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Autore: Una Certa Ragazza    11/05/2013    5 recensioni
Janine sta morendo. Il suo cuore non funziona più come dovrebbe e la inchioda sul letto di una clinica privata. Come ci si comporta quando la propria gemella sta per lasciare questo mondo e nessuno sembra sapere cosa fare? Hope non lo sa, ma ben presto si renderà conto che ci sono verità più inquietanti della morte... Storia vincitrice del contest "Quando le dirai..." indetto da darllenwr, che ringrazio per il concorso, la valutazione e la pazienza, sul forum di EFP.
Genere: Angst, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ciao a tutti! Questa è la prima storia a rating arancione che pubblico su EFP, nonché la prima di genere Drammatico.
L'ho scritta per poter partecipare al contest indetto da darllenwr sul forum del sito, "Quando le dirai...". Il bando del concorso richiedeva che si raccontasse una storia in cui i genitori di una ragazza adolescente le svelassero un segreto sconvolgente fino a quel momento tenutole nascosto.
Sono davvero felice di aver vinto, e dedico questo racconto a mia sorella E., a cui questa storia è piaciuta tanto XD




Alcesti

 

"Morirò qui, tutto di me finirà, tutto... Tranne quell'ultimo centimetro.

Un centimetro... È piccolo, ed è fragile, ma è l'unica cosa al mondo

che valga la pena di avere. Non dobbiamo mai perderlo, o svenderlo,

non dobbiamo mai permettere che ce lo rubino..."

 

"V per Vendetta – Lettera di Valerie"

 

 

Janine era immobile, con gli occhi chiusi, i capelli sparsi sul cuscino bianco, il volto disteso, quasi sereno. E una flebo infilata nel braccio.

Plic.

Ogni tanto cadeva una goccia, ma sembrava servire a poco, ed Hope non poteva fare a meno di chiedersi, con rabbia impotente, che cosa c'entrasse la flebo con il cuore di Janine.

Era quello, a non funzionare.

Era stata una tragedia annunciata, pensava Hope con la fronte premuta contro il vetro che la divideva dalla gemella: da quando Janine aveva subito il trapianto, quattordici anni prima, sapevano che avrebbe potuto stare male da un momento all'altro, e allora perché non l'avevano controllata di più? Perché adesso nessuno stava facendo niente, pur sapendo qual'era il problema?

Le mani di Hope si strinsero a pugno, più per una contrazione involontaria che per un gesto cosciente.

Non ricordava niente della malattia di Janine, così distante nel tempo, eppure avrebbe dovuto. Sarebbe stato normale, in fondo, ricordarsi di una cosa del genere nonostante avessero solo tre anni, all'epoca.

«Oh, Nine.» mormorò, a voce così bassa che lei stessa quasi non sentì quello che aveva detto. Ma il vetro era stato appannato dalle sue parole, quindi dovevano essere esistite per forza.

Udì un fruscio dietro di lei.

Con la coda dell'occhio vide la mano di suo padre fare per posarsi sulla sua spalla, poi bloccarsi a mezz'aria e infine riavvicinarsi, come una farfalla indecisa.

Si voltò per guardare i suoi genitori. Avevano il volto tirato, più di prima, più di quando si erano allontanati da quel corridoio scortati dal Dottore. Erano stati via quasi un'ora. La mamma doveva aver pianto molto, perché i suoi occhi erano gonfi e tondi e le davano un'aria vagamente sorpresa, da persona capitata lì per caso.

In quel momento, Hope si sentì come se potesse esplodere anche a lei, il cuore.

È successo qualcosa.

Gli occhi di Hope, sbarrati, registrarono il fatto che sua madre aveva mosso un passo esitante verso di lei, ma non la videro davvero.

Janine, forse Janine...

Scioccamente, il primo pensiero che si propagò nel vuoto che le si era fatto in testa andò alle televisoni vecchie, quelle che quando l'antenna era messa male o il canale non era sintonizzato facevano la neve. La sua testa era piena di neve da TV, e provava dolore, come se qualcuno le stesse spingendo il cuore da dietro, premendolo con forza contro lo sterno.

Il Dottore – un individuo che sembrava essere stato ritagliato da un pezzo di cartone – li scortò in uno studio. Hope non pensò alla stanza, se la lasciò scivolare addosso, si accorse solo che i suoi genitori, che la precedevano, si erano seduti su un divanetto di ecopelle nera.

«Ascolta, Hope...» iniziò sua madre, poi si interruppe; un singhiozzo fuggì dalle sue labbra e ad Hope parve di vederlo correre per la stanza.

«Cara, dovremmo dirglielo ora. Più tempo passa, più Janine...»

«Lo so!» lo interruppe seccamente la mamma «Lo so. Ma è la mia bambina anche lei, io...»

«Preferisci che muoiano tutte e due?»

«No... No, io... non avremmo dovuto farlo, David, non avremmo mai dovuto...» la messa in piega di sua madre pendeva floscia, come se fosse appassita, e le sue mani torcevano un fazzolettino di carta ridotto ad una pallina umida. Hope deglutì.

«Si può sapere di cosa state parlando?»

Sua madre quasi fece per gettarsi su di lei, con l'abbandono di una persona che vuole abbracciare ed essere abbracciata, ma suo padre la trattenne.

«Hope» iniziò lui, questa volta, ma era la voce di un uomo confuso, che non sa che dire o che fare, e forse non sa neppure dove si trova «c'è una cosa che non ti abbiamo mai detto» si bloccò. La sua mano andò a nascondere gli occhi, facendo scivolare verso l'alto gli occhiali dalla montatura quasi inesistente, fino alla fronte «...Dio...» mormorò tra sé e sé, poi si riprese «Se devi odiare qualcuno odia me, lei non c'entra.»

«C'entro, io c'entro!»

«Che cosa...»

«Tu e Janine non siete gemelle.» fece il padre, a voce così bassa che quasi Hope non lo sentì.

Se non fosse stato che i suoi genitori si stavano comportando come se fossero in un serial TV di bassa lega e che Janine era ricoverata in fin di vita, Hope si sarebbe volentieri messa a ridere.

Come sarebbe a dire che lei e Janine non erano gemelle? Bastava guardarle per togliersi ogni dubbio: gli stessi capelli fini fini, castano chiaro, lunghi fino alle spalle, gli stessi occhi color melassa un po' obliqui e "interessanti", come diceva Samuel.

«Papà, non fa ridere. Andiamo di là, anche il Dottore avrà da fare.» pregava che non fosse successo qualcosa di talmente terribile da far dare di volta al cervello ai suoi genitori, ma quei visi così disperati le facevano presagire che tutto fosse già andato storto, e aveva paura, e voleva che andassero dritti al punto.

«No, Hope, tu sei...» ancora una volta suo padre iniziò senza finire.

Finalmente il Dottore si decise ad intervenire e fece un passo in avanti, come per entrare in scena in maniera ufficiale.

«Fra poco non avrà più importanza.» disse, mettendo una mano sulla spalla di suo padre con fare rassicurante.

Sua madre lanciò un'esclamazione, una specie di grido di dolore.

Dove volevano arrivare, tutti?

«D- D'accordo. Hope» boccheggiò il padre, senza guardarla negli occhi «tu... Sei il clone di Janine.»

Ecco, questa era proprio assurda. Hope avvertì un senso di panico afferrarle la bocca dello stomaco, sentendo che le sue peggiori paure si erano avverate: i suoi genitori non ragionavano più, questo poteva voler dire solo che era successo qualcosa di molto grave a Janine.

«Sì. Ti abbiamo richiesta quando Janine è stata male, per poter avere dei...» suo padre sembrò strozzarsi con le sue stesse parole, per poi riuscire a recuperare il filo, balbettando «Pezzi di ricambio.»

Questa volta Hope non ce la fece: scoppiò a ridere. Era una risata sorpresa, isterica, e continuò a lungo, mentre i suoi genitori la guardavano con orrore.

Dunque, era così... Janine, Janine, cosa poteva fare? Forse andare a cercare qualcuno, magari Janine non stava così male e qualcun altro poteva aiutarla.

Ma perché il Dottore non muove un dito?

Quasi che l'avesse sentita, il Dottore si mosse. Ma non verso i suoi genitori, per iniettare loro un tranquillante o qualcosa di simile: verso di lei.

«Hope, quello che i tuoi genitori stanno cercando di dirti è che il tuo cuore è l'unica speranza per Janine, e lo è sempre stato. Sei stata creata in modo che Janine avesse una chance quando sarebbe stata di nuovo male.» parlava con un'affettazione e un distacco professionale disgustosi, da manuale.

Hope rimase a guardare il Dottore con un sorriso ebete sul volto, avendo ormai rinunciato a cercare di dare un senso alle assurdità che stava sentendo. C'era una parte di lei che aveva nausea e non poteva fare a meno di sentirsi un po' inquietata, e poi ce n'era un'altra, più forte, che ne aveva abbastanza di tutte quelle idiozie e che voleva che tornassero tutti da Janine anziché perdere tempo. Ma la peggiore era quella che diceva che tutto era già compiuto, che Janine era persa per sempre. Lei non voleva ascoltare nessuna delle tre.

Poi i suoi occhi andarono in cerca dei genitori, e tutti i suoi muscoli si irrigidirono. Aveva provato così tanto freddo una volta, in montagna, quando era uscita senza giacca e la temperatura era sotto zero.

I suoi genitori erano convinti di quello che il Dottore stava dicendo, e Janine stava morendo.

Queste due semplici constatazioni, che lesse nell'espressione di impotenza del padre e nella disperazione scomposta della madre, le riverberarono nelle ossa e le fecero piegare le ginocchia, facendola finire a terra come un sacco svuotato del suo contenuto. E quello che dicevano, che diceva il Dottore...?

«Sono lieto che tu abbia compreso la gravità della situazione, Hope.» disse pacato il Dottore con quella voce così fuori dal mondo «Ma dobbiamo fare presto, o Janine non ce la farà...»

Il cervello di Hope si era inceppato. Clone. «Ma cosa...?»

«Janine ha bisogno di un cuore nuovo, con un rischio di rigetto praticamente inesistente. Il tuo, il vostro.»

Hope balzò in piedi, barcollando per via delle gambe molli eppure costrette a sostenere il suo peso.

«Ma cosa sta dicendo...» disse con disprezzo e con un sorriso nervoso che in realtà era più che altro una smorfia.

Ancora una volta cercò con gli occhi i suoi genitori, perché gli dicessero anche loro che quello che andava farneticando non stava né in cielo né in terra, ma ancora una volta – ancora di più – nell' incrociare il loro sguardo Hope si sentì morire.

Pazzo o no – e doveva essere pazzo, perchè niente di quello che diceva era sensato – il Dottore faceva sul serio, e i suoi genitori, per quanto sconvolti dal dolore, controvoglia e disperati, erano pur sempre d'accordo con lui, e non avrebbero alzato un dito per difenderla quando...

«No.» mormorò Hope, lieve come un sospiro.

Il Dottore mosse un passo verso di lei «Hope, tu sei un clone. Un paio d'anni – forse qualcosa di più – e le tue cellule degenereranno. Morirai comunque. Non vuoi salvare Janine con la tua vita altrimenti inutile?»

Sua madre lanciò un'esclamazione soffocata, che forse era un ammonimento o forse era una preghiera: «Dottore...»

«Signora, non sto cercando di convincerla, sto cercando di ammansirla.»

Hope lo guardò stranita. Cosa credeva che fosse, una bestia?

Poi un pensiero, improvviso e definito come nessun pensiero lo era stato da quando era entrata in quello studio, mandò in fiamme il suo cervello. La volevano ammazzare sul serio!

Con uno scatto dettato più dall'istinto che dalla logica, Hope si lanciò verso la porta. Ma non andò lontano.

Oltre la soglia la aspettavano due uomini che sembravano una coppia di gangster più che due infermieri, e che la presero per le braccia non appena mise piede fuori dalla stanza.

La costrinsero in ginocchio bloccandole anche le gambe facendo peso con le loro tibie, così che non potesse scalciare.

«So che non credi a quello che stiamo dicendo.» disse il dottore in tono distaccato e paterno «Ma non ha nessuna importanza. Vorrei che capissi che ogni ulteriore resistenza peggiora solo la situazione per noi, per te e per Janine.»

«Devo... morire?» sussurrò Hope, quasi a sé stessa.

A quel punto sua madre si sollevò dal divano di scatto, gridando: «Hope, sei mia figlia, sei comunque mia figlia.» singhiozzò «Non lo farei, non lo farei mai se non fosse che tu... Morirai fra poco, comunque moriresti, salviamo almeno Janine...»

A quel punto Hope, che aveva tenuto gli occhi spalancati fino a quel momento, li chiuse di botto e li strizzò con forza, mentre milioni, miliardi di lacrime le sfuggivano da sotto le ciglia.

«Perché» disse con rabbia, senza sapere da dove venivano quelle parole, visto che in realtà la sua mente non sembrava aver capito che cosa stesse succedendo «perché allora non dai tu il cuore a Janine, eh?» disse quella frase come uno sputo, ma era una frase al di fuori di lei, perché Hope – la vera Hope – era terrorizzata, e certo il suo cervello, come un orologio rotto, tornava a chiedersì perché, perché la volessero usare come pezzo di ricambio, ma soprattutto non riusciva a metabolizzare il fatto che di lì a poco sarebbe morta, visto che non aveva modo di scappare.

E i suoi genitori erano d'accordo.

«Lasciatela andare.» fece la voce del Dottore, e Hope aprì gli occhi e sollevò la testa di scatto, sentendo per un attimo il gusto inebriante del sollievo.

«Per una mezz'oretta.» disse però l'uomo «La sala operatoria non è ancora pronta, dopotutto, e forse si calmerà un po'.»

Hope, paralizzata dalla paura, finì faccia a terra quando gli infermieri la lasciarono andare senza preavviso.

Si sollevò a fatica aiutandosi con le braccia. La testa le girava, i suoi immediati dintorni sembravano immagini accavallate l'una sull'altra, tutto era frammentario e infranto.

Percorse il corridoio della clinica barcollando, sbandando di qua e di là. Forse era ubriaca, forse si era fatta di acidi come quello della sua classe di Biologia, che poi c'era rimasto secco.

Forse era tutto un sogno.

Le sembrava che il pavimento avesse un'inclinazione strana. Anzi, non era inclinato: era molle, bolloso. Guardarlo era nauseante.

Appoggiò la guancia e i palmi delle mani al muro bianco del corridoio, respirando, sentendosi pulsare tutta.

Era il sangue, era il cuore. Il suo cuore.

Sarebbe morta. Erano stati i suoi stessi genitori a decidere che sarebbe morta perché Janine vivesse, erano stati loro ad arrogarsi questo diritto, quando invece... quante altre cose sarebbero potute accadere, invece!

Morta, di lì a poco.

Inspirò ancora finché non le fecero male i polmoni, cercando di far entrare tutto quello che poteva.

Ma non c'era niente che valesse la pena di tenersi dentro, lì. Odore di disinfettante, di lattice; il suo sudore. I suoi capelli incollati sulla sua fronte, che le finivano negli occhi.

Si guardò intorno, freneticamente, con le pupille che guizzavano di qua e di là, alla ricerca di chi la stava controllando. I due infermieri che si era lasciata alle spalle, accanto alla porta dello studio ora chiusa, e altri due energumeni col camice, all'altra estremità del corridoio, la stavano guardando virtualmente privi di espressione.

Sì, doveva essere un sogno, era tutto così surreale, con quei contorni troppo netti, e il bianco troppo bianco...

Lei, un clone. Era un clone?

Non c'era modo di dimostrarlo o di negarlo, e dopotutto l'avrebbero uccisa, perciò il Dottore diceva il vero: perdeva d'importanza, e lei era in trappola.

L'unica domanda che le venne in mente al riguardo era di una stupidità imbarazzante.

Se sono stata clonata, di che materia, di che carne sono fatta, io?

Staccò la guancia e si separò dal muro, premendo forte le mani sugli occhi.

Si girò di scatto e vomitò.

Avanzò ancora, incrociando in continuazione le gambe, incespicando. Perché si muovesse verso la porta che dava sulle scale d'emergenza non lo sapeva, voleva semplicemente arrivare là. Non si illudeva di andarsene.

Passò oltre il secondo duo di carcerieri, e li vide soltanto attraverso un velo. Aveva la vista appannata dalle lacrime o da chissà che.

Più che spingere la porta ci si buttò contro, con tanta forza che quando il battente si spalancò lei andò avanti fino ad accasciarsi contro la ringhiera, per lo slancio.

Guardò in giù, con una mano premuta sulla bocca.

Era così, era proprio così, stavano per ucciderla a sangue freddo.

Sua sorella era su un letto d'ospedale e stava morendo, e lei invece era lì, davanti a un cielo che prometteva pioggia, a piangere. Tra poco i loro ruoli si sarebbero invertiti: Janine salva, Hope morta.

Per un momento odiò Janine, perché lei sarebbe vissuta con qualcosa che era suo, con il suo cuore, mentre lei doveva scomparire dal mondo, ma subito dopo le volle bene come mai gliene aveva voluto prima di allora.

Forse, pensò Hope, e lo pensò come se davvero fosse una rivelazione fondamentale che spazzava persino l'imminenza della morte, non si può amare una persona in maniera così completa, così assoluta, senza prima averla odiata un po'.

Se qualcuno doveva vivere al posto suo, allora che fosse Janine, sì, c'era un sentimento dentro di lei che le faceva accettare che, di loro due, a sopravvivere fosse lei.

Ma come capacitarsi, come spiegarsi che proprio loro, i suoi genitori...

Clone.

Lo era o non lo era? Sì, doveva esserlo, cos'altro avrebbe potuto rendere dei genitori in grado di scegliere una figlia piuttosto che l'altra? Era aberrante, inconcepibile, ma che importava che fosse stata clonata... Altra storia era che lei non sarebbe sopravvissuta, che di lì ad un'ora sarebbe stata nulla. Janine e lei non si sarebbero mai più parlate, anche se Hope aveva così tanto da dirle; non avrebbe mai più rivisto i suoi amici, nè Samuel – avrebbe portato il lutto per un po', Samuel? Avrebbe pianto? Avrebbe pensato spesso a lei? – non sarebbe nemmeno andata al college, o a fare il coast to coast come lei e Janine sognavano da anni.

Non ricordava nemmeno che gusto avesse il gelato, né il profumo delle rose nel giardino della nonna, o come fosse sentire la sabbia tra le dita dei piedi, e avrebbe voluto provare tutte queste cose almeno un'altra volta, per assicurarsi che rimanessero ben impresse nella sua mente.

Cercò di dare un nome a tutte le cose che provava, ma erano troppe, e sapendo che il suo momento stava per arrivare il suo cervello sembrava rifiutarsi di procedere in linea retta e con ordine.

Stava ancora piangendo, era come se i suoi occhi si fossero incantati come un vecchio disco; forse il suo corpo aveva già iniziato a dare i numeri.

Mondo marcio, mondo orribile, crudele, dannato, odioso... meraviglioso.

Se non fosse stato così, Hope non sarebbe stata così riluttante ad andarsene, pur facendolo per Janine, se non altro aveva la presenza di spirito di ammetterlo a sé stessa. Tradimento. Non c'era stato nessuno dalla sua parte, mai. Il motivo stesso per cui era nata...

Non sarebbe dovuta esistere affatto!

Il suo nome, che le era sempre sembrato tanto bello, ora la ripugnava. Hope, un nome in codice, da cavia di laboratorio, da esperimento: la speranza per Janine. Lei non contava neppure come una persona vera.

Clone o no, i suoi genitori non la amavano abbastanza per volere che restasse viva, ed era più una consapevolezza intima ed inesprimibile che un pensiero netto.

Si lasciò cadere sulla scala antincendio e appuntò lo sguardo sul cielo coperto, dove le nuvole si muovevano convulse e sembravano poter cadere da un momento all'altro.

Era tutta una bugia, una fregatura.

Ma perché il suo ultimo sguardo sulla vita, l'unico consapevole, doveva essere senza sole? Perché doveva essere seduta proprio su una scala grigia e fredda?

Staccò i palmi dal gradino e si prese la testa fra le mani, che avevano l'odore opprimente del metallo.

Era stata messa a morte, e anche se lei fosse stata una persona normale – una persona di quelle che campano fino a ottant'anni senza problemi – questo non cambiava il fatto che Janine, quella voluta, sarebbe morta, nell'ordine naturale delle cose, e lei, l'indesiderata, sarebbe rimasta viva.

E poi Janine, sua sorella Janine, distesa sul letto bianco col cuore a pezzi, come se avesse incontrato il ragazzo sbagliato... Invece era solo la vita che era sbagliata, e tanto valeva che lei se ne andasse il prima possibile; del resto, tra meno di mezz'ora sarebbero venuti a prenderla e sarebbe finito tutto che lei lo volesse o no.

Quindi non c'era una via d'uscita, dopotutto, non c'era mai stata.

Le venne in mente la tragedia tratta dal mito di Alcesti, che la professa aveva nominato in un giorno come un altro. Non aveva mai sospettato di ricordarsela.

La storia parlava di un re di nome Admeto, a cui era stato predetto che sarebbe morto giovane a meno che qualcuno non si fosse sacrificato per lui. Nessuno della sua famiglia voleva farlo, neanche i suoi genitori, che pure erano vecchi e in fondo avrebbero anche potuto permettere al figlio di vivere al posto loro. L'unica che volesse abbastanza bene ad Admeto – e anche l'unica abbastanza coraggiosa da offrire la propria vita – era la sua giovane moglie, Alcesti.

L'unica anima pura in un mondo di corrotti, di egoisti, di genitori degeneri e dottori inumani e cliniche del terrore.

Alcesti alla fine veniva salvata, ma per lei... Il mito si era trasformato in squallore, e nessuno sarebbe venuto a tirarla fuori di lì.

Eppure in quel momento, paradossalmente, Hope si sentì messa di fronte a tutte le scelte del mondo: poteva tentare di scappare ed essere trascinata dentro piangente, mentre si artigliava con le unghie a quel metallo sudicio e brutto, scalciando perché la lasciassero andare, come se non volesse salvare sua sorella; oppure poteva, proprio alla fine, dimostrarsi degna di essere stata al mondo, come quei mostri che fino a quella mattina aveva chiamato genitori non avrebbero mai potuto essere.

Strano, proprio adesso le venivano in mente cose imparate a scuola, che credeva di non aver mai saputo: "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me".

Kant.

Era sempre lui, a dire che si aveva una scelta in ogni caso. Ed era per questo che sarebbe andata, senza aspettare che venissero a cercarla, altrimenti sarebbe stato come non essere mai esistita. Ma lei c'era, c'era stata, come quando aveva lasciato la traccia del suo respiro contro il vetro, e aveva parlato per via di Janine perché Janine stava morendo... E adesso stava morendo lei.

Ma non importava, meglio per Janine vivere e per lei morire, ora, subito.

Ecco, era tempo di andare: bisognava approfittarne, già che era riuscita a chiarirsi con sé stessa, finché tutto era limpido e riusciva a guardare al suo destino con il distacco di un notaio che mette in ordine le sue carte.

All' improvviso sentì una fitta di inevitabile dolore. Si sentì disperata, e per un attimo se ne beò.

Com'era facile, una volta capito che il proprio destino era ineludibile! Aveva solo da scegliere, lei, per sé, per la propria coscienza e per la propria anima, che essa ci fosse o che non ci fosse.

Semplicemente perché lei era Hope, e si sarebbe assicurata di essere Hope anche nella morte.

Si immaginò che tra poco sarebbe diventata solo un corpo freddo che avrebbero potuto tagliuzzare e rattoppare a piacere, e il suo cuore preso dal suo petto e dato a Janine.

Janine avrebbe urlato, quando l'avesse saputo.

Urla, Janine, fatti sentire, fagli vedere...

Si alzò, e non avvertì neanche il movimento, come se si fosse trattato solo di nuda volontà e non di un corpo che si spostava.

Si accorse, con una certa sorpresa, che aveva iniziato a piovere. Non se n'era resa conto, non sentiva neppure il freddo; le sembrava già di essere così lontana...

Guardò dritta negli occhi la pioggia, sollevando il viso e spalancando la bocca, lasciando che le gocce d'acqua le bagnassero la gola e scendessero giù, giù, fino a toccarle il cuore, e fece una cosa che voleva fare fin da quando era bambina e che non aveva mai fatto.

Gridò forte.

 

Entrò nella stanza senza far rumore, si piantò sulla porta e lì rimase, fissando i tre occupanti con decisione. Aveva negli occhi il fervore dei santi, la malignità dei diavoli e la fragitità degli umani: li guardava con tutte queste cose.

Sua madre – anzi, la donna bionda e, se ne rendeva conto adesso, scialba che sedeva sul divanetto in finta pelle – ebbe un sobbalzo, come se Hope avesse urlato.

«Voglio farlo.» disse Hope, mettendo un piede in avanti come per ribadire il concetto.

«È ovvio che tu sia sconvolta, potremmo concederti ancora un po' di tempo ma – ahimé! – non servirebbe, e ad ogni minuto che passa Janine peggiora.» Ah, il Dottore! Il Dottore non aveva compreso nulla... Probabilmente se lei avesse atteso ancora un po' sarebbe stato lui ad ordinare che venisse riportata indietro, e bisognava dire che svendeva la sua falsa empatia in modo impeccabile, al punto che sembrava quasi un personaggio da fumetto venuto male, uno di quei cattivi a due dimensioni che non sanno mettere assieme dialoghi credibili. Si chiese, quasi con divertita curiosità, cosa lo avesse persuaso a non considerarla come un essere umano. Probabilmente era solo maledettamente complicato farlo.

«Non lo potrà mai capire, vero, Dottore?» disse, con la bocca un po' piegata verso l'alto, ad un angolo, che quasi si sarebbe detto che stesse sorridendo «Io voglio.»







NOTE FINALI: Spero che abbiate amato questa storia quanto io sono stata felice mentre la scrivevo: ho scritto frasi, paragrafi e dialoghi in ordine diverso rispetto a come li ho poi cuciti assieme, e quando ho controllato la storia per poterla mandare è stato come leggerla per la prima volta. Sono i momenti in cui amo di più quello che faccio. La storia si è quasi formata da sola, e nonostante ciò è stato molto difficile scriverla: mi sentivo soffocare nella disperazione di Hope. Spero di averla messa sulla carta così come la sentivo io, perché mi piacerebbe che il lettore la vedesse.
Non sapevo se pubblicare questa storia nella sezione 'Drammatico' o in 'Fantascienza'. Ho scelto la prima perché l'elemento fantascientifico in questa storia è, tutto sommato, marginale: la decisione finale di Hope non dipende dal fatto di essere un clone o meno.
per quanto riguarda, appunto, i cloni, i lettori sono liberi di crearsi una loro spiegazione, di immaginare l'universo in cui questa vicenda avviene e di fare le considerazioni medico-scientifiche del caso (es: il cuore di Hope dovrebbe degenerare anche se trapiantato in Janine, ma non lo fa perché -ad esempio- viene trattato in maniera opportuna prima dell'impianto). Io, naturalmente, mi sono creata delle spiegazioni mie, che ognuno di voi è libero di chiedermi nel caso volesse saperne di più.

Grazie a tutti voi per aver letto!

   
 
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