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Autore: StarFighter    11/05/2013    4 recensioni
(dal testo) "L’avevo amata più d’ogni altra cosa su questa terra, ma il mio amore l’aveva distrutta, l’aveva ridotta ad una misera creatura a malapena cosciente delle proprie azioni … l’avevo resa folle come lo ero io." Semplicemente la nascita, la vita e la morte non del fantasma dell'opera, ma solo del povero Erik.
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Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Erik/The Phantom
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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phantom og                                                                                                                                 MONSTER
                                                  Something about me…


       
                                                                                      

Hell is not a place,

                                    It’s a state of mind and body;

                                    Hell is an obsession with

                                                                   a voice, a face, a name…”

 

 

Qui, sul mio letto di morte, solo, come lo sono stato per una vita intera, mi ritrovo a tirare le somme della mia squallida esistenza …

Maledetto fin dalla nascita a vagare nell’ombra del mondo, senza poter godere della luce della vita.

Mia madre diceva che il giorno in cui nacqui fu nefasto per il genere umano,poiché la nascita di una tale infernale creatura poteva solo essere presagio di qualcosa di spiacevole.

Dalle sue giovani mani non è mai arrivata una carezza per me, né dalle sue labbra rosse e piene una parola dolce e consolatoria. Non mi permetteva di toccarla, nè di chiamarla madre,né tantomeno di avvicinarla. Per lei ero solo un enorme problema.

Ogni qualvolta i suoi grandi occhi verdi si posavano su di me, non esprimevano mai amore o dolcezza, e nemmeno pena, ma solo rabbia: molte volte, durante la notte, la sua voce mi arrivava ovattata dalle pareti; si chiedeva come  avesse potuto partorire un tale figlio … in verità la parola esatta era ‘mostro’.

Mio padre, una figura assente, solo superficialmente delineata nella mia mente,non mi ha mai riconosciuto come suo figlio,dopo la mia nascita si diede all’alcol e alle prostitute, abbandonando mia madre. Un ricordo prepotentemente salta fuori dalla mia mente, riguarda lui: in una delle sue rarissime visite, mi arrischiai ingenuamente a chiamarlo padre. Fu l’inizio di un incubo. Cominciò a colpirmi con il suo bastone da passeggio; colpiva così forte che potevo sentire le ossa spezzarsi sotto la sua furia. È uno  dei primi ricordi che ho, avevo solo sei anni.

Mi lasciò agonizzante in terra, e mentre il suo respiro si calmava dopo quell’eccesso d’ira che mi aveva quasi ucciso, mi disse, come se fossi stato l’ultimo degli sguatteri di quella casa e non l’unico erede della sua casata, che in futuro mi sarei dovuto rivolgere a lui con l’appellativo di ‘Signore’.

Mia madre mi chiuse in una stanza buia, senza preoccuparsi per la mia salute, urlando alla cameriera di pulire il tappeto d’ingresso dal sangue.

Sapeva che odiavo l’oscurità, ma trovava un perverso piacere a chiudermi lì.

Con le poche forze rimaste, riuscii a seguire quello che il ‘Signore’ diceva alla donna che mi ostinavo a chiamare madre. L’accusava di aver partorito un aborto di natura, di essere la causa della sua rovina economica, di essere una sgualdrina che aveva giaciuto con chissà quale orrenda bestia infernale per generare un tale mostro.

Di nuovo quella parola, che alle mie povere orecchie suonava come una condanna.

Poi le urla di mia madre riempirono la casa: diceva cose senza senso, sconnesse, come se stesse delirando …solo da adulto mi resi conto che la mia vista l’aveva fatta impazzire.  ‘La colpa è del mostro, è sua non mia’, queste furono le ultime parole che sentii ,prima che il mio piccolo e fragile corpo, si abbandonasse al torpore del dolore.

 

Mani gelide mi accarezzavano, unghia invisibili grattavano contro i vetri della finestra, creature terrificanti mi tiravano i piedi e digrignavano i denti.

La voce, uscì roca, grattando contro la gola arsa dalle lacrime: ‘madre’.

Dopotutto invocavo il suo aiuto. Cieco, in quel buio impenetrabile, strisciai sul gelido pavimento, arrancai fino alla porta, dove i miei pugni, piccoli ed innocui, si abbatterono con tutta la forza di cui ero capace. Colpii quell’ostacolo,che allora mi sembrava insormontabile,fino a sentir male alle mani. Imploravo, gridavo e mi dibattevo, per uscire da quella stanza, per fuggire via dai miei incubi. Dei passi svelti corsero alla porta ma non l’aprirono; sentivo singhiozzare,dei piccoli gemiti di dolore. Qualcuno piangeva.  “Madre”cominciai a chiamare, anche sulle mie guance scivolavano calde lacrime , “madre ho paura, fammi uscire …” nessuno rispose alla mia supplica, che venne accolta dal freddo silenzio. Un sospiro dall’altra parte della porta. “Ti voglio bene, ti prego dimmi che anche tu me ne vuoi … è tutto quello che chiedo!” singhiozzi più forti cominciarono a scuotermi.

Sapevo che era lei, il suo profumo di lavanda mi arrivava dalla fessura sotto la porta, mi stava ascoltando, sentiva il mio pianto,riusciva a sentire la mia paura, ma non faceva nulla per porvi fine.

“Ti odio!” parole sussurrate, ma così forti da poter buttare giù quella porta che mi teneva lontano dal resto del mondo.

“Odio la tua vista, la tua faccia da demonio e la tua voce da angelo! Ci sono tanti angeli all’inferno, lo sai questo? Giuro su Dio, vorrei che tu fossi lì, che fossi lì con loro,che fossi relegato in quel posto a cui appartieni.” Un momento di silenzio, poi con voce ferma inferse il colpo mortale: “Vorrei che fossi morto, riesci a sentirmi? Vorrei che fossi morto …”

Poi ci fu solo il silenzio, per un momento. Solo buio e silenzio.

Una chiave girò nella toppa della porta, riempiendo con il suo rumore metallico quel silenzio opprimente.

Ricordo perfettamente il volto di mia madre quando aprì quella porta e vide le condizioni in cui versavo: disgusto, solo questo sentimento sfigurava i suoi lineamenti delicati.

Con i capelli scuri scompigliati, gli occhi  cerchiati di nero, uno scialle sulle spalle e i piedi nudi, si diresse verso la porta d’ingresso e l’aprì sul cortile innevato.

“Va via!”

Con gli occhi sbarrati la guardai, per capire se dicesse sul serio. Lei non mi guardava, il suo sguardo era perso nel vuoto bianco della neve. Un brivido mi attraversò la schiena, quando un refolo gelido di vento arrivò dall’esterno.

Capii che non stava scherzando, mi misi in piedi e barcollando arrivai sull’uscio della casa in cui ero nato. Uscii nella fredda aria invernale della notte e subito la porta mi si richiuse alle spalle.

Per Madaleine, mia madre, e per la gente che abitava in quella casa io ero morto.

Finalmente s’era liberata del mostro che le aveva distrutto la vita.

L’unica cosa che portai via con me, fu quella prima odiosa maschera che mi era stata donata da mia madre. In effetti era stata una sua idea, ma me l’aveva data una delle cameriere dicendomi che era una maschera magica, che l’aveva resa tale da potermi tenere al sicuro.  “La maschera è tua amica, Erik. Fin quando la indosserai, nessuno specchio potrà più mostrarti la tua faccia”mi disse, mentre me la legava. Ed è ancora così per me.

Da quella notte non ebbi più paura del buio anzi con il tempo imparai ad apprezzare il suo gentile velo, che mi nasconde dagli sguardi odiosi della gente.

 

 

Quella notte camminai nella neve alta fino allo sfinimento, poi di quello che accadde dopo  ricordo ben poco. So solo che al mio risveglio ero chiuso in una gabbia, quella stessa gabbia che mi avrebbe fatto da casa per dieci anni.

Per quelli del circo in cui mi esibivo come ventriloquo e prestigiatore ero il ‘Morto Vivente’. Gli avventori di quello squallido spettacolo, mi additavano con quello, quella cosa, il morto, il mostro. Di nuovo quella parola. Ricordi di urla e botte riuscivano prepotentemente ad uscire allo scoperto; le voci di coloro che mi avevano messo al mondo mi ronzavano intorno alla testa, come un nugolo di api pronte a colpire. Nemmeno il tapparmi le orecchie con i palmi delle mani riusciva a liberarmi da tale tormento.

 

Il circo si spinse fino alle lontane  terre degli Achemenidi, dove divenni grazie ai desideri della figlia del sultano, prima il signore delle botole,poi il creatore di uno dei palazzi più straordinari che questo pianeta abbia mai visto: specchi in ogni dove, per confondere, botole e trabocchetti ad ogni angolo. Tutto questo solo per il piacere personale del sultano.  Ma un tale spettacolo, non poteva essere riprodotto altrove, così mi ritrovai a fuggire, con una pena capitale che mi pendeva sulla testa.

Il mio salvatore fu uno dei più improponibili: il Daroga, Nadir Khan, il capo delle guardie di palazzo, colui che avrebbe dovuto darmi la caccia, mi aiutò a scappare.

 

Gli otto anni passati nell’agio della corte persiana mi avevano rammollito e quella rocambolesca fuga verso l’ignoto, mi pesò più di quanto credessi possibile.

Dopo due anni di peregrinazioni in giro per l’Europa, mi ritrovai a desiderare di tornare in Francia, dov’erano le mie radici.

 

 

Ed è proprio in Francia, a Parigi precisamente, che la mia vera storia ha avuto inizio.

 In quegli anni un giovane architetto, aveva vinto l’appalto per la costruzione del nuovo teatro dell’opera. Ma la sua comica inesperienza in fatto di costruzioni grandiose, mi rese superbo e come Faust vendette la sua anima al diavolo per la vita eterna, io strinsi un patto diabolico con Charles Garnier: io gli avrei progettato un teatro maestoso,degno di Parigi,ma in cambio avrei costruito un rifugio per me, nelle fondamenta di quel luogo, lontano dal mondo e dagli sguardi della gente. Un posto dove poter regnar indisturbato.

Lo sciocco, per il suo buon nome accettò e di lì a dieci anni ebbi il mio teatro e la mia dimora. Quel posto era un monumento al mio folle genio.

Nonostante tutto, alla giovane età di trentasei anni potevo vantare di aver girato mezzo mondo e di aver realizzato gran parte dei miei piani. Mancava solo il tocco finale: tempo addietro avevo giurato a me stesso che avrei fatto pagare all’umanità tutte le sofferenze che mi erano state inferte. L’opera Garnier era il posto ideale per tale scopo.

Ma misteriose ed intricate sono le trame del destino; sulla mia strada, tra me e il mio piano si frappose qualcosa, qualcosa di misconosciuto al mio cuore e totalmente estraneo a quello che ero.

In vita mia non avevo mai compreso l’amore,né i legami umani; tutto quello che mi appariva cristallino erano la scienza con le sue teorie da confutare, la musica con le sue note, la matematica e la geometria, il moto delle stelle e dei pianeti, ma quando si parlava di cuore, di sentimenti, di rapporti umani , mi sentivo totalmente impreparato. Questi argomenti mi erano del tutto sconosciuti.

Nella mia lunga vita avevo letto migliaia di libri, trattati, saggi, ma soprattutto romanzi, che mi raccontavano le cose che non avrei mai potuto fare. Avevo letto di Enea e Didone, di Giulietta e Romeo, di Antonio e Cleopatra, di sentimenti così potenti da portare addirittura alla morte, di passioni che infiammavano il corpo e l’anima. Detesto ammetterlo, ma ogni tanto immaginavo cosa si provasse ad amare una persona più di se stesso . Mi ritrovai improvvisamente a desiderare  quel sentimento tanto popolare, di cui avevo sentito parlare in così tanti libri.

 

Da un giorno all’altro il mio desiderio infantile venne esaudito: dalle porte secondarie del teatro, quelle riservate agli artisti, entrò il mio angelo … colei che mi ha portato a questo punto.

In qualche modo avevo visto in lei la stessa sofferenza che opprimeva me: lei aveva perso l’amore e la presenza di una persona importante, io non l’avevo mai ricevuto, quell’amore .

 Pensai che potessimo completarci e consolarci a vicenda: io avrei riempito il suo vuoto e lei mi avrebbe insegnato ad amare.

 

Trovai il momento adatto per palesare la mia presenza, e lei, indifesa e distrutta dalla solitudine e dal dolore, fu convinta di star parlando con l’angelo della musica,venuto lì da lei per insegnarle l’arte del canto. La lasciai fare, finché non mi avesse visto non avrebbe mai saputo quale mostro si nascondeva dietro la voce dell’angelo.

Non avrei mai potuto sperare di essere l’uomo per lei, non sarei mai potuto essere l’uomo reale, vivo che le camminava al fianco e che l’abbracciava, ma sarei potuto essere il suo angelo.  

In tre anni le feci credere quello che voleva, e la feci diventare la nuova diva dell’opera.  I tre anni più pieni della mia intera vita:ogni sera alla fine della lezione le ricordavo l’appuntamento per il giorno successivo e il mio cuore palpitava nell’attesa di rivederla, in quelle ventiquattro ore era pieno di speranza e di affetto per quella giovane innocente. Cominciai a pensare che il tanto acclamato amore avesse messo radici anche nel mio cuore arido di sentimenti.

 

 Sapevo che non avrebbe mai disatteso le nostre lezioni, ma il giorno in cui non si presentò nella cappella dove ci tenevamo compagnia a vicenda, fu il giorno in cui la mia furia cominciò ad abbattersi sull’operà Garnier.

L’attenzione della mia pupilla era stata rapita dal nuovo mecenate del teatro, il visconte. Certo, aveva da offrirle tutto ciò che una giovane donna della sua età poteva desiderare: la bellezza, la dolcezza e la gentilezza, la galanteria, un cospicuo patrimonio pecuniario, ma soprattutto poteva amarla alla luce del Sole. Io non potevo lasciare i sotterranei del teatro senza rischiare di essere linciato. Non avrei mai potuto accompagnarla a fare una passeggiata la domenica mattina al parco.

Così comincia a terrorizzare l’intero entourage del teatro, nella speranza di colmare il vuoto lasciato dalla mia musa, con la sofferenza altrui: attentai alla vita della diva Carlotta, derubai quegli sciocchi degli impresari, uccisi uno dei macchinisti che si destreggiava tra i fondali di scena e in ultimo lasciai cadere l’enorme lampadario di cristallo  sulla sala gremita.

Ma l’ossessione per la giovane era più forte di qualsiasi altra cosa avessi mai provato: quel sentimento,l’amore, assopito nel mio cuore, era cresciuto senza controllo trasformandosi in qualcosa di pericoloso per entrambi. La giovane soprano Christine Daee sarebbe stata mia o di nessun altro; avrei preferito ucciderla pur di non vederla tra le braccia di quel damerino. Era qualcosa di misterioso e magico allo stesso tempo, non potevo fermarmi, non riuscivo a lasciarla andare, non potevo permettere che lui la portasse via da me.

Così portai a termine i miei folli intenti:appiccai il fuoco ad ogni cosa. Il teatro ardeva come un enorme pira funeraria,decine di persone trovarono la morte quella sera all’opera. La mia vendetta contro il genere umano era completa,ma c’era ancora un conto da saldare: rapii la giovane e la segregai nei sotterranei. Poi la misi di fronte ad una difficile scelta: diventare la moglie di un cadavere per salvare la vita del suo amato o saltare tutti in aria. Come poteva uscire da una tale situazione, in entrambi i casi avrei vinto per l’ennesima volta io. Come mi auguravo, scelse di diventare la mia consorte, sepolta nei meandri del teatro prima del suo tempo.

Ma folgorato da tanto spirito di sacrificio, mi resi conto di star distruggendo quanto di più bello e puro mi fosse capitato nella mia intera esistenza.

La guardai avvicinarsi a me, come un condannato a morte si avvia al patibolo, i polsi lividi, gli occhi gonfi per il troppo pianto, le labbra esangui. L’avevo amata più d’ogni altra cosa su questa terra, ma il mio amore l’aveva distrutta, l’aveva ridotta ad una misera creatura a malapena cosciente delle proprie azioni … l’avevo resa folle come lo ero io.

La lasciai andare con la morte nel cuore. Le urlai di lasciarmi lì dov’ero e di dimenticare tutto quello che era successo, tutto quello che le avevo fatto. Ma pietosamente tornò sui suoi passi:  “ Ma rimarrai completamente solo qui…” un dato di fatto che avrebbe capito anche un bambino,ma che per lei forse era incomprensibile.

“Sono sempre stato da solo, in fondo!”

Nuove lacrime, ma stavolta di pietà bagnarono i suoi occhi blu come il cielo in primavera. Per un breve istante per lei ero stato solo Erik, e non il mostro che l’aveva ridotta in quello stato.Le donai l’anello che avrebbe dovuto consacrare la nostra unione e le strappai una promessa: quando fosse venuta a conoscenza della mia morte, sarebbe dovuta tornare a seppellirmi con quell’anello. Accettò senza remore e poi scomparve dalla mia vista. Fu l’ultima volta che ebbi il piacere di posare i miei occhi sulla sua esile figura.

 

Ora sono qui, in attesa del suo ritorno. Ma dubito che dopotutto tornerà ad omaggiare  l’infido mostro.

 

 

 

IlmioangolinoXD: allora che dire, questa oneshot esce dal mio attuale stato d’animo… è un omaggio a tutti quelli che si sentono fuori posto, invisibili ed incompresi… tutti quelli che come me hanno perso la fiducia nel mondo (oddio sono proprio una depressa :D ).

Cmq mi è stata ispirata da questa canzone (http://www.youtube.com/watch?v=M0GRhK3W0_Y),che mi ha fatto immediatamente pensare ad Erik e alla sua infanzia. Il resto è venuto da sé! Spero piaccia a qualcuno di voi. Mi auguro che la lettura vi susciti una qualsiasi emozione,tranne lo schifo please, se così sarà vorrà dire che il mio intento è riuscito.

 

Ps:la frase all’inizio è di Erik,la pronuncia nel libro di Susan Kay, Phantom ;) a quanto pare è un gran bel libro, purtroppo come molti non tradotto in italiano. Ma per chi conoscesse bene l’inglese e avesse tempo e voglia di leggere, lo consiglio vivamente ;)

 

 

   
 
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