Fanfic su artisti musicali > One Direction
Ricorda la storia  |      
Autore: Flamel_    13/05/2013    11 recensioni
Dal capitolo:
"Al mio coinquilino non piace la poltrona e non piaccio io. Odia così tanto il mondo che se n’è andato senza avvisarmi sulle coste dell’Irlanda. Non me l’ha detto, ma sono sicuro che sia lì, attaccato alle sue radici come a rigenerarsi un po’, succhiando le sue origini per essere sicuro di avere la giusta identità. Come se qualcuno gliela dovesse imporre. È piuttosto insicuro il mio irlandese, ma alla fine mi va bene così; lui è uno che torna e lo farà anche stavolta".
Eh boh, Zayn è tristino perché Niall se n'è andato, Harry è un saggio filosofo, Louis una checca saccente e isterica, Liam è il solito santo paziente che sopporta tutti.
Storia di come Zayn si riprende.
Spero che vi piaccia! :DD
[Ziall+accenni Larry]
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Niall Horan, Un po' tutti, Zayn Malik
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Hola! Non so perché senta il bisogno di giustificare già da qui questa pazzia. Solo... Non lo so. Spero piaccia. :)
Danke a lot a Mich (Yvaine0) che mi sopporta con tantissima pazienza da troppo tempo. ♥ 

 

 

 

Where there is desire 
There is gonna be a flame 
Where there is a flame 
Someone’s bound to get burned 
But just because it burns 
Doesn’t mean you’re gonna die 
You’ve gotta get up and try try try 

(P!nk- Try)

 

 

 

 

 

Il suo qualcosa

 

 

 

Vivo da solo da quando sono andato all’università; ormai sono due anni che mento ai miei genitori dicendo che va tutto alla meraviglia, che riesco a ottenere ottimi risultati agli esami senza problemi. In realtà solo parte della frase precedente è una bugia: niente va alla meraviglia, ma riesco comunque a ottenere ottimi risultati agli esami. Di quelli che faccio, almeno.
Ho arredato il bilocale senza impegno, accogliendo tra le mura di casa qualsiasi mobile mi sembrasse un po’ consumato, triste, senza una prospettiva di vita nemmeno a immaginarla; un po’ come me. Il risultato non è stato  granché omogeneo –non che mi aspettassi qualcosa di simile- ma alla fin fine mi va bene. Soprattutto per quanto riguarda la poltrona a due posti blu che ho comprato qualche tempo fa alla fiera dell’antiquariato. Non era così antica –magari un po’ sgualcita, ma sembrava aver avuto una gran bella vita prima di essere sballottata laggiù. Me ne sono innamorato dal primo momento che l’ho vista, tra un tavolino di noce e un comò color mogano. L’ho comprata senza pensarci due volte su, senza controllarla un minimo –poi avevo scoperto che era scucita sul retro, ma poco importava: l’ho messa nel salotto, accanto alla poltrona arancione, davanti alla televisione.
Al mio coinquilino non piace la poltrona e non piaccio io. Odia così tanto il mondo che se n’è andato senza avvisarmi sulle coste dell’Irlanda. Non me l’ha detto, ma sono sicuro che sia lì, attaccato alle sue radici come a rigenerarsi un po’, succhiando le sue origini per essere sicuro di avere la giusta identità. Come se qualcuno gliela dovesse imporre. È piuttosto insicuro il mio irlandese, ma alla fine mi va bene così; lui è uno che torna e lo farà anche stavolta.

 

Tre mesi dopo non è tornato ancora. La mia poltrona a due posti blu è diventata il mio rifugio e la tazza colma di caffè è la mia migliore amica; passo le notti insieme agli appunti di letteratura inglese medievale come se fossero la mia amante. Non che me ne dispiaccia troppo, la letteratura è la mia passione da quando avevo il pannolino, ma inizio a sentire un po’ la mancanza del calore umano. La mancanza di Niall.
Mi ha mandato due o tre sms in tutto, sembra spensierato e mi scrive come se niente fosse successo, come se non ci fossimo baciati e come se non ci fossimo spinti molto oltre. Come se non gli fosse piaciuto, come se non gli avessi aperto un mondo sulla sua vita. Ma lui ha detto di volerci pensare e ormai sono quattro mesi e mezzo che riflette e inizio a dubitare che sia uno che torna. Forse stavolta non tornerà e io sono infastidito.

 

«Dovresti uscire un po’ di casa».
Questo è Liam, mi guarda coi suoi grandi occhi castani e sono così profondi, così seri e così sinceri che per un po’ non penso nemmeno a cosa mi ha detto. Poi l’informazione mi arriva al cervello e distolgo lo sguardo, abbozzando un sorrisino ironico.
«Adesso siamo in un pub».
Liam alza gli occhi al cielo velocemente, come a dire che si aspettava che ribattessi in quel modo. «Sai cosa intendo dire».
«No, cosa intendi dire?». Parlo con un tono strascicato, complici l’alcol e la noia, solo per dare aria alla bocca, quando in realtà non ho nemmeno riflettuto su quello che mi ha detto. Cosa mi ha detto? Non me lo ricordo nemmeno…
«Intende dire che anche se adesso sei fuori casa, il tuo solito sabato sera consiste nel rimanere a casa a riguardare i dvd di Friends mentre bevi birra e mangi pizza surgelata. A lung’andare non è una gran prospettiva, fa un po’ sfigato…».
Questo ovviamente non è Liam, ma Louis che nella vita si diverte a fare da grillo parlante alle persone; si diverte ancora di più se ti ricopre con valanghe di consigli non richiesti. Si avvicina e ti parla dall’alto del suo ricco conto in banca con un sorrisino saccente. Quando non fa lo stronzo, però, è un buon amico. Se non altro non ha paura di sbatterti la verità in faccia (con un sorrisino saccente).
A volte è utile. «Non me ne frega niente» dico.
Altre no.
«Andiamo, Zayn, non puoi continuare ad aspettarlo come se un giorno bussasse alla tua porta e ti dicesse “Sai, ho capito che la mia sessualità e la mia religione possono andare d’accordo. Adesso amici come prima”. Non succederà mai, mettitelo in testa. Niall è troppo stupido». Ridacchia. Lo soffocherei, se non fosse che sto soffocando io, adesso.
Respiro a scatti, cercando un po’ di ossigeno tra i fumi profumati di carne del pub.
Liam gli lancia un’occhiataccia come ad ammonirlo: sempre troppo buono, lui. Chissà come fa a sopportare me e Louis, femminucce con crisi isteriche anche senza mestruazioni. «Quello che intendevo dire è che forse  non è il caso di sperare nel suo ritorno; dovresti frequentare altri posti, conoscere altre persone».
«Esatto, proprio come dicevo io!» esclama Louis entusiasta. «Per esempio, io ultimamente ho conosciuto un tipo. Si chiama Harry, è uno skater e studia filosofia. Non avrei mai pensato di parlargli –piuttosto gli avrei dato qualche soldo in mano- ma vedici adesso: chi l’avrebbe mai detto che saremmo usciti insieme più e più volte?».
«…Sssì, ma non è obbligatorio frequentare qualcuno, solo… Esci un po’».
«Fatti una vita» traduce Louis.
Sospiro. «Sì… Sì, farò qualcosa». Tentenno; forse hanno ragione.

 

Cammino per la casa, da solo. Il ticchettio dei piedi nudi sul marmo m’infastidisce perché è l’unico rumore che si sente e mi smuove pensieri pseudofilosofici. Come quando la pioggia cade fitta picchiettando sui vetri: chi non si è mai messo a guardare le gocce fare a gara per arrivare per prime al bordo inferiore dell’infisso, immaginando chissà quale contesa tra i due agglomerati di idrogeno e ossigeno?  Da piccolo affibbiavo a queste personalità proprie e speravo vivamente che l’una o l’altra vincessero.
Sono sempre stato un tipo piuttosto annoiato, sin da bambino.
La tazza l’ho rotta qualche settimana fa, la mia migliore amica mi ha abbandonato nel momento più difficile. L’avevo poggiata al bracciolo della poltrona, poi mi ero appisolato guardando Dr. House e ci ho poggiato la testa sopra, spingendola al suicidio. Abbiamo trascorso belle serate insieme, ma la vita è crudele e ci ha separato. Ah.
Con un braccio sfioro la piccola scrivania ricoperta di fogli: Chaucer e Marlowe mi guardano con disappunto perché ormai sono settimane che non passo a trovarli; mi vergogno così tanto di me stesso che non ho nemmeno il coraggio di riprendere in mano gli appunti e bussare ancora una volta alle porte della letteratura, la casa che da sempre mi ha accolto senza remore nelle sue stanze fatte di avventure, storie inventate, storie vere, principi e castelli. Quella che mi ha aperto gli occhi su me stesso e sulle persone che ho accanto.
Ho scoperto che il cuore ha le pareti robuste per sopportare la pressione, non l’amore. Dai graffi dell’indifferenza, dal tempo che scorre, dall’accidia, il cuore non può proteggersi. Nemmeno le braccia bastano, nel caso si ipotizzasse di coprirsi il cranio e accovacciarsi come le vittime di Pompei. Si rimane lì, inermi a braccia aperte come a dire "Sì, prendi tutto, afferra ciò che resta di me".
Questi sono i pensieri della solitudine, dei piedi sul marmo e della pioggia. D’altra parte sono figlio di sonetti e tragedie, cresciuto con l’ideale dell’amore e morto anche per questo. Dovrei esserci abituato, ho scelto io di morire in questo modo.
Niall continua a non farsi sentire.

 

Entro in un bar e come al solito trovo ad accogliermi profumo di sigarette e carne di maiale. Mi siedo sul primo sgabello che trovo, quello sotto al televisore, l’unico vuoto. La partita da lì sotto non è piacevole da guardare se dopo novanta minuti non vuoi alzarti riuscendo a vedere solo le stelle. Ma per me oggi non è giornata di partite e mi accontenterò di guardare verso il basso, verso la birra che non dovrei bere e la carne che non dovrei mangiare.
Mi accorgo dello scivolare di uno sgabello vicino al mio con un solo orecchio, l’altro è impegnato a orecchiare la conversazione del commesso panciuto  che si ostina a ignorarmi continuando a chiacchierare col suo degno compare.
Bla, bla, bla. Tanti bla che non fanno che accumularsi, e ancora e ancora fino a creare una bolgia infernale per le mie orecchie; forse il pub al sabato sera non è stata una delle scelte più sagge che abbia mai fatto, non quando avevo voglia di stare in silenzio.
O da solo.
«…Malik!».
Un trillo lontano, proveniente da qualche parte del mio cervello mi richiama a porre attenzione sull’individuo seduto accanto a me che, a quanto pare, mi conosce. Sospiro prima di voltarmi, come a fargli pesare quell’enorme sforzo.
Un ragazzo che puzza di fumo mi guarda sorridente, con tanto di fossette e sorriso degno di una qualsiasi pubblicità di dentifricio. Mah, io non lo conosco. Ricambio lo sguardo con molto meno entusiasmo, cercando di capire in quale occasione l’abbia mai visto.
«Sono Harry Styles, hai presente?».
No, davvero non ne ho idea. Anche lui sembra averlo capito, ma il mio distacco non turba la sua allegria fuori luogo.
«Abbiamo frequentato insieme il corso del signor Puddlemore, non ti ricordi?».
Puddlemore, il corso di filosofia medievale, il banco scheggiato in seconda fila… Nella mia testa si sta riavvolgendo un nastro, come quando nei film gialli l’ispettore collega tutti i punti della vicenda fino a giungere all’assassino. (È stato il maggiordomo). «Harry Styles, certo. Come te la passi?».
«Me la cavo, tu?».
Sono morto da qualche tempo. «Tutto bene, dai».
«Non ti ho visto più al corso, né in facoltà».
«Frequento lettere».
«Ah, credevo…». Lascia cadere il discorso osservando anche lui il commesso panciuto che porta un piatto di patatine a un tizio arrivato dopo di noi. Poi mi lancia quella strana occhiata di chi la sa lunga. «Andiamo, va’».

 

«Dopo quella sera sono uscito con Louis un bel po’ di volte e la storia è diventata molto più seria di quanto mi aspettassi».
Harry è uno che parla molto, parla per due o anche per tre o quattro. Stranamente non mi dispiace nemmeno ascoltarlo, ha una cadenza strascicata e un accento del nord che t’invitano a sentirlo ridacchiare con la sua voce roca ancora e ancora.
Siamo al parco vicino al pub, il cielo non vuole imbrunire e per strada non si vede nessuno. Di tanto in tanto si sentono urla di gioia o di disperazione dei tifosi nel pub, ma di altre persone nemmeno l’ombra. Forse è meglio così e la conversazione si fa più intima.
«Louis… Mi ha parlato di cosa stai passando» dice dopo un po’ con lo sguardo basso.
«Okay» borbotto grattandomi una guancia. Spero che aggiunga qualcosa perché il silenzio non riesco a sopportarlo, non dopo una conversazione così piacevole.
«Sigaretta?». Harry mi offre il pacchetto di una marca a me sconosciuta, ma accetto lo stesso, giusto per inquinare i miei polmoni di un sapore altrettanto sconosciuto, nuovo. Aspiro con così forza che per poco non tossisco come un novellino mentre cerco di coprire un altro sapore, molto più dolce e molto più leggero, che m’invade sia la bocca sia la mente e che non riesco a perdere.
Anche Harry pare prendersi un attimo di pausa, fumare sembra un buon compromesso alla mancata conversazione. Io intanto penso al non pensare, al fumo che non si vede e si perde nel grigiore del cielo inglese e a Niall, che è sotto il mio stesso cielo grigio, qualche chilometro più a nord. Chissà cosa sta facendo adesso, dovrei chiamarlo ogni tanto. Fingerei che sia per cortesia, credo.
Non mi accorgo che pensando a lui ho stretto in una morsa il povero filtro della sigaretta, che è diventato poco più di un cuscinetto per ammortizzare la mia tensione. Sospiro frustrato e Harry se ne accorge perché mi lancia un’occhiata interrogativa. Lascio cadere una sigaretta per terra anche se ce n’è ancora da rosicchiare e la nascondo con una pestata sotto la panchina su cui siamo seduti.
«È solo un periodo, poi passa». L’ho detto così tante volte che ormai non ci do più peso.
«A quanto so è un periodo bello lungo» mormora lui. Promemoria per me: tappare la bocca di Louis appena possibile.
Stupida pettegola.
«Forse».
Lo sento prendere un respiro bello profondo. «Al liceo il ragazzo di cui ero innamorato mi chiamava frocio. La sera mi scopava e al mattino mi faceva gli sgambetti. È andata avanti per due anni e qualche tempo, poi un giorno un suo compagno di squadra mi ha tirato un pugno mentre eravamo in palestra e mi ha mandato all’ospedale».
«Ah!» esclamo sorpreso, anche se non so cosa aggiungere, dopo. “Che stronzo”? “Mi spiace”? Calcare per l’ennesima volta espressioni consumate e masticate da tanti prima di me, così che Harry pensi che non m’interessi?
Effettivamente non m’interessa e non so per quale motivo me ne stia parlando (anche se ne ho una vaga idea); ancora una volta lascio che conduca la conversazione dove vuole, anche se sono pronto a evacuare la zona in caso di fumo e/o incendio.
«Quando sono tornato a scuola, qualche settimana dopo, nella stessa palestra sono tornato da lui e l’ho baciato».
«E cosa è successo?» chiedo incuriosito.
Domanda sbagliata, le labbra di Harry si stiracchiano in un sorriso amaro. «Un altro pugno».
Ops. «Oh». So essere molto espressivo quando voglio.
«Dovresti fare quello che senti di dover fare».
Sento puzza di bruciato, ecco tutto. Dovrei scappare? «Niall non è un tipo violento».
«Allora non ti beccherai un pugno da parte sua».
Lo guardo con le sopracciglia aggrottate e Harry si volta verso di me con un sorrisone. Quel ragazzo è portatore sano di diabete, non ci sono dubbi. Ha degli occhi incredibilmente verdi e se non fosse che preferisco l’azzurro, probabilmente anch’io ci farei un pensierino su di lui; non biasimo affatto Louis.
«Non voglio incontrarlo».
Mento anche a me stesso e ne sono consapevole. Ormai nemmeno chiudo la bocca prima di far scivolare l’ennesima stronzata tra i denti e non sento più quel peso che stringe il cuore dopo una bugia. La mia espressione sul viso è impassibile, la voce non trema e guardo dritto davanti a me, così che gli occhi non possano tradirmi.
«Importa poco che tu lo dica a me; l’importante è che tu abbia la coscienza a posto».
Detto ciò mi dà una pacca sulla spalla, mi saluta, deve incontrare Louis.
Alla fine quella stupida pettegola riesce sempre nel suo ruolo di grillo parlante, con tanto di vice. E io ho sempre più dubbi.

 

Viaggio, il paesaggio notturno scorre attorno a me in strisce blu e verdi e io sento i brividi della velocità alla base della schiena.
Quasi tremo, ho paura, ho freddo.
Dolore. Freddo.

 

Rettifico.
Sono accucciato sul pavimento da parecchio tempo a giudicare dalla maglietta arrotolata fino alle ascelle dalla luce del mezzogiorno che mi acceca dalla finestra. Il marmo è come ghiaccio sulla mia pelle e devo aver dato una spallata davvero forte perché per poco non mi trattengo dall’accucciarmi e iniziare a mugolare con le lacrime agli occhi. Lancio un’occhiata alla traditrice da cui sono caduto: la poltrona a due posti blu. Lei che mi guarda austera, impettita mentre mi giudica severamente dall’alto. Ha perso tutta l’aria accogliente che aveva fino a qualche tempo prima, i suoi braccioli sembrano troppo spigolosi per essere davvero comodi e la stoffa è anche ruvida contro la pelle.
Sono caduto dal nido, mamma non mi vuole più e devo prendere il volo. Oltretutto il terreno è pure troppo freddo, quindi è un motivo in più per alzarmi. Che palle.
Da steso mi accovaccio il più possibile fino a toccare coi talloni la stoffa morbida dei boxer e lì mi rendo conto di essere mezzo nudo; non mi ricordo nemmeno cos’ho fatto ieri. Ricordo un bel po’ di birra e un camionista tedesco con una passione per i tatuaggi.
Stavolta mi accovaccio in posizione verticale, con un occhio aperto e l’altro addormentato mentre, oltre alla memoria, cerco di recuperare un po’ di equilibrio. La serata di ieri è stata una pessima idea e quello con Harry, un pessimo incontro.
Mi alzo e striscio camminando verso la cucina –bramo un goccio d’acqua nemmeno fossi nel deserto- e mentre lo faccio passo davanti camera di Niall, rimasta intatta da quando è partito, fatta eccezione per l’ammaccatura che ho lasciato sul copriletto in un momento di malinconia qualche settimana fa.
Entro in camera. Il portachitarra è ancora lì nell’angolo, vuoto. L’amplificatore è sotto la scrivania con un lieve strato di polvere sopra e del disordine che in genere regna sovrano non c’è traccia.
Il riflesso che vedo nello specchio ondulato dell’IKEA mostra un ragazzo malconcio e calpestato. Sgualcito.
Dovrei alzarmi.

 

Viaggio, stavolta davvero.
Vedo le luci dell’aeroporto riflettersi sul terreno bagnato della pista. L’alba stenta a spuntare sotto i nuvoloni grigi, ma ogni tanto s’intravede qualche striscia rosa o gialla in lontananza. Dublino sembra piagnucolare al mio arrivo, ma non m’importa: sono qui per un motivo e non me ne andrò fin quando non avrò la certezza di avere un irlandese accanto a me. L’hostess ammicca mentre scendo dall’aereo con il mio zaino da campeggio –non sia mai Niall non mi voglia ospitare in casa per qualche giorno- e qualche passo dopo mi volto a vedere se mi sta guardando ancora. Le lascio un sorriso frettoloso e mi allontano a grandi passi per evitare la pioggerellina leggera.
Sono già stato qualche volta a Dublino con Niall. Come amico, intendo. Quando i miei avevano deciso di passare il Natale alle Bahamas, io non ero molto convinto di partire –non sono affatto un tipo da mare- e mi ero rintanato in casa a guardare la replica di una vecchia Champions League. Niall era tornato a casa per recuperare la valigia che aveva dimenticato –in compenso aveva portato con sé la chitarra- e mi aveva visto accucciato sulla poltrona arancione in solitudine.
Quattro ore dopo ero all’aeroporto di Dublino.

 

Mullingar dista un’oretta e qualcosa in pullman dalla capitale. Viaggio raggomitolato sul sedile consunto con le cuffie nelle orecchie, poco importa se la signora anziana accanto a me ha voglia di parlare. Un paio di ore fa mi sono svegliato dopo una sbornia –contenuta, ma sempre una sbornia- e il mio cervello è ancora in tilt. Dell’autostrada irlandese me ne frega ben poco, così posso rimanere a occhi chiusi pensando e ripensando a cosa farò quando mi ritroverò davanti Niall. È troppo buono per cacciarmi di casa –m’inviterà a bere una birra, almeno- e mi ospiterà senz’altro, anche se non vorrà parlarmi. Effettivamente avrei dovuto avvisarlo, magari è andato a fare un giro, o un viaggio alla ricerca della vera natura di lui stesso; forse il viaggio lo sta facendo con un nuovo ragazzo dopo aver accettato la sua omosessualità. Sì, pessima, pessima idea quella di non averlo avvisato. Ma ormai sono qui e non mi resta che pregare quel dio in cui credo un paio di volte al mese –in occasione degli esami- per far sì che la macchina gli si rompa poco prima di partire. Forse è un po’ egoistico pensare di poter sfruttare la Sua benevolenza per questioni prettamente personali, ma non riesco a sentirmi in colpa per questo. Dovrei esserlo per qualsiasi cosa, se no, anche per essermi fatto scappare Niall.

 

Scendo dal pullman con un forte dolore al coccige e poco ci manca che mi metta a camminare come un babbuino con i pugni sull’asfalto. È sabato e sono le sette di sera, c’è un po’ di movimento per le strade; vedo una ragazza bere birra dall’altra parte della strada, in compagnia di due ragazzi e per poco non mi lancio su di lei con un balzo degno di una scimmia, ancora una volta. La mia bocca è secca e brama acqua da quando sono in pullman –la mia bottiglietta l’ho dovuta abbandonare al controllo di sicurezza- e da quando ho iniziato a pensare a cosa dire a Niall, sono entrato in tensione, con un risultato ancora più raccapricciante.
Vago per le strade fingendo di non ricordarmi dove sia casa di Niall per prendere un po’ di tempo. Non sono abituato granché a improvvisare, non mi piace e non mi diverte; da quando se n’è andato ho dovuto improvvisare tutto, a partire da come vivere. Ho dovuto sperimentare qualche lavoro per guadagnare gli spiccioli che Niall pagava come affitto, sono finito a fare il commesso di un negozio d’antiquariato, il ragazzo che porta le pizze, il bibliotecario –lavoro che riprenderei a fare in questo esatto momento- per poi arrendermi e chiedere soldi ai miei. Ho imparato a non apparecchiare per due, a non cucinare per due e se mi fossi impegnato, avrei imparato anche a non sedermi sulla poltrona blu per due.
Ancora una volta mi trovo a immaginare cosa succederà quando  ci incontreremo e per l’ennesima volta compare nella mia testa un grandissimo punto interrogativo, accidenti.
Ma adesso sono davanti alla porta di casa sua e non c’è tempo per i dubbi.

 

Il campanello risuona a vuoto un paio di volte e non ci sono luci accese in casa. Sospiro, pensando che, per quanto sia timoroso, non ho alcuna intenzione di levare le tende. Ho incontrato la vicina di casa, quella modella svedese con le gambe chilometriche, e mi ha guardato un po’ confusa, forse disgustata: forse la vetrata della porta di Niall non è così ingannevole riguardo il mio aspetto. Nonostante sia una bella ragazza, non ho avuto il coraggio di lasciarle uno dei miei soliti sorrisi, come quello regalato alla hostess, e il pensiero delle sue lunghe gambe rese cerulee dalle calze colorate, mi è passato di mente appena ha voltato l’angolo.
Torno a guardare la porta mordicchiandomi le labbra. Busso per una terza volta e, oltre al mio cuore battere forte, sento dei passi all’interno della casa. Se adesso spuntasse  suo fratello Greg potrei svenire per la delusione.
Il rumore dei passi si avvicina sempre di più e sono sempre più convinto siano i suoi: pesanti, veloci, cadenzati. Falcate troppo lunghe per la sua statura che però rendono caratteristica la camminata dell’irlandese.
Da un momento all’altro vomiterò il cuore, lo sento nel petto, nella gola, nelle orecchie. Nelle mani strette a pugno con le unghie ficcate nei palmi. Si è fermato dietro alla porta per guardare dallo spioncino, credo sia così vicino da poter sentire il mio respiro affannato senza nemmeno concentrarsi.
Sento lo scatto della serratura girare, due, tre volte, e la maniglia si abbassa. La porta si apre.

 

La prima cosa che –non- vedo è l’oscurità della casa, che mi avvolge. Tipico dell’irlandese tenere le luci spente fin quando il più fioco raggio di luce ancora illumina il pulviscolo all’interno della casa, anche a costo di diventare cieco per leggere.
D’altra parte, la prima cosa che vedo davvero da quando si è aperta la porta e da quando lui se n’è andato, sono i suoi occhi. Chiari, sono ricoperti da un velo che può essere di malinconia momentanea o di gioia incontenibile, di quella che lo prende di colpo e lo allontana dalla realtà per guardare la felicità dall’esterno. Niall mi ha rivelato quel segreto quando eravamo stesi l’uno accanto all’altro sul mio letto, prima che ci baciassimo; quando è successo, dopo, non ho avuto il tempo per capire se fosse un momento felice. Ha chiuso gli occhi e ha pianto.
Adesso sorride: ha quell’adorabile sorriso a banana che gli si apre quando non ha assolutamente voglia di ridere e l’unica cosa che farebbe è mettere il broncio. Come quella che fa nelle foto di compleanno davanti alla torta, in attesa di mangiarla.
«Zayn, che… Che ci fai, qui?».
Ultimo sospiro. Adesso o muoio o svengo; Louis non a torto mi sfotterebbe dicendomi che sono una checca senza palle.
Dov’è Liam quando serve? Ho bisogno del suo equilibrato consiglio etero e distaccato: perché non l’ho chiamato prima di salire sul primo aereo per Dublino?
«Avevo voglia di una Guinness fatta in casa, Niall. Cosa vuoi che mi abbia portato qui?».
Sarcasmo a palate. Riscopro una strana voglia di arrabbiarmi con lui, istintiva, che si contrappone a una ancora più istintiva e passionale dell’odio. Il suo sorriso si ghiaccia per un istante, poi l’irlandese si sposta di lato per farmi passare.
«Ne parliamo dentro, ti va?».
Mi mordo la lingua per non fare altro sarcasmo.

 

Alla fine la birra me la offre lo stesso; so che non dovrei bere a stomaco vuoto e sento la nausea al solo ricordo della sbornia di ieri, ma ho sete e accetto. Niall si appollaia sullo sgabello sporgendosi sull’isola di legno, mentre io stringo le braccia al petto come se fossi io stesso a darmi coraggio e prendo tempo prima di parlare. Il chiacchiericcio dell’irlandese mi arriva distratto alle orecchie, parla di una partita di rugby svoltasi oggi nel campo vicino casa sua; del rugby me ne frega poco, non sono mai stato uno particolarmente sportivo e adesso ho altri grilli per la testa.
«Niall» mormoro guardandolo di sottecchi.
«…Poi, all’ultimo secondo dell’ultimo minuto, McCole ha fatto una specie di balzo e-».
«Niall».
Lui sposta lo sguardo dalla sua birra a me e mi chiede pietà con i suoi occhi cerulei, m’implora perché non vuole parlare, non davvero, almeno. Stringe impercettibilmente le labbra, come un bambino che sa di ricevere una ramanzina a breve e mi guarda in attesa della scarica di parole che s’infrange contro le povere vittime ogni volta che sono arrabbiato. 
Dio, lo odio quando mi guarda così.
Faccio per parlare, ma mi rendo conto che non so che dire. Boccheggio per qualche istante e poi ammutolisco, sentendo il sangue defluire velocemente dalle guance e impallidisco per la figuraccia. «Non so cosa dire» gli rivelo, schietto.
Niall mi deride con la sua risata fragorosa. «Se vuoi ti aiuto».
«Potresti chiedermi perché io sia qui».
Lui mi fa cenno di parlare, con la mano.
«Non ne ho idea» ammetto con lo sguardo basso, poi sospiro, rompendo la promessa che quelli davanti alla porta sarebbero stati gli ultimi. «Okay, in realtà un’idea ce l’avevo. Hai presente quando sei in questo stato di accidia perpetuo e non riesci a portare a termine niente di quello che dovresti fare? Quando, mentre studi, ti perdi a guardare il pulviscolo che vortica illuminato pensando ad altro o, mentre parli con qualcuno, lo osservi in cerca di un minuscolo dettaglio familiare che ti rammenti un’altra persona?».
Grazie al cielo Niall non mi guarda come se fossi pazzo, è solito assecondarmi quando vomito ogni singola parola che mi passa per la testa. Annuisce e abbassa lo sguardo.
«Volevo darci un taglio» continuo. «E, perdonami se sono poco poetico, ma non potevo andare avanti con il vuoto lasciato dalla tua assenza; sono venuto qui per capire cosa ho sbagliato con te, così vistosamente da farti scappare».
Inarca le sopracciglia. «Cosa hai sbagliato?!
Tu?!» prende fiato, incredulo. «Zayn, io me ne sono andato senza dirti niente. Io ho sbagliato, non tu; tu non hai niente da farti perdonare».
Faccio un sorrisino amaro sapendo che non mi dirà perché se n’è andato e, se glielo chiederò, lui si chiuderà a riccio e non parlerà in assoluto. È un po’ permaloso il mio Niall, ma va bene così.
Sfila la gamba su cui era seduto e scende dallo sgabello; si avvicina, mi guarda e sorride imbarazzato quando poggia le mani sui miei pugni chiusi. Le cose più belle sono anche quelle più semplici: un abbraccio, una carezza, un sorriso. Niall riesce a farsi perdonare con il suo tocco leggero e mi chiede una seconda possibilità. Lo osservo ed è incredibile quanto sia incantevole  con la sua aria di genuino ragazzo di campagna, con i capelli biondi scompigliati ad arte, le guance rosse per l’emozione e il sorriso carico di speranza. È la sua, la nostra rinascita.
«Non sono l’uomo che credevo di essere» inizia a dire e a me viene un po’ da ridere per l’
uomo. Si vedono le tracce dei suoi ventun’anni solo nei suoi occhi profondi, maturi e consapevoli, nelle occhiaie e nella postura ingobbita dai pensieri. «Sono cresciuto con l’idea che “da grande” avrei avuto una moglie, dei figli, l’orologio della fabbrica di famiglia che per tradizione si regala ai mariti dopo il matrimonio. L’ho sempre pensata come un automatismo, un percorso naturale che prima o poi avrei seguito anch’io. Le rare volte in cui ci pensavo, immaginavo una cerimonia in chiesa, una bella ragazza e i parenti sorridenti, ma non c’era nessun sentimento in quella visione, perché non ho mai amato una ragazza». Prende fiato, mi lancia un’occhiata di sottecchi per accertarsi che lo stia ancora ascoltando; io non posso fare a meno di guardare le sue labbra muoversi e stringo ancora i pugni per trattenermi dal travolgerlo una seconda volta. Dovrei imparare a procedere per gradi.
«Ho fatto sesso solo con ragazze, ho avuto qualche relazione anche duratura, mi trovavo bene con loro, ma non le amavo. Non me ne facevo un problema perché, come dicevo, credevo che l’amore sarebbe arrivato prima o poi».
Faccio una smorfia insofferente perché queste cose le pensavo quando avevo sedici anni e poco più; ho capito che le ragazze non sarebbero state il centro della mia attenzione verso quell’età e l’ho accettato senza particolari problemi, forse perché l’avevo sempre saputo.
Niall sbuffa perché i discorsi lunghi lo annoiano. «Mi hai sconvolto dal principio con le occhiate che mi lanciavi, come mi sfioravi e… Dio, perché devi girare per casa a torso nudo? Amo l’estate, ma per colpa tua mi sono ritrovato a sperare che ci fossero quaranta gradi all’ombra!».
Ridacchio arricciando il naso per il colore preso dalle sue guance al ricordo. «E così ti tento, eh?» scherzo, ma lui si intristisce.
«Già. E per me era tutto profondamente sbagliato».
Rimaniamo in silenzio per un po’, stretti in un abbraccio scoordinato, mentre la luce del sole scivola via lasciando spazio al cielo chiaro di Dublino. Niall appoggia il suo mento sulla spalla e anche se non riesco a sentirlo con l’udito, le sue lacrime bagnano la mia manica. Il suo respiro è spezzato, trema come un bambino e anche se è lui ad abbracciarmi mi sembra di proteggerlo dalla sua insicurezza.
«Ho sbagliato tutto» sussurra soffiando sul mio collo. «I miei mi guardano come se fossi uno scherzo della natura, mia madre evita di guardarmi per non mettersi a piangere, mio padre non mi sfiora nemmeno per sbaglio e mio fratello, per migliorare la situazione fa battutine idiote di continuo».
Indifeso e solo, si aggrappa ai miei pugni con forza. «Ci sono io, Niall. Non preoccuparti».
«Per non parlare in chiesa» riprende lui come se non avessi parlato. «Mamma deve aver parlato qualcuno; ho visto la moglie del calzolaio indicarmi sussurrando al marito domenica scorsa».
Alzo gli occhi al cielo. «Niall, io sono musulmano e mi piace la salsiccia» mormoro prima di rendermi conto di ciò che ho detto. Lui si allontana abbastanza da guardarmi scettico, con le sopracciglia che gli sfiorano l’attaccatura dei capelli.
Quando, dalla mia espressione smarrita, si rende conto che quel doppio senso è stato involontario, scoppia a ridere tenendosi la pancia.
«Nel senso che, uhm, mangio carne di maiale» preciso grattandomi la nuca freneticamente. Niall ancora sghignazza e vedo i suoi occhi lacrimare per la risata. È da quando sono arrivato che non rideva così apertamente; sembra essersi liberato dal peso, raddrizza le spalle e sorride raggiante come lo ricordavo.
Si allontana di scatto e mi volta le spalle, si avvia verso il corridoio –le mie mani già bramano le sue.
«Dove vai?» chiedo senza nemmeno pensarci, prima che possa tapparmi la bocca. Niall mi lancia un’occhiata mentre ancora sorride nel buio.
«Vado a cercare un post-it. Dopo prendo la valigia e partiamo».

 

Il sole in Inghilterra è raro. Spesso se ne vede un accenno verso le otto di mattina, una striscia aurea tra le nuvole, ma non c’è da sperarci più di tanto. Siamo in aereo e intravedo il vapore argenteo sullo sfondo scuro della notte: ancora una volta, è inutile sperare nel bel tempo per domani. Certo, avrei preferito il cielo terso, gli uccellini che cantano e i passanti che prendono a ballare tutti insieme come in un musical per l’arrivo di Niall, ma devo dire che anche l’aria plumbea dell’Inghilterra mi sta bene.  Mi ricorda la normalità, l’abitudine e sembra che lui non se ne sia mai andato.
Sbuffa di fianco a me mentre cambia lato su cui dormire; si appoggia sul mio petto e i suoi capelli mi solleticano il naso. Gli accarezzo una guancia col dito mentre penso a ciò che mi ha detto poche ore fa.
Aspettavo il taxi mentre lui chiudeva la porta di casa; i suoi erano partiti per andare sulla costa –per evadere, aveva precisato Niall- e l’avevano lasciato da solo dandogli il minimo necessario per sopravvivere. Così per lui era stato facile ripagarli della stessa moneta, chiudere la porta, arrivederci e grazie.
Mentre il pastore dell’unica chiesa protestante di Mullingar attraversava la strada per raggiungere il marciapiede opposto al nostro, avevo sentito le dita di Niall infilarsi tra le mie e stringere la mia mano. L’avevo guardato sorpreso, allungandomi col collo per controllare che nessuno fosse nei paragi.
Lui aveva sorriso ancora una volta e si era avvicinato a un palmo dal mio naso. «
Se non è un problema per me, perché dovrebbe esserlo per loro?».

 

È diventato forte, il mio Niall. Siamo diventati forti.
Poco importa se ci abbiamo messo mesi e mesi per riavvicinarci, facendo il pieno di caffè, telefilm più o meno scadenti, partite di rugby dell’oratorio o pub maleodoranti prima di averne il coraggio.
Ma ora siamo qui. Sulla poltrona blu a due posti, insieme. Lui è accoccolato contro il mio petto, le gambe rannicchiate entro i braccioli e mani ancorate alla mia maglia. Io lo avvolgo per quanto posso, le mie braccia sembrano fragilissime rispetto alla sua presa salda e lui se ne accorge.
«Quanto hai mangiato in questi mesi?».
Aggrotto le sopracciglia al suo sorrisino di scherno. «Normale. Pub, birra. Caffè, caffè, caffè. Al solito».
«D’ora in poi cucinerò io. Potrei morire di fame, altrimenti».
«Uhm, Niall, se non trovassi nulla nella dispensa, probabilmente mangeresti il Sole».
«Che figaaata, vado a energia solare» delira, chiudendo gli occhi per il sonno. Eppure non fa una piega: è notte, sarà scarico.
Ma io sono sveglio e malvagio. «Niall».
«Uhm» borbotta a occhi chiusi.
«Se non fossi venuto a prenderti, quanto ci avresti messo a tornare?».
Apre gli occhi e m’investe col suo azzurro. «Zayn, io ero pronto da secoli. Ero pronto da quando ho varcato la soglia di casa».
«E allora…?» chiedo confuso.
«Ero pieno di rimorsi, credevo…». Sospira cercando di guardare altrove; la poltrona è molto stretta e io gli sono addosso, quindi torna con lo sguardo su di me. «Credevo che non mi avresti perdonato».
E io credevo di aver sbagliato, di aver interpretato male i suoi segnali –d’altra parte, non mi aveva mai detto niente delle sue faccende intime. Temevo di aver corso troppo.
Mi volto verso di lui con un sorriso malizioso.
«Bambi, mi fai paura quando mi guardi così» mi avvisa Niall infrangendo l’atmosfera piana di qualche istante fa. Se non fosse che è a meno di una falange dalla mia bocca mi lamenterei del soprannome, ma riscopro che le sue  labbra hanno un certo potere su di me.
«Niall...» gli lancio uno sguardo eloquente e, se è possibile, mi avvicino ancora di più. «Posso?».
Le sue labbra devono essersi stese in un sorriso mentre ci baciamo, anche se non me ne rendo conto per la foga. Ci sarà tempo per la dolcezza, poi. Si scontrano i sorrisi, i denti, s’incontrano i morsi, i sospiri, e ogni tanto anche gli occhi. Le sue mani percorrono per quanto possono il mio petto, mentre io mi aggrappo al suo collo. La mia barba gli dà fastidio, perché lo vedo sottrarsi di tanto in tanto, ma il momento è perfetto anche per questo.
«Zayn» mi chiama sussurrando e il mio nome non può essere più perfetto tra le sue labbra. «Sei davvero troppo magro».
Alzo ancora gli occhi al cielo e sto per dargli un buffetto, quando lo vedo sorridere.
«Scherzavo, scherzavo. Solo… Non chiedere più il permesso per queste cose, okay?».

 

 

 

 

*

 

 

 

 

 

 

Flamel_'s corner!

Uhm, sono stata mooolto indecisa sul titolo di questa cosa. Il suo qualcosa? Let us be? Sole e caffè? Let you be? Boh.
Alla fine ho optato per il primo perché è il primo che ho scritto, di getto e, anche se non ha troppo senso, ci sono affezionata. Un po' come la storia, non ha senso, ma ci sono affezionata, anche se a un certo punto l'ho odiata e l'ho soprannominata MOS (Maledetta One Shot). 

Spero non abbiate vomitato dalla bruttitudine, ma fatemi sapere in ogni caso!

Ah, dimenticavo! Zayn, Niall e compagnia bella non sono realmente così, questa OS non è una rappresentazione del loro vero carattere né delle loro... preferenze :'). Non intendo offenderli in alcun modo e bla bla, è puro lavoro di fantasia.

F_

 

 


 

 

 

  
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Flamel_