Something about me…
“Hell is not a place,
It’s a
state of
mind and body;
Hell is
an obsession
with
a
voice, a face, a name…”
Qui, sul mio letto di
morte, solo, come lo
sono stato per una vita intera, mi ritrovo a tirare le somme della mia
squallida esistenza …
Maledetto fin dalla
nascita a vagare
nell’ombra del mondo, senza poter godere della luce della
vita.
Mia madre diceva che
il giorno in cui
nacqui fu nefasto per il genere umano,poiché la nascita di
una tale infernale
creatura poteva solo essere presagio di qualcosa di spiacevole.
Dalle sue giovani
mani non è mai arrivata
una carezza per me, né dalle sue labbra rosse e piene una
parola dolce e
consolatoria. Non mi permetteva di toccarla, nè di chiamarla
madre,né tantomeno
di avvicinarla. Per lei ero solo un enorme problema.
Ogni qualvolta i suoi
grandi occhi verdi
si posavano su di me, non esprimevano mai amore o dolcezza, e nemmeno
pena, ma
solo rabbia: molte volte, durante la notte, la sua voce mi arrivava
ovattata
dalle pareti; si chiedeva come avesse
potuto partorire un tale figlio … in verità la
parola esatta era ‘mostro’.
Mio padre, una figura
assente, solo
superficialmente delineata nella mia mente,non mi ha mai riconosciuto
come suo
figlio,dopo la mia nascita si diede all’alcol e alle
prostitute, abbandonando
mia madre. Un ricordo prepotentemente salta fuori dalla mia mente,
riguarda lui:
in una delle sue rarissime visite, mi arrischiai ingenuamente a
chiamarlo
padre. Fu l’inizio di un incubo. Cominciò a
colpirmi con il suo bastone da
passeggio; colpiva così forte che potevo sentire le ossa
spezzarsi sotto la sua
furia. È uno dei
primi ricordi che ho,
avevo solo sei anni.
Mi lasciò
agonizzante in terra, e mentre
il suo respiro si calmava dopo quell’eccesso d’ira
che mi aveva quasi ucciso,
mi disse, come se fossi stato l’ultimo degli sguatteri di
quella casa e non
l’unico erede della sua casata, che in futuro mi sarei dovuto
rivolgere a lui
con l’appellativo di ‘Signore’.
Mia madre mi chiuse
in una stanza buia,
senza preoccuparsi per la mia salute, urlando alla cameriera di pulire
il
tappeto d’ingresso dal sangue.
Sapeva che odiavo
l’oscurità, ma trovava
un perverso piacere a chiudermi lì.
Con le poche forze
rimaste, riuscii a
seguire quello che il ‘Signore’ diceva alla donna
che mi ostinavo a chiamare
madre. L’accusava di aver partorito un aborto di natura, di
essere la causa
della sua rovina economica, di essere una sgualdrina che aveva giaciuto
con
chissà quale orrenda bestia infernale per generare un tale
mostro.
Di nuovo quella
parola, che alle mie
povere orecchie suonava come una condanna.
Poi le urla di mia
madre riempirono la
casa: diceva cose senza senso, sconnesse, come se stesse delirando
…solo da
adulto mi resi conto che la mia vista l’aveva fatta
impazzire. ‘La
colpa è del mostro, è sua non mia’,
queste
furono le ultime parole che sentii ,prima che il mio piccolo e fragile
corpo,
si abbandonasse al torpore del dolore.
Mani gelide mi
accarezzavano, unghia
invisibili grattavano contro i vetri della finestra, creature
terrificanti mi
tiravano i piedi e digrignavano i denti.
La voce,
uscì roca, grattando contro la
gola arsa dalle lacrime: ‘madre’.
Dopotutto invocavo il
suo aiuto. Cieco, in
quel buio impenetrabile, strisciai sul gelido pavimento, arrancai fino
alla
porta, dove i miei pugni, piccoli ed innocui, si abbatterono con tutta
la forza
di cui ero capace. Colpii quell’ostacolo,che allora mi
sembrava
insormontabile,fino a sentir male alle mani. Imploravo, gridavo e mi
dibattevo,
per uscire da quella stanza, per fuggire via dai miei incubi. Dei passi
svelti
corsero alla porta ma non l’aprirono; sentivo
singhiozzare,dei piccoli gemiti
di dolore. Qualcuno piangeva.
“Madre”cominciai a chiamare, anche
sulle mie guance scivolavano calde
lacrime , “madre ho paura, fammi uscire
…” nessuno rispose alla mia supplica,
che venne accolta dal freddo silenzio. Un sospiro dall’altra
parte della porta.
“Ti voglio bene, ti prego dimmi che anche tu me ne vuoi
… è tutto quello che
chiedo!” singhiozzi più forti cominciarono a
scuotermi.
Sapevo che era lei,
il suo profumo di
lavanda mi arrivava dalla fessura sotto la porta, mi stava ascoltando,
sentiva
il mio pianto,riusciva a sentire la mia paura, ma non faceva nulla per
porvi
fine.
“Ti
odio!” parole sussurrate, ma così
forti da poter buttare giù quella porta che mi teneva
lontano dal resto del
mondo.
“Odio la
tua vista, la tua faccia da
demonio e la tua voce da angelo! Ci sono tanti angeli
all’inferno, lo sai
questo? Giuro su Dio, vorrei che tu fossi lì, che fossi
lì con loro,che fossi
relegato in quel posto a cui appartieni.” Un momento di
silenzio, poi con voce
ferma inferse il colpo mortale: “Vorrei che fossi morto,
riesci a sentirmi?
Vorrei che fossi morto …”
Poi ci fu solo il
silenzio, per un
momento. Solo buio e silenzio.
Una chiave
girò nella toppa della porta,
riempiendo con il suo rumore metallico quel silenzio opprimente.
Ricordo perfettamente
il volto di mia
madre quando aprì quella porta e vide le condizioni in cui
versavo: disgusto,
solo questo sentimento sfigurava i suoi lineamenti delicati.
Con i capelli scuri
scompigliati, gli
occhi cerchiati di
nero, uno scialle
sulle spalle e i piedi nudi, si diresse verso la porta
d’ingresso e l’aprì sul
cortile innevato.
“Va
via!”
Con gli occhi
sbarrati la guardai, per
capire se dicesse sul serio. Lei non mi guardava, il suo sguardo era
perso nel
vuoto bianco della neve. Un brivido mi attraversò la
schiena, quando un refolo
gelido di vento arrivò dall’esterno.
Capii che non stava
scherzando, mi misi in
piedi e barcollando arrivai sull’uscio della casa in cui ero
nato. Uscii nella
fredda aria invernale della notte e subito la porta mi si richiuse alle
spalle.
Per Madaleine, mia
madre, e per la gente
che abitava in quella casa io ero morto.
Finalmente
s’era liberata del mostro che
le aveva distrutto la vita.
L’unica
cosa che portai via con me, fu
quella prima odiosa maschera che mi era stata donata da mia madre. In
effetti
era stata una sua idea, ma me l’aveva data una delle
cameriere dicendomi che
era una maschera magica, che l’aveva resa tale da potermi
tenere al sicuro. “La
maschera è tua amica, Erik. Fin quando la
indosserai, nessuno specchio potrà più mostrarti
la tua faccia”mi disse, mentre
me la legava. Ed è ancora così per me.
Da quella notte non
ebbi più paura del
buio anzi con il tempo imparai ad apprezzare il suo gentile velo, che
mi
nasconde dagli sguardi odiosi della gente.
Quella notte camminai
nella neve alta fino
allo sfinimento, poi di quello che accadde dopo
ricordo ben poco. So solo che al mio risveglio ero chiuso
in una gabbia,
quella stessa gabbia che mi avrebbe fatto da casa per dieci anni.
Per quelli del circo
in cui mi esibivo
come ventriloquo e prestigiatore ero il ‘Morto
Vivente’. Gli avventori di
quello squallido spettacolo, mi additavano con quello, quella cosa, il
morto,
il mostro. Di nuovo quella parola. Ricordi di urla e botte riuscivano
prepotentemente ad uscire allo scoperto; le voci di coloro che mi
avevano messo
al mondo mi ronzavano intorno alla testa, come un nugolo di api pronte
a
colpire. Nemmeno il tapparmi le orecchie con i palmi delle mani
riusciva a
liberarmi da tale tormento.
Il circo si spinse
fino alle lontane terre
degli Achemenidi, dove divenni grazie
ai desideri della figlia del sultano, prima il signore delle botole,poi
il
creatore di uno dei palazzi più straordinari che questo
pianeta abbia mai
visto: specchi in ogni dove, per confondere, botole e trabocchetti ad
ogni
angolo. Tutto questo solo per il piacere personale del sultano. Ma un tale spettacolo, non
poteva essere
riprodotto altrove, così mi ritrovai a fuggire, con una pena
capitale che mi
pendeva sulla testa.
Il mio salvatore fu
uno dei più
improponibili: il Daroga, Nadir Khan, il capo delle guardie di palazzo,
colui
che avrebbe dovuto darmi la caccia, mi aiutò a scappare.
Gli otto anni passati
nell’agio della
corte persiana mi avevano rammollito e quella rocambolesca fuga verso
l’ignoto,
mi pesò più di quanto credessi possibile.
Dopo due anni di
peregrinazioni in giro
per l’Europa, mi ritrovai a desiderare di tornare in Francia,
dov’erano le mie
radici.
Ed è
proprio in Francia, a Parigi
precisamente, che la mia vera storia ha avuto inizio.
In
quegli anni un giovane architetto, aveva vinto l’appalto per
la costruzione del
nuovo teatro dell’opera. Ma la sua comica inesperienza in
fatto di costruzioni
grandiose, mi rese superbo e come Faust vendette la sua anima al
diavolo per la
vita eterna, io strinsi un patto diabolico con Charles Garnier: io gli
avrei
progettato un teatro maestoso,degno di Parigi,ma in cambio avrei
costruito un
rifugio per me, nelle fondamenta di quel luogo, lontano dal mondo e
dagli
sguardi della gente. Un posto dove poter regnar indisturbato.
Lo sciocco, per il
suo buon nome accettò e
di lì a dieci anni ebbi il mio teatro e la mia dimora. Quel
posto era un
monumento al mio folle genio.
Nonostante tutto,
alla giovane età di
trentasei anni potevo vantare di aver girato mezzo mondo e di aver
realizzato
gran parte dei miei piani. Mancava solo il tocco finale: tempo addietro
avevo
giurato a me stesso che avrei fatto pagare
all’umanità tutte le sofferenze che
mi erano state inferte. L’opera Garnier era il posto ideale
per tale scopo.
Ma misteriose ed
intricate sono le trame del
destino; sulla mia strada, tra me e il mio piano si frappose qualcosa,
qualcosa
di misconosciuto al mio cuore e totalmente estraneo a quello che ero.
In vita mia non avevo
mai compreso
l’amore,né i legami umani; tutto quello che mi
appariva cristallino erano la
scienza con le sue teorie da confutare, la musica con le sue note, la
matematica e la geometria, il moto delle stelle e dei pianeti, ma
quando si
parlava di cuore, di sentimenti, di rapporti umani , mi sentivo
totalmente
impreparato. Questi argomenti mi erano del tutto sconosciuti.
Nella mia lunga vita
avevo letto migliaia
di libri, trattati, saggi, ma soprattutto romanzi, che mi raccontavano
le cose
che non avrei mai potuto fare. Avevo letto di Enea e Didone, di
Giulietta e
Romeo, di Antonio e Cleopatra, di sentimenti così potenti da
portare
addirittura alla morte, di passioni che infiammavano il corpo e
l’anima.
Detesto ammetterlo, ma ogni tanto immaginavo cosa si provasse ad amare
una
persona più di se stesso . Mi ritrovai improvvisamente a
desiderare quel
sentimento tanto popolare, di cui avevo
sentito parlare in così tanti libri.
Da un giorno
all’altro il mio desiderio
infantile venne esaudito: dalle porte secondarie del teatro, quelle
riservate
agli artisti, entrò il mio angelo … colei che mi
ha portato a questo punto.
In qualche modo avevo
visto in lei la
stessa sofferenza che opprimeva me: lei aveva perso l’amore e
la presenza di
una persona importante, io non l’avevo mai ricevuto,
quell’amore .
Pensai
che potessimo completarci e consolarci
a vicenda: io avrei riempito il suo vuoto e lei mi avrebbe insegnato ad
amare.
Trovai il momento
adatto per palesare la
mia presenza, e lei, indifesa e distrutta dalla solitudine e dal
dolore, fu
convinta di star parlando con l’angelo della musica,venuto
lì da lei per
insegnarle l’arte del canto. La lasciai fare,
finché non mi avesse visto non
avrebbe mai saputo quale mostro si nascondeva dietro la voce
dell’angelo.
Non avrei mai potuto
sperare di essere
l’uomo per lei, non sarei mai potuto essere l’uomo
reale, vivo che le camminava
al fianco e che l’abbracciava, ma sarei potuto essere il suo
angelo.
In tre anni le feci
credere quello che
voleva, e la feci diventare la nuova diva dell’opera. I tre anni più
pieni della mia intera
vita:ogni sera alla fine della lezione le ricordavo
l’appuntamento per il
giorno successivo e il mio cuore palpitava nell’attesa di
rivederla, in quelle
ventiquattro ore era pieno di speranza e di affetto per quella giovane
innocente. Cominciai a pensare che il tanto acclamato amore avesse
messo radici
anche nel mio cuore arido di sentimenti.
Sapevo
che non avrebbe mai disatteso le nostre
lezioni, ma il giorno in cui non si presentò nella cappella
dove ci tenevamo
compagnia a vicenda, fu il giorno in cui la mia furia
cominciò ad abbattersi
sull’operà Garnier.
L’attenzione
della mia pupilla era stata
rapita dal nuovo mecenate del teatro, il visconte. Certo, aveva da
offrirle tutto
ciò che una giovane donna della sua età poteva
desiderare: la bellezza, la
dolcezza e la gentilezza, la galanteria, un cospicuo patrimonio
pecuniario, ma
soprattutto poteva amarla alla luce del Sole. Io non potevo lasciare i
sotterranei del teatro senza rischiare di essere linciato. Non avrei
mai potuto
accompagnarla a fare una passeggiata la domenica mattina al parco.
Così
comincia a terrorizzare l’intero
entourage del teatro, nella speranza di colmare il vuoto lasciato dalla
mia
musa, con la sofferenza altrui: attentai alla vita della diva Carlotta,
derubai
quegli sciocchi degli impresari, uccisi uno dei macchinisti che si
destreggiava
tra i fondali di scena e in ultimo lasciai cadere l’enorme
lampadario di
cristallo sulla
sala gremita.
Ma
l’ossessione per la giovane era più
forte di qualsiasi altra cosa avessi mai provato: quel
sentimento,l’amore,
assopito nel mio cuore, era cresciuto senza controllo trasformandosi in
qualcosa di pericoloso per entrambi. La giovane soprano Christine Daee
sarebbe
stata mia o di nessun altro; avrei preferito ucciderla pur di non
vederla tra
le braccia di quel damerino. Era qualcosa di misterioso e magico allo
stesso
tempo, non potevo fermarmi, non riuscivo a lasciarla andare, non potevo
permettere che lui la portasse via da me.
Così
portai a termine i miei folli
intenti:appiccai il fuoco ad ogni cosa. Il teatro ardeva come un enorme
pira
funeraria,decine di persone trovarono la morte quella sera
all’opera. La mia
vendetta contro il genere umano era completa,ma c’era ancora
un conto da
saldare: rapii la giovane e la segregai nei sotterranei. Poi la misi di
fronte
ad una difficile scelta: diventare la moglie di un cadavere per salvare
la vita
del suo amato o saltare tutti in aria. Come poteva uscire da una tale
situazione,
in entrambi i casi avrei vinto per l’ennesima volta io. Come
mi auguravo,
scelse di diventare la mia consorte, sepolta nei meandri del teatro
prima del
suo tempo.
Ma folgorato da tanto
spirito di
sacrificio, mi resi conto di star distruggendo quanto di più
bello e puro mi
fosse capitato nella mia intera esistenza.
La guardai
avvicinarsi a me, come un
condannato a morte si avvia al patibolo, i polsi lividi, gli occhi
gonfi per il
troppo pianto, le labbra esangui. L’avevo amata
più d’ogni altra cosa su questa
terra, ma il mio amore l’aveva distrutta, l’aveva
ridotta ad una misera
creatura a malapena cosciente delle proprie azioni …
l’avevo resa folle come lo
ero io.
La lasciai andare con
la morte nel cuore.
Le urlai di lasciarmi lì dov’ero e di dimenticare
tutto quello che era
successo, tutto quello che le avevo fatto. Ma pietosamente
tornò sui suoi
passi: “
Ma rimarrai completamente solo
qui…” un dato di fatto che avrebbe capito anche un
bambino,ma che per lei forse
era incomprensibile.
“Sono
sempre stato da solo, in fondo!”
Nuove lacrime, ma
stavolta di pietà
bagnarono i suoi occhi blu come il cielo in primavera. Per un breve
istante per
lei ero stato solo Erik, e non il mostro che l’aveva ridotta
in quello stato.Le
donai l’anello che avrebbe dovuto consacrare la nostra unione
e le strappai una
promessa: quando fosse venuta a conoscenza della mia morte, sarebbe
dovuta
tornare a seppellirmi con quell’anello. Accettò
senza remore e poi scomparve
dalla mia vista. Fu l’ultima volta che ebbi il piacere di
posare i miei occhi
sulla sua esile figura.
Ora sono qui, in
attesa del suo ritorno. Ma
dubito che dopotutto tornerà ad omaggiare
l’infido mostro.
IlmioangolinoXD:
allora che dire, questa oneshot esce
dal mio attuale stato d’animo… è un
omaggio a tutti quelli che si sentono fuori
posto, invisibili ed incompresi… tutti quelli che come me
hanno perso la
fiducia nel mondo (oddio sono proprio una depressa :D ).
Cmq mi è
stata ispirata da questa canzone (http://www.youtube.com/watch?v=M0GRhK3W0_Y),che mi ha fatto
immediatamente pensare ad Erik e alla
sua infanzia. Il resto è venuto da sé! Spero
piaccia a qualcuno di voi. Mi
auguro che la lettura vi susciti una qualsiasi emozione,tranne lo
schifo
please, se così sarà vorrà dire che il
mio intento è riuscito.
Ps:la frase
all’inizio è di Erik,la pronuncia nel
libro di Susan Kay, Phantom ;) a quanto pare è un gran bel
libro, purtroppo
come molti non tradotto in italiano. Ma per chi conoscesse bene
l’inglese e
avesse tempo e voglia di leggere, lo consiglio vivamente ;)