli zigomi e indirizzare uno sguardo del tutto compiaciuto a Scarlett.

La ragazza si rifugiò dietro la sua tela sperando di non rivedere sbucare quei capelli corvini per un buona mezz’ora, il tempo di rifinire il suo dipinto. Era percorsa tutta da un tremito che sembrava provenirle da un punto all’altezza dello stomaco come se al suo interno vi soggiornasse uno stormo di ronzanti calabroni che continuava a farle tremare le pareti interne del suo organo muscolare. Era una sensazione ben nota alla povera Scarlett e che rivedeva in Cecilia, sua nuova amica in quella struttura, quando essa tutta tremante si accucciava alla sua figura nel cuore della notte e, come un gatto alla ricerca di fusa, si raggomitolava sotto le sue coperte trovando conforto dopo un brutto sogno. Quel tremore era simile alla paura della notte provata da lei in un tempo immemorabile e che condivideva solo con la tanto amata sorella e che poi veniva dimenticato quasi del tutto allo spuntare del giorno, quando i deboli raggi solari la sorprendevano ancora nel letto di lei.

Albert scatenava in lei tutte queste più intense emozioni, ma lei era poco avvezza a manifestarle e lasciava che la corrodessero fin dentro le ossa, ustionandole le scapole, triturandole le costole così da sbriciolarsi come un muro fatto di calce che per troppo tempo è stato abbattuto dal sole. Ma Scarlett continuava ad agglomerare linee, colori su colori, issando quel tanto odiato muro fatto di tela e di tempera per separarla da lui.

«Ho finito» mormorarono le labbra di Scarlett mentre le sue mani si prestavano a levigare il volto che per tante ore aveva subìto l’opera del suo pennello. Gli occhi gialli si soffermarono sulla rotondità del viso, sulla fossetta sul mento, sulle ciglia ispide e sullo sguardo turchese che tanto somigliava a quello della sorella.

Albert slegò le braccia dalla salda morsa in cui aveva soffocato il petto e guardò la pittrice di sottecchi con un’espressione afflitta, del tutto fuori dal contesto.

«Che cosa hai dipinto alla fine?» chiese con l’intenzione di sbirciare al di là della tela, simulando questa volta una curiosità esagerata che però sembrò guastare repentinamente l’umore di quella mattina e che adesso mutava in un candido sorriso – il secondo per l’esattezza - derivatogli dal permesso di Scarlett di vederla dipingere.

La rossa impallidì e l’aria arcigna che da sempre l’aveva caratterizzata svanì dal suo volto. Solo allora la verità di quella paura sviscerante le crollò sulle gracili spalle, facendole perdere per una breve frazione di tempo tutta la lucidità che la sua mente insana necessariamente bisognava.

«Ho dipinto te» soffiò e quasi rimase incredula di quelle sue stesse parole, giacché suonavano come una bugia.

Che alla fine i tre quarti della sua già parziale sanità mentale erano occupati da lui così come i restanti ettari del suo cuore.

You are the night time fear
You are the morning when it’s clear
When it’s over you’ll start
You’r
e my head
You’re my heart

 

«Me?» domandò stranito Albert inarcando un sopracciglio sulla sua fronte giovane e per la prima volta destando una sana curiosità e un minimo d’interesse.

«Sei sordo o cosa?» lo rabbonì meglio la rossa seppur con voce tremante affilando di più la lingua, unica sua vera arma. Approfittò del timido sorriso di Albert per girare di controvoglia la tela e lasciare che le sue impronte si impigliassero nel colore non ancora del tutto rappresosi sull’estremità superiore della superficie. Le sue rise di scherno e di derisione: sembravano essere il tipo di punizione più adatta e quel tiro mal disposto della sua testa.

Albert ne scrutò i minimi particolari come se fosse stato il più abile dei critici artistici, lui che di quadri e opere d’arte ne aveva viste fin poche.

Poi tutto rasserenatosi e alzato lo sguardo serio su Scarlett, essa ebbe un fremito nel constatare un'altra verità – era la prima volta che riusciva a distinguerne i lineamenti ad una simile vicinanza.

«E’ molto bello, Scarlett. Ma perché mi hai disegnato con gli occhi blu?» chiese il malcapitato Albert, del tutto incosciente di cosa quelle sue parole avrebbero scatenato nella mente già afflitta della rossa.

Scarlett ebbe tutta l’idea di rispondergli male e di scaraventargli la tela in faccia, essendo del tutto convinta che quella domanda fosse soltanto l’ennesima provocazione da parte del ragazzo. Ma le parole sventurate non uscirono dalla sua bocca, al contrario si morse il labbro inferiore come per sigillare ancor meglio le sue labbra in attesa di altre spiegazioni.

«Io ce li ho neri» sentenziò Albert il quale non riusciva a comprendere come il margine del suo errore fosse così grande da figurarsi due specchi di mare laddove regnava soltanto il nero più assoluto su carta bianca.

A Scarlett parve in quel momento che il cavalletto sulla quale era stata appoggiata la sua mano, si fosse tramutato in burro fuso tanto temette di farlo cedere sotto il lieve peso delle sue braccia ossute.

Albert sapeva fin dalla prima volta in cui si erano incrociati per i corridoi opachi di quella struttura che la nuova arrivata, quella a cui era stata assegnata la camera 1022, a dispetto dei dottori e degli inservienti la più remota, fosse affetta da una qualche malattia agli occhi. D’altro canto Albert non avrebbe saputo niente di più, data la sua costante sorveglianza e il suo scarso interesse a causa della sua schizofrenia e alla sua cura a base di antipsicotici.

«Che cos’è che non va nei tuoi occhi, Scarlett?» provò a chiedere nuovamente, sentendogli l’ansia crescere dentro e soffocarlo come un macigno fatto di piombo. Ma ad un suo passo in direzione di Scarlett seguì un repentino allontanamento da parte di quest’ultima la quale si coprì le orecchie con ostinazione fanciullesca, non volendo continuare quella conversazione a dir poco traumatica.

A dire il vero, pensava di aver perso la sensibilità alla lingua proprio come le prime settimane quando era arrivata a Kriptonale.

La diagnosi dei medici le ustionava ancora le palpebre e si contrapponeva alla grande varietà di sfumature di grigio che distingueva tra gli spigoli dei mobili, tra le assi del pavimento, nel lento ondeggiare delle foglie in giardino.

«Non puoi far niente per i miei occhi, sono così e basta»

Scarlett non vedeva più i colori, e i medici non se ne spiegavano il motivo.

 

No light, no light in your bright blue eyes
I never knew daylight could be so violent
A revelation in the light of day
You can’t choose what stays and what fades away

 

«Sono così come?» la apostrofò e la mano di Albert tremò impercettibilmente mentre le unghie affondavano nella tela, resa ruvida dal colore,anche a costo di sgualcirla.

Scarlett sentì l’inferno crescerle dentro, e il sale degli occhi domava l’incendio, placava le fiamme e disinfettava lo stomaco dalle scorie di rabbia e vergogna.

«Sono daltonica»

La bocca le si riempì del sapore acre del sangue proveniente dal suo interno guancia, martoriato dai denti acuminati che si strusciavano fra loro per la stizza repressa.

Non che non vedesse i colori, Scarlett li confondeva tra di loro, come se appartenessero ad un’unica tonalità di luce, tutto ciò che riusciva a vedere erano le immense gradazioni di blu cobalto che avrebbe tanto voluto fossero racchiusi negli occhi di Albert.

Invece non aveva occhi, lui. Le sue iridi erano privi di luce, puro terrore, fili di ferro, pece bollente e a Scarlett parevano tanto pesanti quasi quanto il suo cuore, in quel momento.

Albert si aprì in un ghigno e la rabbia lasciò posto ad un’ilarità malsana che gli dilatò le pupille e gli soffocò le grida. Era lui contro la sua malattia.

«Tu sei solo pazza» sputò fuori quasi come per giustificarsi e le risa gli morirono in gola, serrato tra la sua innata pazzia e l’egoismo di coinvolgere lei, così simile a lui, in quel circolo vizioso.

E fu così che Scarlett non urlò quando le si precipitò addosso,urtando il cavalletto e sferzando il suo viso nel ritratto. Non si curò dei ventiquattro tubetti di colori a tempera che rimbalzarono sul pavimento come se fossero biglie, né del bicchiere contenente i pennelli e l’acqua sporca che le bagnò le calze a righe.

Albert le trapanava il cuore e le succhiava via l’anima nel buio più profondo della stanza, la stringeva a se in una morsa soffocante e la baciava, la baciava di baci che sapevano del sangue di Scarlett, di ferro e ruggine. Le sue braccia erano catene fredde e dure da dove Scarlett avrebbe voluto non esserne mai liberata.

 

My love has concrete feet

My love’s an iron ball

 

«Scarlett?»

C'era qualcos'altro che Albert aveva voglia di dirle quel pomeriggio di fine aprile, qualcosa di vecchio, qualcosa di importante, qualcosa di irrimediabilmente importante. Eppure Scarlett non riusciva a ricordarsene e più grattava le pareti della sua mente più catrame oleoso la affogava e appiattiva ogni sua singola sensazione. Sapeva di lui fin sotto le unghie, ma questo gli altri non l’avrebbero dovuto sapere.

«Cosa?» mormorò la rossa carezzando con la punta delle dita il colletto di cotone sintetico di cui era fatta la maglia di Albert - una maglia nera, di quello era pur certa – mentre il naso all’insù sfregava paziente il collo cicatrizzato di lui, attendendo che il sapore delle sue labbra risciacquasse la sua bocca dal sangue e dai residui di medicinali che ancora le gonfiavano lo stomaco.

Ma Scarlett non seppe mai cosa lui le volesse dire.

La porta si apriva sempre prima che le lunghe ciglia della rossa potessero asciugarsi delle ultime lacrime. L’ago della siringa trovava facilmente la sua vena consorte ed entrata dolcemente in lei si faceva trapassare dal siero maleodorante che in pochi minuti sarebbe arrivato ai neuroni dei due infermi.

In quei momenti le loro mani sapevano di burro, scivolavano via l’uno dalle braccia dell’altra.

Il loro era un amore malsano, un aborto della natura che giammai si sarebbe dovuto manifestare. Avrebbero di gran lunga preferito continuare ad ignorarsi invece di ferirsi entrambi con  pillole di ricordi dimenticati per poi ricominciare tutto da capo, come se il giorno prima non fosse mai arrivato.

Albert udiva perfettamente il sibilo di Scarlett e come avrebbe inspirato profondamente non appena l’ago le avrebbe perforato la sottile pelle; e Scarlett catturava i riflessi di luce che emanavano gli occhi di Albert, come quella sottile scintilla di coscienza scomparisse e si facesse sempre più lieve man mano che la sua mente perdesse ogni controllo sul suo corpo, fino a scomparire del tutto.

Scarlett e Albert si ammalavano ogni giorno, alla stessa ora della stessa malattia.

Si erano ammalati ieri e loro ancora non lo sapevano.

Non esisteva alcun rimedio per la loro memoria ma non sarebbero bastati la quantità spropositata di medicine, i litri di calmanti, i quintali di antipsicotici per tenerli l’uno lontano dalle braccia dell’altro.

And I’d do anything to make you stay
No light, no light
No light

Pazienza.

Scarlett avrebbe dovuto attendere trentasei ore e due minuti per ricordarsi di Albert.

L’attesa sarebbe stata spossante, forse un poco ridicola e perfino irritante, mentre i medici del Kriptonale, barricati dietro le loro provette e i loro intrugli, avrebbero trovato l’ennesimo farmaco per sconfiggere la loro bizzarra sindrome.

 

Tell me what you want me to say

 

Ma a questo mondo esistono malattie ben più gravi da cui è impossibile esserne curati.

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Ebbene carissimi, visto che non posso produrre nulla di nuovo causa maturità, propongo alcune sciocchezzuole che mi ritrovo perse nei meandri del mio pc. Tecnicamente questa one-shot l'ho scritta la scorsa estate e si è classificata prima al concorso "Florence and the Machine contest" indetto dal FanFiction Italia. Credo di aver dato veramente l'anima per scrivere questa storia, storia che è un po' mia visto che ho sempre avuto un certo interesse verso le malattie mentali e quindi manicomi&Co. E poi la mia Scarlett era un personaggio che già da circa due anni mi frullava in testa ovviamente insieme ad Albert.La canzone che ho utilizzato è No Ligth che è stato amore a primo ascolto e poi due frasi di Heavy in your arms che la trovo perfetta per il personaggio di Albert. La storia sinteticamente è la seguente: Scarlett e Albert sono due dei tanti pazienti all'interno del Kripton Hospitale, ospedale psichiatrico predisposto per la cura e l'assistenza dei malati di mente ma anche per persone con problemi o deficienze mentali o fisiche (quindi anche soggetti ciechi, muti ecc) Scarlett ha una forma aggravata di daltonismo che non le permette di vedere i colori o semplicemente di distinguerli tranne le tonalità indaco-blu-violette (di cui ovviamente Scarlett è ossessionata e li vede ovunque); mentre Albert ha una forma di schizofrenia e quindi ecco svelato i suoi repentini sbalzi d'umore e il suo disinteresse totale alla vita, essendo privo di emozioni o avendole tutte contemporaneamente. Mi sembra di aver letto da qualche parte che sono inammissibili le storie d'amore fra due soggetti toccati di mente ma non ne sono sicura di questo, quindi prendete l'intervento dei medici come una sorta di precauzione per far si che Albert non faccia del male a Scarlett. E quindi ecco che prontamente i dottori intervengono che intrugli capaci di bloccare la mente delle persone e quindi azzerare la memoria per un certo intervallo di tempo, in modo tale che i due per trentasei ore non si ricordino l'uno dell'altro. L'ultima frase è quindi una sorta di denuncia al lavoro di questi medici-bastardi che invece di trovare un rimedio alle loro vere malattie ovviamente incurabili perdono tempo ad allontanare due persone che non potranno mai essere divise. La canzone l'ho ascoltata mentre rileggevo la storia e devo dire che fa un certo effetto, quasi di angoscia che poi è il vero succo del testo della canzone: l'assenza di luce negli occhi di Scarlett (per lo pseudo-daltonismo), negli occhi di Albert (neri), negli occhi di entrambi quando svengono per la medicina, e nelle loro menti come se vi fosse stato un blackout.

Spero che vi sia piaciuta-- in estate tornerò finalmente a scrivere 

un bacio a tutti,

Sil.

*Nda: scusate ma nella cover di partenza c'è un errore-- invece di his doveva essere her. Sorry ;)

   
 
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