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Autore: Cali F Jones    07/05/2013    2 recensioni
{Parigi, 1939}
Arthur Kirkland, di origini inglesi, vive a Parigi dove, insieme alla sorella Michelle e al cognato Francis, gestisce una piccola locanda. Un giorno il cognato si arruola per la legione straniera e Michelle, preoccupata per la sua incolumità, prega il fratello di seguirlo. Arthur cederà, sperando che, nel frattempo, la vita da legionario lo faccia guarire da una vecchia ferita d'amore.
Alfred F. Jones è un giovane americano da poco trasferitosi a Parigi, pieno di speranze, felicemente fidanzato con Natalia e in procinto di sposarla. Con questa promessa, Alfred si arruola nella legione straniera e casualmente conosce il fratello maggiore di Natalia, Ivan, fermamente contrario al matrimonio tra i due.
Le vite dei personaggi si incroceranno più volte e cambieranno radicalmente, mentre sullo sfondo imperversa la Seconda Guerra Mondiale.
Genere: Guerra, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Seychelles
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

 

Français et Françaises!

Nous faisons la guerre parce qu’on nous l’a imposée. Chacun de nous est à son poste, sur le sol de France, sur cette terre de liberté où le respect de la dignité humaine trouve un de ses derniers refuges. Vous associerez tous vos efforts, dans un profond sentiment d’union et de fraternité, pour le salut de la Patrie.

Vive la France!

 

La voce gracchiante alla radio cessò e, al suo posto, prese a suonare l'inno nazionale di Francia.
La sala della piccola locanda giaceva sopita in un silenzio quasi irreale, mentre quelle note ben conosciute aleggiavano nel coro di respiri sospesi.
Michelle teneva in braccio il suo bambino, il suo piccolo Matthieu, e gli accarezzava con lentezza e mestizia i capelli color del grano. La sua mente galleggiava ancora in quel fiume di parole appena udite. La sensazione che la colse, come una ferrea stretta allo stomaco, era una delle più strane avesse mai provato. Era la prima volta che udiva un messaggio simile. La Francia era ufficialmente entrata in guerra al fianco della Gran Bretagna e contro la Germania. L'annuncio trasmesso alla radio aveva rimarcato più e più volte l'ingenza e la vitale necessità che l'intervento militare francese avrebbe apportato al destino di quella lotta apparentemente così pazza e priva di un qualsiasi perché.
«Maman, maman! J'ai faim!» piagnucolò il bambino, ancora accomodato tra le braccia mingherline della ragazza. Con delicatezza, la giovane lo fece sedere sul bancone e gli lanciò un sorriso rassicurante.
«Vado a preparti il pranzo, tesoro. Tu fai il bravo e rimani qui, insieme allo zio Arthur.»
Così dicendo, Michelle lanciò uno sguardo d'intesa a suo fratello, impegnato a passare una vecchia spugna su un tavolo in legno, ripulendolo dallo stampo umido lasciato dai boccali.
«Zio Arthur, zio Arthur!» chiamò Matthieu, sporgendosi appena lungo il bancone. I suoi grandi occhi color ametista si spalancarono quando incrociarono quelli verdi smeraldo dello zio. Arthur abbozzò un lieve sorriso, sforzando a malapena un angolo della bocca, mentre si avvicinava, dondolando un poco, al bambino. Quando i loro visi furono talmente prossimi da poter sentire l'uno il respiro dell'altro, i loro occhi rimasero spalancati e, a tacito accordo, presero a fare quel gioco che tanto li divertiva: la gara di sguardi.
«Il primo che ride perde» precisò il piccolo, come a voler assicurarsi che lo zio non imbrogliasse in alcun modo. Restarono in silenzio a fissarsi con un'intensità degna dei più temibili guerrieri antichi, quando, tutto ad un tratto, l'espressione concentrata di Arthur si tramutò in una smorfia alquanto buffa a cui certamente un bambino di cinque anni non avrebbe resistito senza ridere. Senza contare, tra le altre cose, l'ilarità che le sue folte sopracciglia erano in grado di provocare non solo nei bambini. L'azione dello zio sortì certamente il suo effetto, giacché il piccolo Matthieu scoppiò a ridere con uno sbuffo sinceramente divertito.
«Ça ne compte pas!» si lamentò, incrociando le braccia al petto e gonfiando le guance in una smorfia fintamente offesa. Arthur, intanto, ghignava apertamente, vantandosi a petto in fuori della sua "impresa vittoriosa".

 

«Sono solamente preoccupata per te, non vorrei che ti chiamassero a combattere.»
«Che mi chiamino a combattere è inevitabile, mia cara. Ed è giusto che io serva il mio Paese.»
Al termine di quella frase, un frastuono di porcellana infranta risuonò in tutta la stanza. Michelle fissò con occhi sbarrati e leggermente inumiditi dalle prime lacrime il volto serio del marito che pronunciava quelle parole con quella freddezza che mai l'aveva caratterizzato.
Le mani della ragazza tremavano vistosamente e le sue gote assunsero in quell'istante mille e più sfumature di rosso, mentre tutta la sua forza di volontà si concentrava nel respingere quelle lacrime che, prepotenti, sembravano in procinto di affacciarsi sui suoi occhi nocciola. L'uomo tenne lo sguardo puntato a terra, incapace di sostenere gli occhi carichi di dolore e delusione della moglie, ancora sull'orlo di un amaro pianto.
Sospirò mestamente, per poi continuare: «Mi dispiace, Michelle. Lo sai che, se potessi, eviterei tutto questo. Ma non posso.»
A quel punto, la ragazza si avvicinò con un paio di veloci falcate al marito e prese a tempestarlo di deboli pugni sul petto, mentre con voce spezzata dai singhiozzi e dai singulti e il viso inondato di lacrime urlava disperata: «E non pensi a me? E a nostro figlio? Se dovesse accaderti qualcosa, io cosa farei? Non pensi a Matthieu? Come puoi pensare che possa crescerlo da sola? Ha bisogno di un padre! E io ho bisogno di un marito! Ne ho... bisogno!»
Il tono della voce si era progressivamente affievolito, coperto quasi interamente da quel pianto interminabile che sembrava doverle squartare il cuore. Le braccia del marito si erano strette attorno al busto magro della giovane, la quale aveva smesso di colpirlo ed ora stringeva i lembi della sua camicia con la disperazione tipica di chi teme un addio.
«Ti prometto che tornerò. Te lo giuro.»

 

Se c'era una cosa che Arthur Kirkland odiava con tutto il suo cuore era che gli venisse rinfacciata la sua scarsa, anzi, praticamente nulla, abilità ai fornelli. E quel ragazzino, nonostante tutta l'innocenza e l'ingenuità che dimostrava quando confrontava la cucina del padre e quella dello zio, sembrava voler girare più e più volte il coltello nella piaga. Le sopracciglia dell'inglese si aggrotarono e il suo viso assunse un colorito inquietante quando il piccolo Matthieu sottolineò come i suoi “deliziosi” scones gli avessero procurato un gran mal di pancia. Tuttavia, quando il suo sguardo accigliato incontrò quello giocondo del nipotino l'irritazione sparì in un istante; in fondo, non riusciva davvero ad arrabbiarsi di fronte al bambino, nonostante fosse il figlio di quello che lui definiva “il suo peggior nemico”.
Quando, alcuni anni prima, la sorella gli si presentò davanti insieme al francese, informandolo della loro repentina decisione di sposarsi, Arthur giurò di aver rischiato un attacco di cuore. Perché, d'altronde, chi meglio di lui rappresentava l'orgoglio britannico in tutta la sua spocchiosità e freddezza?
Era nato a Londra, due anni dopo l'inizio della Grande Guerra. Suo padre combattè per la patria e ritornò dalla guerra fortemente provato e mentalmente fragile. Sua madre si ammalò gravemente e morì pochi mesi dopo aver dato alla luce sua sorella Michelle. Alla perdita della moglie, il signor Kirkland perse completamente la ragione e venne internato in un ospedale psichiatrico per reduci di guerra. Morì due anni dopo per cause naturali.
Adolescente, Michelle conobbe Francis Bonnefoy, un giovane originario di Parigi, e se ne innamorò. Arthur non approvò mai Francis; lo guardava perennemente con quel tipico cipiglio con cui tutti gli inglesi avevano da sempre scrutato i loro vicini al di là della Manica. Lo aveva sempre considerato un insensibile, maniaco e pervertito, del tutto estraneo al concetto tipicamente british di “gentleman”. Tuttavia, dopo un lungo periodo durato diversi mesi, Arthur accettò il fatto che la sua sorellina fosse innamorata di un francese ed approvò infine la loro unione. Si sposarono e si trasferirono in Francia, dove presero a gestire una piccola locanda in centro a Parigi. Rimasto solo in Inghilterra, Arthur decise di raggiungere la sorella e il cognato dopo aver ricevuto la notizia dell'imminente arrivo di un bambino. L'inglese non realizzò mai veramente quanto fosse, allo stesso tempo, eccitato, emozionato e preoccupato quando sua sorella lo diede alla luce. Fu solo grazie a quel bambino che Arthur, infine, decise di rimanere in Francia ad aiutare Michelle e Francis nella gestione della locanda. In fondo, Matthieu aveva ragione: non era mai stato una cima nel cucinare.
«Matthieu, non punzecchiare lo zio Arthur, lo sai che non ha mai avuto buon gusto.»
La voce del francese risuonò ridente alle loro spalle. Furono alcuni gli istanti di silenzio che accompagnarono lo sguardo truce dell'inglese, durante i quali egli si stava sforzando di soffocare quella vocina del suo cervello che lo invitava, sempre con la tipica posatezza britannica, a saltare alla gola del cognato.
«Smettila di umiliarmi davanti a mio nipote!»
«Oh, ma se non c'è un pubblico non è altrettanto divertente, non trovi?»
«Evidentemente vuoi morire, fott--»
«Arthur!» la voce seria e ferma di Michelle lo richiamò all'ordine «Non dire certe parole davanti a Matthieu!»
Immediatamente, l'inglese si morse la lingua, non potendo fare a meno di notare il cognato che ghignava divertito dall'intera scena. Solo Michelle fissava un punto imprecisato nel vuoto. Non sorrideva, né rideva. Tutta la sua felicità e spensieratezza sembravano essere state spazzate via con un colpo di vento. La ragazza si voltò e si avviò lungo la rampa di scale che conduceva al piano superiore. I suoi passi leggeri producevano sul legno delle scale un lieve scricchiolìo che cessò una volta che la ragazza ebbe raggiunto il piano e si fu chiusa nella sua stanza.
Arthur non scostò gli occhi da lei nemmeno un secondo. Perché quel comportamento così strano? Era abituato a vedere la sorella sempre sorridente, giocosa ed impegnata ad occuparsi con un amore smisurato del suo bambino. Ed ora se n'era semplicemente andata in solitudine.
La seguì, deciso a parlarle e a scoprire che cosa fosse successo. Quando, tuttavia, fu al cospetto della porta della camera da letto, udì dei singolari singhiozzi provenire dall'interno. Michelle stava piangendo. Prima di entrare nella stanza, colpì un paio di volte con le nocche della mano destra il legno intarsiato della porta, avvisando la sorella del suo imminente ingresso. Lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi era a suo modo straziante: la ragazza sedeva rannicchiata in un angolo del letto, singhiozzante, stringendo tra le dita un fazzolettino in stoffa bianca umido di pianto. A passo lento, Arthur si appropinquò al letto e, non appena la sorella si accorse della sua presenza, gli lanciò le braccia al collo, stringendolo in un abbraccio solenne e nascondendo il viso contro la sua spalla, mentre piangeva tutto il suo dolore.
«La guerra, Arthur. Vi porterà via. Non voglio... non voglio...».

 

«Hey! Avete sentito? Hitler ha invaso la Polonia.»
«Già, ed ora Francia e Gran Bretagna hanno dichiarato guerra.»
«Mi chiedo se anche noi saremo coinvolti, quei bastardi inglesi sarebbero perfettamente in grado di tirarci in mezzo anche questa volta!»
Il vociare caotico e quella parlata strisciata tipica dell'Oltreoceano attirarono immediatamente tutti gli sguardi carichi di stizza e nervosismo degli altri clienti.
Francis giunse al loro tavolo, portando su un vassoio una bottiglia di bourbon invecchiato e cinque bicchieri. Li posò delicatamente sul tavolo, mentre i gesti concitati dei ragazzi ne facevano visibilmente tremare il piano.
«Hitler è un pazzo, lo sa che se entriamo in guerra noi non ha alcuna speranza!»
«Ora come ora non ci sono i presupposti perché entriamo in guerra.»
«Ma potrebbero essercene in futuro. Immagina che quel crucco prepari un attacco ai nostri danni...»
«Perché dovrebbe fare una cosa tanto stupida?»
«Perché è stupido!»
«Ha invaso una cazzo di nazione! Come puoi definirlo stupido?»
Il francese li scrutò attentamente. Erano tutti ragazzi di circa vent'anni, forse qualcuno più giovane. Uno in particolare lo incuriosì particolarmente; rideva sguaiatamente, come i suoi amici, trincando, di tanto in tanto, un bicchiere di whisky. Era decisamente bello, i suoi occhi erano azzurri come il cielo in quelle fresche giornate primaverili in grado di mettere il buonumore anche al più burbero degli uomini. Aveva capelli biondi, con qualche sfumatura lievemente più scura, tendente al cenere, scompigliati, ma, allo stesso tempo, dotati di un'impeccabilità unica, come se un singolo e delicato soffio di vento avesse potuto scomporre quell'armoniosa perfezione. Era alto e la sua stazza non indifferente, data principalmente dai muscoli che a malapena si intravedevano attraverso la divisa militare. Ma ciò che colpiva maggiormente un primo osservatore poco attento ai dettagli era sicuramente il suo sorriso: non esisteva al mondo nulla di più allegro e smagliante. E tantomeno perenne. Sì, perché Francis ben conosceva quel giovane yankee. E avrebbe potuto giurare di non averlo mai visto con un'espressione mesta o contrita sul bel volto. Forse era per quello che aveva così tanto successo con le ragazze.
«Ma il più stupido, signori miei, è il nostro Alfred che ha deciso di porre fine alla sua vita in maniera lenta e dolorosa!»
Una marea di risate si sollevò quando un altro ragazzo, seduto accanto al biondo, alzò il suo bicchiere, come per brindare.
«A questo gran figlio di puttana che presto si sposerà!»
Ancora gioiose risate risuonarono nel locale. E la guerra e i tristi pensieri annegarono nel whisky.

 

«Francis, mi stai ascoltando?»
All'improvviso, la voce irritata del cognato distolse l'attenzione del francese da quella combricola confusionaria di divora-hamburger.
«Dannazione, fottuta rana! Ti sto parlando di una cosa seria!»
Il viso dell'inglese aveva assunto in quel momento mille e più sfumature di rosso, dettate per lo più dalla stizza crescente. Come osava il francese ignorarlo?
Immediatamente, Francis afferrò Arthur per un braccio, spingendolo a seguirlo, e lo condusse sul balcone della locanda che affacciava direttamente sulla Senna.
Il sole era sceso da poco e le prime luci della città avevano cominciato a rischiarare quel cielo notturno ove ancora erano visibili le stelle.
Il francese infilò una mano nella tasca dei pantaloni, estraendone un pacchetto di sigarette ed offrendone una al cognato. Immersi in quel finto silenzio e in quel vociare lontano, i due stettero appoggiati contro la balaustra ad ammirare lo spettacolo di Parigi che si accendeva, luce dopo luce, sotto i loro occhi.
«Michelle è preoccupata per te, Francis. Vorrebbe che tu stessi lontano dalla guerra.»
L'altro sospirò, mentre, dalle guance gonfie soffiava il fumo di sigaretta. Se solo avesse potuto, avrebbe preso sua moglie e suo figlio e li avrebbe portati lontano. Lontano da Parigi, lontano dalla Francia, lontano dalla guerra. Li avrebbe portati al sicuro e nulla avrebbe turbato la loro serenità. Ma non poteva. Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto farlo.
«Arthur, anche tu sarai coinvolto in tutto questo, lo sai?»
«Io non ho una moglie e un figlio, posso permettermi di morire in guerra.»
«Ma hai una sorella. E un nipote. E, per quanto ti costi ammetterlo, anche un cognato. Hai una famiglia che sentirebbe la tua mancanza.»
Un lieve ghigno sarcastico si dipinse sulle labbra secche e screpolate dell'inglese.
«Tu sentiresti la mia mancanza, rana?»
Uno sbuffo divertito abbandonò la bocca del francese, il quale, con un gesto amichevole, diede una piccola spinta all'altro, facendolo appena barcollare.
«Se tu non ci fossi, a chi riserverei il mio repertorio di battute sulla tua pessima cucina?»
Fu la prima volta che Arthur non se la prese effettivamente per una spiritosaggine sul suo conto. In fondo, quando mai loro due si ritrovavano a parlare come se fossero amici di lunga data, senza lanciarsi freddure o colpi bassi?
Il calare della sera portò con sé un lieve venticello che scompigliò loro i capelli.
«Devo ammetterlo, rana; la tua città è davvero bella.»
«Già, lo è.»
Così dicendo il francese posò un braccio sulle spalle strette e scarne dell'inglese, sorridendogli sinceramente. «Torneremo, vedrai.»
Il silenzio cadde nuovamente tra i due. E rimasero ancora lì, affacciati al balcone fino a quando l'ultima luce, giunta l'alba, si spense.



 

Note dell'autrice:

Salve a tutti! Mi sento una persona orribile a cominciare un'altra long, avendone così tante in sospeso. Spero di riuscire a continuare anche le altre, almeno quest'estate, appena avrò finito con gli esami dell'università.
Allora, questa storia è un tentativo di essere una persona coerente -anche se so già che fallirà perché non sono una persona coerente-. Voglio provare ad aggiornarla ogni settimana e vedere di finire una long-fic una volta per tutte. Ce la farò! Della serie: prima la convinzione.
Vi dico subito che questa fanfiction non è storica, non c'è nulla di storico. Ciò che scrivo e scriverò sulla Seconda Guerra Mondiale è quanto mi ricordo dal liceo e quanto leggo da Wikipedia. Quindi, evitate i commenti “non è accurato storicamente”. Lo so, per certi punti non sarà preciso e perfetto dal punto di vista storico, ma non mi interessa. Il mio scopo non è insegnarvi la storia, ma raccontare.
Il titolo in inglese è preso da uno dei miei film preferiti, da cui ho preso ispirazione per scrivere questa fanfiction: “I diavoli volanti” -“The flying deuces”, appunto, in originale- di A. Edward Sutherland con Stan Laurel e Oliver Hardy -Stanlio e Ollio, per intenderci-. Se lo conoscete, più avanti capirete dall'ambientazione. Se non lo conoscete, guardatelo perché è un capolavoro della comicità degli anni '30-'40.
Bene, ora che ho spammato il film direi che ho concluso. Qui di seguito inserisco le traduzioni delle parti in francese. Se me ne sfugge qualcuna, fatemelo pure notare.
Grazie a tutti per aver letto questo primo capitolo. Alla prossima
~

Cali.

P.S. Non so se si è capito, ma Michelle sarebbe Seychelles. Himaruya non le ha dato un nome, il più accreditato è Sesel, ma a me Sesel fa abbastanza cacare come nome e perciò ne ho preso un altro popolare nel fandom, Michelle.
 

Traduzione:

Français et Françaises!
Nous faisons la guerre parce qu’on nous l’a imposée. Chacun de nous est à son poste, sur le sol de France, sur cette terre de liberté où le respect de la dignité humaine trouve un de ses derniers refuges. Vous associerez tous vos efforts, dans un profond sentiment d’union et de fraternité, pour le salut de la Patrie.
Vive la France!

Uomini e donne francesi!
Facciamo la guerra perché così ci è stato imposto. Ognuno di noi è al suo posto, sotto il sole di Francia, su questa terra di libertà dove il rispetto della dignità umana trova uno dei suoi ultimi rifugi. Unite tutti i vostri sforzi, in un profondo sentimento di unione e fraternità, per la salvezza della Patria.
Viva la Francia!

Maman, maman! J'ai faim!
Mamma, mamma! Ho fame!

Ça ne compte pas!
Non vale!

  
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